Sovente indugio a ricordare gli anni della fanciullezza. Non per rimpianto, semmai a volte rimpiango di non essere vissuto in un altro modo; e poi sarebbe assurdo voler tornare a quel tempo che veramente è passato. E dopo tutto ciò che è stato è ancora. Torno col pensiero a quel tempo appunto per ritrovare ciò che è stato, ed è tuttora (e sempre sarà).

Per esempio il mio quartiere: un insieme di case grigie, vasti fabbricati con cortili sempre in ombra, strade ugualmente grigie, monotone e tristi: muri grigi, in alcuni punti ravvivati da cartelloni colorati annuncianti i film. Due cinema. Una strada dove passano i tram, più ampia e molto più affollata, con sfilate di negozi.

Ho il ricordo malcerto di un giorno lontanissimo. Una folla multicolore si muove su un prato immenso sotto un cielo azzurrino, nella luce di un pomeriggio festivo: ho tre o quattro anni ed è come se i miei occhi si affacciassero per la prima volta sul mondo: perché in quel momento ho coscienza di esistere per la prima volta. Il caos dell’esistenza istintiva si è dissipato. Io, Carlo, distinto dalla folla, dal prato, dalla luce e dal cielo, vedo per la prima volta la folla, il prato, la luce e il cielo; mai sarò più felice.

Perché in quel momento avevo davanti a me la vita. Esiste una parola più grande di questa? Quando si è detto: la vita, si è detto tutto! Ma riflettete: dopo quel momento, ogni ora che passò, la mia vita andò sempre più circoscrivendosi: tutti i piccoli fatti di cui s’intessé valsero a definirla, quindi a limitarla: furono come tante ipoteche sulla mia proprietà inizialmente illimitata. Più procedei nel tempo, più la felicità del primo momento apparve ingiustificata.

Anche i primi anni che seguirono furono belli. Delle rare nevicate di Roma conservo il ricordo del mio giardino bianco e di me che quel giorno non andavo a scuola. Il sillabario e il primo libro di lettura furono libri meravigliosi.

È Pasqua, è Pasqua, bimbi fate festa!

Così cominciava e così si chiudeva una poesia di sei versi, sotto un’illustrazione dove si vedevano alcune aiuole coperte di margherite: era possibile dir meglio la gioia di un mattino festivo?

Il giardino dove trascorrevo tante ore del giorno era quadrato e racchiuso tra la mia casa, due muri che mi davano l’impressione di una grande altezza, e una rete metallica. Durante il pomeriggio il mio giardino era sempre in ombra. Là dentro ero felice come solo può esserlo un animale in gabbia. Tutto quello che succedeva fuori non arrivava a me.

E ora come ho potuto ridurmi così? Come ho potuto diventare timido e impacciato se i miei occhi si posavano sulle cose con tanta sicurezza, come la vanità e la lussuria hanno potuto spingermi ad azioni il cui ricordo mi fa allegare i denti, gemere i nervi per l’insopportabile vergogna? Come ho potuto smarrire il mio sereno incedere nel mondo?

Il primo libro per grandi che mi capitò tra le mani fu La certosa di Parma. Allora mia sorella maggiore parlava sempre di finezza e di intelligenza. Io esaminavo i due volumi di piccolo formato, con le pagine fittamente segnate di caratteri smorti; li annusavo e quasi mi sembrava di sentire l’odore della finezza e dell’intelligenza. E finezza e intelligenza emanavano dal tessuto stesso del racconto, in quel continuo raffittire di personaggi nuovi dimenticando gli antichi. Quello che sembrava il protagonista scompariva per dar posto a uomini vecchi o già morti di cui si raccontavano il passato, le abitudini e le convinzioni. Mi sembrava che lo scrittore temporeggiasse, evitando di entrare nel vivo dell’intreccio e dell’interesse. Quando finalmente la storia di un personaggio si mise a filo, ecco a disorientarmi la battaglia di Waterloo. Io l’avevo letta e riletta nelle brevi notizie dei libri di storia, l’avevo ricostruita dai disordinati racconti di mio fratello maggiore (cui credevo più che ai libri) e mi ero disperato fino alle lacrime per la fatale sorte di Napoleone. Rimasi del tutto deluso dalla descrizione della battaglia in Stendhal, dove una vivandiera aveva più rilievo che tutti i marescialli, gli assalti e le brigate. Dopo questa delusione abbandonai la lettura del libro noioso sì, ma che mi aveva ispirato tanto rispetto.

Qualcosa di simile provai vedendo un film dal titolo L’invasore. Si svolgeva tutto in un castello verso il Baltico ai tempi dell’occupazione comunista. Un ufficiale vestito di nero, col berretto di pelo, gli stivali e il frustino, prendeva possesso del castello alla testa dei suoi soldati prepotenti e ubriaconi. La signora del castello era alta, fine, ancora giovane sebbene avesse un figlio già grande, tenente dello Zar e controrivoluzionario. A metà film arriva al castello un commissario del Partito comunista: un uomo ormai anziano, alto, aristocratico: una figura completamente opposta a quella dell’esuberante ufficiale che faceva alla signora una corte spiccia e sfrontata sotto gli occhi impotenti del figlio travestito da servitore. Quali tragiche scene!… quando il figlio non ne può più, l’ufficiale lo scudiscia e la mamma deve fingere… ma io avevo già capito che l’ufficiale, con tutta la sua invadenza, era una figura di secondo piano: l’attore principale era il commissario. C’era un passato molto remoto che lo legava alla signora: e ora i due facevano un gioco serrato di finezza e d’orgoglio che io intuivo senza capire. Mia sorella l’avrebbe capito: io ero troppo grossolano per certe cose.