Non posso parlare di quando incontrai Giacomo la prima volta: credo che mi abbia visto nascere, o qualcosa di simile, perché ha tre anni più di me. Manca così la “prima impressione”.

Io lo vedevo regolarmente ogni anno nel paesino di M*, dove le nostre famiglie si recavano per le bagnature.

Ricordo una volta che mi accanivo contro la pena di morte, mentre Giacomo era disposto ad ammetterla, in certi casi. Più tardi ebbero inizio le discussioni in materia religiosa, che si protrassero per più di un’estate. Allevato in una famiglia non credente, io persi presto la fede; e sostenni le mie più accanite discussioni con Giacomo, che era di famiglia religiosa. Non ricordo affatto gli argomenti portati in campo, ma ricordo che chi parlava di più ero io: e anche, mi pare, avevo un maggior vigore dialettico e mettevo l’avversario con le spalle al muro, ma quello non voleva riconoscere di aver torto: io mi eccitavo grandemente e finivo con l’andare in collera, mentre Giacomo rimaneva calmo (tutto questo era notato dai miei familiari: già allora essi convenivano che Giacomo era più tranquillo, più posato, più remissivo di me). Ci accomunavano sempre nel giudizio, quasi che non si potesse dare un giudizio su di me senza confrontarmi con Giacomo. Molte volte ho sentito dire: «Giacomo, povero Giacomo, tanto buono lui…»; «Io gli voglio proprio bene a Giacomo, è così quieto…». Me lo mettevano davanti come un modello: erano sempre a farmi quel nome, senza parere (pensavano loro: e invece il gioco com’era scoperto!). Questa interferenza della famiglia ha sempre intorbidato i miei rapporti con Giacomo.

Veniamo a tempi più recenti: verso i miei tredici anni. Giacomo aveva già scelto la sua strada: sarebbe divenuto professore, professore di lettere, ed era una carriera che indubbiamente gli si addiceva, per la sua mitezza, la sua parsimonia e la sua mancanza di ambizione.

Le discussioni sulla religione furono sostituite da quelle sulla letteratura. A dir la verità, le mie conoscenze letterarie si limitavano al Carducci, che idolatravo, e al Manzoni, che combattevo (più che altro per partito preso). Le cognizioni di Giacomo erano più estese. Tutt’e due poi facevamo dei versi: io non ho mai letto una sua poesia per intero, ma ricordo un verso staccato, da lui concepito in treno, appunto sull’effetto del treno che imbocca una galleria:

fischiando si precipita nel buio.

Facevamo anche delle filastrocche con la stessa rima, un verso ciascuno: mi ricordo, in -ato:

… e tosto condannato
ad esser fucilato.
Però non fu ammazzato
perché gli fu sparato
con schioppo caricato
di pesce marinato

ecc. E delle poesie di quattro versi, a soggetto: ne riporto una di Giacomo:

Il 420
se spara fa le fosse;
eppur la moglie mia
le spara anche più grosse.

Una volta una ragazzetta molto saccente (una vera peste) ci diede a leggere una sua novella (veramente lacrimevole). Per primo cominciò a leggerla Giacomo e siccome era l’ora del bagno ci spingemmo nell’acqua: la ragazzotta strillava che le riportassimo il quaderno.

«Leggi facendo il morto!» gridai.

E Giacomo, impensatamente, aderì alla mia idea e si stese sull’acqua agitando i piedi a stantuffo e tenendo alto il quaderno per leggere. Naturalmente il quaderno finì infradiciato. Quelli erano i momenti migliori della nostra amicizia: quando Giacomo aderiva alle mie iniziative con compiacente tranquillità. Quello era il Giacomo che amavo e che forse i miei parenti non sospettavano nemmeno.

Così, per esempio, nel primo pomeriggio io proponevo una lunga passeggiata nelle pinete e, chissà perché, ero sicuro che Giacomo non avrebbe accettato. Invece Giacomo accettava e, magari, perfezionava l’idea: così dalla spiaggia tornavamo a casa a prenderci la merenda per consumarla poi nel corso della nostra passeggiata. Giacomo prendeva anche un temperino per sagomare le grosse scorze di pino a forma di imbarcazioni.

Una volta, durante una passeggiata, c’imbattemmo in una mota consistente, che si prestava ad essere modellata, e Giacomo, senza dirmi nulla, si mise a modellare una testa di donna. Ero voltato e quando me ne accorsi mi buttai con entusiasmo a far lo stesso lavoro. Modellammo due o tre teste ciascuno e poi le nascondemmo in un cespuglio. Un paio di volte io proposi di tornare in quel luogo (che era abbastanza lontano): e sempre Giacomo accondiscese. L’ultima volta stava lavorando a una testa e non gli riusciva portarla a termine: a un tratto la vidi spaccata davanti ai miei occhi. L’aveva “tranquillamente” buttata in mezzo alla strada. Entro due minuti tutti i nostri capolavori erano in pezzi nella carraia.

E ancora mi ricordo: camminavamo sulla creta spaccata tra i radi fili d’erba e i primi arbusti quando a pochi passi da noi si levò un fagiano. Quella vista mi entusiasmò. Il mio appassionato interesse per le cacce e gli animali si era sempre esaurito sui libri: tutt’al più avevo contemplato qualche beccaccia appesa per il lungo becco dal pollivendolo. Subito lanciai l’idea di rastrellare il terreno circostante, armati di sassi e di bastoni: scovammo infatti altri quattro fagiani nel giro di un’ora. Giacomo, che s’intendeva di musica e sapeva suonare il violoncello, cantava una specie di pezzo d’opera intorno al fagiano.

Per molte cose, io avevo piena fiducia in Giacomo. Per esempio, sulla possibilità di fare una piccola diga con la sabbia, sul cambiamento del vento, sulle distanze calcolate a occhio, sul galleggiamento delle nostre imbarcazioni di scorza. Egli pensava a lungo prima di pronunciarsi e io, con la mente vuota, potevo seguire il lavorio mentale di lui che traspariva attraverso l’espressione della faccia nel gioco delle rughe e delle sopracciglia.

La mia amicizia con Manlio si nutriva di letture fatte in comune. Al tempo di Joyce giravamo per il quartiere che dal Corso risale fino alle tre scalinate, ai tre promontori alti sul risucchio delle case ammucchiate e antiche: e sono questi tre promontori il Pincio, la Trinità dei Monti e il Quirinale. Quel quartiere lo chiamavamo “la nostra vecchia Dublino”. E Manlio sapeva prendermi per il mio verso quando, trattenendomi io fuori Roma fino ad autunno inoltrato, mi persuadeva a tornare allettandomi con frasi di questo genere: “La nebbiolina intorno ai fanali accesi da poco… e il primo freddo fanno sentire più acuto il richiamo della nostra vecchia Dublino, delle sue viuzze in fondo a cui si vedono passare fittamente automobili e forme nere di passanti in uno sfarzo luminoso: sono là in fondo le grandi arterie del Corso e del Tritone… Più forte è l’invito a entrare nei cinema e nei bordelli, a comprare pochi soldi di caldarroste, a fumare appoggiati a una cantonata; o risalire al tramonto sulle terrazze, risolvere i nostri problemi appoggiati alla balaustrata”. Immagini veramente seducenti: anelavo a tornare nel quartiere dove io e Manlio ci sentivamo i re.

I miti nascevano, crescevano, ci dominavano, cadevano in disuso. Il mito del film L’uomo invisibile: al telefono o nelle lettere non ci chiamavamo per nome, né col nome ci firmavamo, ma “caro Kent”, “tuo aff.mo Griffin” ecc. Non ci stancavamo mai di rievocare le parole dette da Griffin a Kent prima di vendicarsi; generalmente era Manlio che le ridiceva, e sapeva imitare la voce di Griffin, la sua terribile risata gorgogliante: “Sei sempre stato un gran vigliacco, Kent, carogna per giunta…”. Per noi Griffin era vissuto realmente, come un personaggio storico. Ci riusciva gradito pensare alla sua fredda energia, quell’energia e quella freddezza che mancavano a noi, pronti al terrore, fragili come foglie, disorientati al primo rumore: a noi che temevamo e invidiavamo gli uomini freddi e sicuri di sé, non Griffin però, nostra creatura in fondo, il cui pensiero era per noi un sollievo.

Anche io e Ernesto abbiamo creato una quantità di intese, un mondo di cui io e lui soltanto eravamo a conoscenza. Quando avevamo la fortuna di essere insieme, questo mondo risorgeva, la nostra amicizia gli dava vita e lo teneva in piedi; e quel mondo ci appagava, era abbastanza vasto per viverci felici e ci potevamo vivere ogni volta che eravamo insieme. So che Ernesto, assai più di me, pativa nella vita penose umiliazioni: anche la gente che gli voleva bene rideva di lui, non lo prendeva sul serio. Ma quando era con me quelle umiliazioni scomparivano, ne era al sicuro essendo immerso in una vita che solo la nostra unione era capace di creare. Eravamo veramente fuori del mondo, in un altro mondo. Come istantaneamente questo mondo prendeva consistenza, si ravvivava simile al fuoco sopito sotto la cenere! Bastavano i sorrisi appena ci vedevamo di lontano: sorrisi beati che dicevano: “Sì, ora disseppelliamo il nostro tesoro, ci confidiamo ancora una volta il segreto che solo tu e io conosciamo!”. Bastavano le prime parole di saluto: “Salve, Burke” gli dicevo io, lui mi rimandava qualcosa di simile ed eravamo come due complici che di tanto in tanto disseppelliscono il tesoro di cui soli conoscono l’esistenza, e si mostrano a vicenda diamanti e pietre preziose.

Questo patrimonio comune era stato naturalmente accumulato insieme, un po’ dall’uno e un po’ dall’altro. Succedeva spesso che uno metteva in circolazione una frase o un nome e poi col tempo lo dimenticava; era l’altro che un giorno lo ritirava fuori, facendolo tornare in mente all’autore. Così una volta da piccolo avevo letto un giornale sportivo con la cronaca del circuito motociclistico di Monza: “Ed ecco la folla della tribuna si alza in piedi urlando: Rosso, rosso! E dopo pochi secondi, infatti, è Arcangeli che passa primo seguito da Bennett, pressato a sua volta da Varzi e da Ghersi”. Io avevo adattato quella frase a una immaginaria corsa dei miei cari gatti: “La folla urla: Rosso, rosso! E dopo pochi secondi è il gatto rosso che passa primo, seguito dal nero, pressato a sua volta dal bianco e dal grigio”. Passarono gli anni, e me n’ero completamente dimenticato, fu Ernesto che lo rimise in ballo: dapprima non ricordavo, poi a poco a poco, via via che incalzava coi particolari, mi parve di ricordare. Generalmente era lui che ricordava a me cose da me inventate e poi dimenticate: non succedeva quasi mai il contrario: e non che Ernesto avesse più memoria, ma teneva più di me al nostro mondo. Perché più di me aveva da temere dal mondo di fuori.

Bisognerebbe che gli uomini vivessero raggruppati come io e Ernesto, io e Manlio ecc. Che non fossero mai costretti a uscire dalla cerchia entro cui si sentono sicuri. Se così potesse essere, gli uomini non sarebbero infelici, non invidierebbero nessuno, non odierebbero il prossimo loro.