E ancora un nuovo settembre che passo in campagna. Qualche anno fa, in questo mese, mi ammalai di tonsillite in maniera insolitamente grave. Gli sciacqui di menta si uniscono nel ricordo ai libri gialli che leggevo durante la non breve convalescenza e a un trench bianco che indossai non appena fui in grado di uscire: un trench antiquato, tutto risvolte, ganci e cerchietti: a me gradito perché nell’aria fresca fra un temporale e l’altro per la solitaria via di campagna mi faceva sentire simile a uno di quei protagonisti di storie poliziesche…
A tutto questo penso ora sotto le stelle. Stanotte mi sono svegliato al ticchettio fragoroso dell’acqua. Ho assaporato la gioia del primo temporale, quello che chiude l’estate e apre l’autunno. Ho pensato lungamente alla campagna sotto la pioggia; sentivo l’acqua scorrere nelle grondaie e precipitare nel pozzo. Infine ho ripreso sonno e ho sognato a lungo, cullato dalla tempesta.
E stamani ho salutato la campagna intrisa di pioggia mentre già si faceva largo l’azzurro. Verso mezzogiorno il cielo è tornato coperto; e verso sera si è rasserenato un’altra volta. Quest’altalena durerà ancora parecchi giorni. Ogni tanto un temporale. Forse la grandine picchierà rabbiosa sui vetri mettendo in allarme i miei parenti per la sorte dell’uva e delle olive; ma io mi accomoderò meglio sulla poltrona pregustando i biscotti col tè e una partita a carte in famiglia.
È notte. Un’enorme luna rossa si è appena alzata sull’orizzonte. Illumina i boschi che videro le gesta degli ultimi briganti quand’ero piccolo io. Mi ricordo benissimo: ne sentivo parlare e parteggiavo per i briganti. Spesso m’immaginavo l’estensione della macchia in cui se ne stavano al sicuro. Il punto preciso dove si trovavano era al centro della macchia: chilometri e chilometri li proteggevano dalle guardie in tutte le direzioni. La macchia ideale era press’a poco rotonda e poteva avere appendici qua e là ovvero strozzature che la riunivano ad altri boschi: i briganti vi si avventuravano ma solo per la gioia di sentirsi nuovamente al sicuro una volta tornati nella macchia centrale. Questa non doveva contenere radure, fossi o altre interruzioni, ma essere tutta un foltissimo intrico. In treno guardavo dal finestrino le macchie della Maremma che si succedevano sotto i miei occhi e giudicavo quale fosse più adatta per esser covo dei briganti. Più adatta significava naturalmente più vasta e più folta. Amavo più le macchie basse di quelle alte: basse, ma sufficienti a nascondere un uomo. A volte ne vedevo qualcuna che mi sembrava adatta. Là, nel mezzo, fermi e felici, dovevano stare i briganti. Ma tutti questi pensieri nascevano in me di giorno, perché la notte avevo paura e non mi sarei avventurato in un bosco per niente al mondo.
Ben altri pensieri nascono in me stanotte. Non fantastico né ho paura del buio. Seduto sul muricciolo davanti alla casa, fisso la luna, giro e rigiro il nocciolo del problema. Da molto tempo l’attesa è finita… voglio dire che sono in gioco. E non so ancora di che gioco si tratta.
Immagino strade laggiù dov’è buio. Strade che passano attraverso paesi addormentati; che continuano a passare mentre le case dormono. Mi sembra che il mio viso sia indurito dall’età, che sia degno di quelle strade. Perché qui io non devo restare. Qui in campagna io sono di passaggio; sono di ritorno alla mia vecchia casa dove ho passato tante ore liete in altri tempi… di ritorno da dove?
E spalanco gli occhi nel buio, verso le invisibili strade…
Commoventi le storie di amicizia e solidarietà tra animali diversi, più ancora di quelle tra animali e uomini. Quand’ero piccolo e vivevo in campagna, io m’interessavo molto di simili storie.
Avevo un debole per i gatti; il mio fratello maggiore, invece, disprezzava i gatti notoriamente egoisti e traditori e mandava alle stelle la proverbiale fedeltà del cane. Queste chiacchiere mi facevano andare terribilmente in collera e ce l’avevo non solo con mio fratello, ma anche col cane. Sbollita la collera, mi riconciliavo col cane, che è un buon animale, e non fa pompa delle qualità che gli si attribuiscono: ma può diventare antipatico a furia di sentirlo lodare.
Parteggiavo per i cani nella loro lotta contro gli accalappiacani. E in ogni occasione parteggiavo per cani e gatti contro gli uomini. Avrei voluto che cani e gatti dimettessero l’odio tradizionale che li divide per unirsi nella comune lotta contro gli uomini. Ebbene, tra i miei gatti e il mio cane non c’era odio, questo è vero: c’era indifferenza: e questo pur sempre mi dispiaceva. Avrei voluto vederli, ripeto, uniti, affratellati nella comune ricerca del cibo, nella comune difesa contro la malvagità degli uomini. Gli occhi mi si riempivano di lacrime e il petto mi si svuotava dalla tenerezza, immaginando uno dei gatti (il più vecchio, il mio preferito) e il cane dividere affettuosamente lo stesso covo nel fienile, andare insieme alla cerca e alla caccia e spartirsi poi gli ossi, i topi e ogni altra preda fatta. Li immaginavo andarsene a spasso insieme, discorrendo, e fare insieme la siesta a un fresco. La loro collaborazione assumeva aspetti epici nella lotta contro gli accalappiacani. Quando il cane veniva circondato era il gatto che salvava la situazione saltando nel cerchio e spiccando balzi formidabili, graffiando a sangue, strappando gli occhi (a questo arrivavo nei momenti d’odio contro gli accalappiacani, a desiderare simili atrocità): sì che il cane, approfittando dello scompiglio, poteva fuggire (col gatto sulla schiena a mo’ di cavaliere).
Questo vecchio gatto io lo chiamavo il gatto “svevo-bavarese”. Fondamento di questa denominazione era il ricordo storico di eserciti e coalizioni. Ora il gatto svevo-bavarese e il buon cane si ignoravano completamente.
Se nella mia campagna non c’era fratellanza tra gli animali, c’era invece fratellanza tra gli alberi: tra un noce e un olivo. Nati entrambi, chissà come, sul ceppo marcito di un vecchio olivo, erano poi cresciuti felicemente: ormai già grandi, confondevano le loro fronde: grigioazzurre dell’olivo, verdi tenere del noce. Il noce era un po’ più alto, l’olivo un po’ più tozzo.
Passeggiavo con mio padre e gli facevo sempre le stesse domande. Guardavamo il panorama e io domandavo:
«Come si chiama quel paesino lassù sul crinale… dove si vede quella fila di cipressi?»
«Castelfalfi» rispondeva mio padre, non so più se paziente o dimentico che quella domanda gliel’avevo già fatta cento volte.
Il pomeriggio la nostra casa era visitata da zii e da zie. Mio padre che amava poco quel cicaleccio all’ombra delle querce, mi faceva un rapido cenno e, con una scusa o con l’altra, ce la squagliavamo insieme. Passando davanti al noce e all’olivo io gli dicevo invariabilmente:
«È una cosa molto curiosa, non ti pare?»
«Curiosa» diceva mio padre.
«E come mai proprio un noce e un olivo? Non c’è per caso qualche speciale ragione…»
«Già,» rispondeva mio padre non troppo sicuro di quanto stava per dire «forse perché il noce e l’olivo sono piante che dànno olio tutt’e due…»
Eravamo lì fermi considerando la strana coppia; e io domandavo:
«Ma quando ti accorgesti che un noce e un olivo erano germogliati sullo stesso ceppo, cosa pensasti? Perché non recidesti uno dei due?»
E qui mi sembra di ricordare che la risposta di mio padre fosse piena di compiacenza:
«Dissi: lasciamoli fare. Quando saranno più grandi, vedrò quale dei due convenga salvare: se il noce o l’olivo. Crescevano ed erano entrambe due belle piante. Di anno in anno rimandavo la decisione di sacrificarne una: finché mi accorsi che potevano anche convivere. Perciò, come vedi, feci bene a non intervenire quand’erano piccoli. Credi a me, il meglio è lasciar fare alla natura.»
E dopo un elogio della natura, da buon materialista e positivista qual era, mio padre se ne tornava alla compagnia che prendeva il fresco vicino a casa. E là mia madre ci chiedeva: «Dove siete stati tutto questo tempo?» e c’era, nella domanda, una punta di rimprovero per il marito che se la squagliava troppo spesso.
«Non si dice» rispondeva mio padre: mi strizzava l’occhio e mi stringeva un ginocchio, fino quasi a farmi male. Io ero felice di questa complicità.
Intanto il giorno declinava. Una mia zia, che era ancora giovane, scendeva nel castagneto insieme a mia sorella, in cerca di felci e di ciclamini. Al ritorno avevano le trecce infiorate, e grandi esclamazioni accoglievano sempre la loro ricomparsa.
Presto io mi seccavo di stare in compagnia dei grandi. Tornando a girellare per i campi senza una meta, mi ritrovavo davanti al noce e all’olivo. Se per mio padre quella era una semplice curiosità, o un segno della saggezza di Madre Natura, per me era uno spettacolo affascinante… Al contrario degli animali, gli alberi passano la vita fissi nello stesso luogo. La vita di un albero è esclusivamente contemplativa. La vita degli animali è fatta di distrazioni, di stupefacenti, di esperienze inutili.
Quand’ero piccolo “paravo” l’uva anch’io insieme coi ragazzi dei contadini. Il sole di settembre ci scaldava a sufficienza, senza però intontirci come quello di agosto quando, per spirito di perversione, ci abbrutivamo nel polverello.
Il pomeriggio subito dopo mangiato ci recavamo sulla strada e io non dovevo tornare a casa prima di buio perché la merenda ce l’eravamo portata: pensavamo poi noi a perfezionarla con chicchi d’uva spremuti e mescolati insieme con more e noci in certe terrine comperate alla fiera per pochi soldi. Avevamo quattro ore buone davanti a noi: quattro ore per giocare, per fare qualunque cosa! Dio, che felicità! Poi, magari, non si sapeva cosa fare oppure cominciato un gioco, per es. nocino, presto ce ne stancavamo, mangiavamo le noci e non se ne parlava più. Ma avere tanto tempo libero davanti a noi, quella era veramente una gran cosa. In quegli anni cominciai un romanzo: un ragazzo, passato agli esami, veniva premiato dal padre con sette anni di villeggiatura: il romanzo doveva appunto trattare delle avventure capitate al ragazzo durante la villeggiatura. Avevo buttato là quella cifra, sette anni, appunto per avere un bel lasso di tempo davanti a me, davanti alla mia fantasia. Non cominciai nemmeno la narrazione delle avventure, ma l’inizio del romanzo cadde in mano dei miei fratelli che si misero a beffeggiarmi: «Se quel ragazzo» dicevano «ogni anno che passa a scuola ne ha in premio sette di vacanza, allora fa un anno di scuola e sette di vacanza; a che età finisce di studiare?». Facevano il conto, venivano centoventi o centocinquant’anni, così sghignazzavano alle mie spalle.
Per quanto nessun ladro sia mai entrato nel campo quando insieme coi ragazzi dei contadini paravo l’uva, non c’è dubbio che all’occasione avrei esercitato le mie mansioni di guardiano con grande zelo, deciso a fare il possibile perché non un chicco venisse asportato dalla vigna. Presto sarebbe venuta la vendemmia e poi la svinatura, che tanto mi faceva spasimare nell’ansia di raggiungere un numero di barili e di fiaschi il più alto possibile. Il mio podere era posto su una collina sassosa e bruciata, produceva poco vino: tre barili e sei fiaschi, quattro barili e due fiaschi, cifre di questo genere. Molte volte, cogliendo una ciocca o piluccando qua e là, la mano mi s’arrestò al pensiero che, così facendo, diminuivo la quantità del vino. “Se fossi nei panni di mio padre,” pensavo “non permetterei a nessuno di cogliere nemmeno un chicco.” Lo stesso era per le castagne: trovavo inconcepibile che mio padre desse il permesso di bacchiare un castagno primaticcio o che facesse raccattare e cuocere le castagne cadute da sé nelle giornate di tramontana. «Che bella cosa,» diceva mio padre, con un tono epico addirittura «almeno per la svinatura abbiamo qua una buona pentolata di ballotte. Vino nuovo e castagne novelle! Quelle che cascano da sé son senz’altro le migliori.» Ma tra dieci giorni ci sarebbe stata la bacchiatura e tutte le castagne che mangiavamo prima erano tolte al mucchio dei ricci nell’aia! E a me non importava nulla delle castagne cotte (che tra parentesi mi piacevano poco, come non mi piaceva il vino): m’importava delle castagne crude, dei corbelli di ricci che venivano vuotati nell’aia.
E sempre lo stesso sentimento mi muoveva quando mia madre mi mandava in giro per le uova. Per racimolare qualche coppia d’uova mi toccava girare parecchie case di contadini. Ogni volta che mi mettevo in cammino, pensavo: “Se stavolta potessi portare a casa quindici coppie, macché, di più, un numero straordinario, quaranta, cinquanta coppie!”. Tra parentesi, se veramente fossi riuscito a portare a casa cinquanta coppie d’uova, mia madre si sarebbe messa le mani nei capelli per non saper che farne. Una volta battei tutti i primati: riportai dieci coppie. O meglio, ero sulla via del ritorno con dieci coppie nel paniere, felice come un gatto: quando m’imbattei in una famiglia di città reduce da una scampagnata: e il padre mi fermò dicendo se gli vendevo una coppia d’uova. Risposi di no; e quello: «È per i due ragazzi,» diceva «poverini, guarda come sono sbiancati! Un uovo li rinfrancherà». E io duro. «Ma come,» faceva quello stupito «quanto le hai pagate? Te le pago il doppio, che fa, ma guardali povere creature. Non si reggono in piedi.» Da ultimo me le prese si può dire a forza. Scocciò un pezzetto di guscio, dopodiché i due ragazzi bevvero un uovo per uno. Oltre al dispetto per dover portare a casa una coppia di meno, li guardavo anche con un senso di schifo perché a me un uovo a bere non me l’avrebbero dato davvero: mi sarebbe sembrato d’ingoiare un rospo.
In quegli anni cominciai un romanzo d’ambiente medioevale: si svolgeva dalle mie parti, anzi io pensavo che riproducendo fedelmente i luoghi, con scrupolosità assoluta, viottolo per viottolo, proda per proda, avrei senz’altro scritto un grande romanzo. L’idea di scrivere questo romanzo mi era nata passando per una forra umida e intricatissima: là in mezzo doveva vivere il protagonista, al sicuro da qualsiasi sorpresa… e non sapevo altro. Finché un giorno ascoltando i discorsi dei miei fratelli che parlavano di una festa e di un tale che sbafava a tutt’andare: «Quello,» disse uno dei miei fratelli «ma sarebbe capace di mettersi in tasca una bottiglia». Si misero a ridere ma io trovai la cosa tutt’altro che da ridere e cominciai il mio romanzo: un tale va a una festa e non solo mangia e beve, ma soprattutto si nasconde nelle tasche paste, pezzi di torta ecc. Costui conviveva con un amico: abitavano in una stanza così piccola che appena potevano starci sdraiati: là vivevano felici al sicuro dalle intemperie, senza far altro che mangiare quando avevano del cibo. Figuratevi la gioia dell’amico quando colui torna nella stanza con tutta quella roba!
Ci fu un altro romanzo incompiuto che cadde nelle mani dei miei fratelli. M’era venuto in mente vedendo la copertina de La luce che si spense di Kipling; nelle mie intenzioni doveva essere un romanzo psicologico, cioè interamente riservato alla pittura dei caratteri, allo studio dei tipi. «Quei tipi… come sono veri!» diceva mia sorella e aveva per le mani volumi della collezione Nelson, libri interminabili dall’odore acuto. Protagonista del mio romanzo era un arabo: ma siccome in quel tempo il nome che più mi piaceva era Larsen, nome da me appreso in un celebre romanzo di Jack London, così battezzai Larsen il mio arabo. E i miei fratelli, a sentire che un arabo aveva un cognome norvegese, nuovamente risero e si fecero beffe di me.