Stavo in piedi nella piattaforma anteriore del tram, accanto a un giovanotto leggermente più anziano di me: di media statura, coi baffetti biondi, i capelli curati, conservava le fisime degli studenti di vecchio stampo: apparteneva a un tipo di studente sempre più difficile a incontrarsi. Il suo modo di vivere m’interessava e lo seguii con lo sguardo quando scese avviandosi verso il cancello del Policlinico.
Io scesi all’Università. Nel pomeriggio nuvoloso i viali erano deserti; le costruzioni apparivano aride e senza vita, di là dai cipressi del camposanto fischiava un treno: e mi sembrò di percepire il rumore, lungo, insistente, lontano: mentre sopra il tetto del Policlinico si levava impetuosamente un fumo nero scaturito dalle viscere di padiglioni e padiglioni dove i medici curavano uomini e donne sofferenti. Su dalle cucine, dalle lavanderie e dai laboratori il fumo nero offuscava le nuvole scure.
E vidi, tornando a piedi per il viale alberato, il susseguirsi di quei padiglioni, cinti da brevi pezzi di giardino, comunicanti tra loro per corridoi aerei, con su scritti a grandi lettere nomi italiani e stranieri. Passai davanti a parecchi cancelli, sempre pensando alla vita degli studenti in medicina: una vita di lavoro dove le sigarette e l’amore occupano i pochi momenti liberi. Non è significato tutto ciò nel semplice titolo Elena, studentessa in chimica?
Figuratevi Fritz, per dire un nome, ed Elena studentessa in chimica. Figuratevi la loro gita in barca, un pomeriggio di domenica. Figurateveli sdraiati sull’erba vicino all’acqua che scorre, Fritz in maniche di camicia e il giovane corpo di Elena sotto il bacio di lui… oh, Elena, tu rimarrai incinta!