Fino a un’epoca recente io sono stato dominato da una curiosa mania. Comincerò con una premessa. Il fatto dell’esistenza è un dato comune a tutti gli uomini (comune e fondamentale); a esso è inerente il fatto della diversità di sesso (o, meglio, della coesistenza dei sessi). Ciò che viceversa distingue e divide gli uomini sono i due elementi spazio e tempo. Ora, quando io guardavo una lapide funebre, il semplice nome mi era causa di conforto: perché il nome indicava la sussistenza di quei fatti presenti anche in me (esistenza, coesistenza dei sessi). Ma dalla lettura della lapide balzavano fuori altri elementi, che erano di proprietà esclusiva del morto e perciò mi deprimevano: la data della nascita, la data della morte, il luogo dove la persona era nata, quello dov’era morta.
A una certa età poi ai due dati esistenza e coesistenza dei sessi un terzo se ne aggiunse che mi sembrò altrettanto necessario: il fatto di scrivere, di essere uno scrittore. Leggevo accanitamente le biografie degli scrittori, quali se ne trovano al principio di un libro sotto forma di prefazione, nota informativa, avvertenza: andavo pazzo per queste biografie che in mezza pagina racchiudono tutti i dati necessari: nato il… a… da una famiglia così e così; sposatosi nel…, si stabilì a… Le tappe della vita sono le stesse del suo cammino letterario: gli anni in cui escono i libri. Esistenza, coesistenza dei sessi e attività di scrittore sono lapidariamente compresi nella celebre epigrafe di Stendhal: “visse amò scrisse”: dove “amò” ha forse un significato sentimentale e passionale che io volevo escludere, limitando il senso dell’amore al semplice fatto della coesistenza dei sessi.
La Geografia è stata un’altra delle mie passioni. Generalmente i nomi di città e di villaggi erano puri nomi, avulsi da qualsiasi nozione dei luoghi e delle abitudini degli abitanti; avulsi altresì da qualsiasi idea di un’epoca determinata. Così Svakopmund nella Baia della Balena. A volte invece il nome traeva dietro un contenuto, qualcosa che andava al di là del puro suono, del semplice accozzo di sillabe. Se “Svakopmund” non mi richiamava affatto l’idea della costa africana, delle intricate foreste e delle capanne dei negri (tutte cose per me fra le meno attraenti del mondo, mentre mi attraeva il nome), in “Detroit”, invece, era implicito il multiforme movimento della moderna civiltà americana: movimento pervaso forse da una facile sensualità, come tutte le cose che hanno una forte caratteristica. E Fort Yukon, il Labrador, il Somerset settentrionale erano nomi, soltanto nomi, o c’era in aggiunta il senso delle terre disabitate, delle fantastiche distanze che separavano i piccoli centri sperduti? C’erano delle terre per cui provavo antipatia o repulsione: così quasi tutto il Sudamerica. L’Asia raggiungeva il massimo della sua attrazione nella parte centrale e settentrionale: le porte della Zungaria, la Mongolia, i monti Iablonoi o delle mele, il Camciatca.
Ma parliamo della mia mania. Io volevo configurarmi una vita a priori: una vita eccezionalmente nuda e statica, che mai smarrisse la coscienza della sola cosa per me valevole: il fatto di esistere (con ciò che questo comportava, coesistenza dei sessi e poi attività di scrittore). Io me la configuravo, questa vita: la vedevo, la costruivo nelle mie spossanti fantasie.
Un simile modo di procedere, astratto e disumano, voleva fare di me un essere spoglio di sentimenti e passioni, un manichino, un fantoccio, una silhouette, una figura senza terza dimensione, stampata su paesaggi previsti, colpita dalla luce bassa e rosata del giorno in declino. Infatti fanaticamente io credevo necessario distruggere ogni altra cosa che non fosse il nudo, semplice, elementare fatto dell’esistenza.
E guardate gli assurdi a cui arrivavo. La politica, l’arte militare e la storia in genere hanno sempre esercitato su me una forte attrazione. E a volte mi sono domandato: se io avessi partecipato alle lotte politiche di quel dato periodo storico, sotto quale bandiera avrei militato? Dato che per me solo gli elementi esteriori avevano importanza. E così, esaminando per esempio due partiti in lotta, mi sentivo attratto ora dall’uno ora dall’altro, e sempre in base all’apparenza: e, in preda all’incertezza, finivo col trovar fondato il gesto dello chestertoniano Manalive che, alle elezioni, portava all’occhiello i distintivi dei due opposti partiti.
Voglio ora ricordare un incidente. Io stavo per sposarmi: camminavo un giorno accanto alla mia fidanzata quando pensando un fatto mi sorprese… e s’ingrandì fino a dominarmi. Un fatto che può sembrare insignificante: e cioè che la mia fidanzata era miope. Siccome al mondo ci sono ragazze miopi e ragazze che non lo sono (anzi queste ultime rappresentano la regola) mi sorprese il pensare che io fossi fidanzato proprio con una ragazza miope. Tale difetto individuò la ragazza che mi stava al fianco: io mi accorsi che stavo per sposare una ragazza miope e, nello stesso tempo, mi accorsi che stavo per sposare in senso assoluto. Con questo voglio dire che un fatto particolare generalmente passa inosservato: ma felice chi se ne accorge! Il più piccolo, insignificante particolare darà a costui il senso dell’esistenza, che è quanto dire il senso dell’eternità.
Per me attualmente è chiaro che le accidentalità del tempo e dello spazio creano, modellano la vita. Oggi non ho più davanti a me un’esistenza già scontata; oggi ho davanti a me una vita imprevista e a cui nemmeno penso; oggi vivo giorno per giorno.
Una volta discorrevamo tra amici (tutti più o meno aspiranti-scrittori; nessuno di noi aveva ancora pubblicato un libro): discorrevamo appunto sui titoli dei libri. Io dissi soltanto questo: che per parte mia un libro non lo avrei mai intitolato Gli indifferenti. Un titolo simile dà un’indicazione, opera una limitazione; assume inoltre una posizione morale.
Ebbene io ho preteso che questa indicazione, limitazione, posizione morale non fosse non dico nel titolo, ma nemmeno nel libro. Il libro doveva consistere solo del nesso esistenza-coesistenza dei sessi. Nessun contenuto psicologico o morale era tollerato.
Un libro che mi stia davanti, aperto alla prima pagina, accende in me le maggiori speranze. Esso ha tutte le possibilità intatte, così come le aveva la mia vita il giorno in cui mi accorsi di esistere. Io sono ancora alla ricerca di questo libro eccezionale, che non deluda le mie speranze.
Le prime pagine di un libro sono diverse dalle altre; cioè, è il modo come si leggono che è diverso. Lo stesso accade al cinema, il modo come si guardano le prime inquadrature è diverso ecc.
Quando mi misi a scrivere, davanti al lettore (e forse soltanto davanti a me stesso, una volta compiuta l’opera) io volevo porre tante prime pagine. Volevo scrivere quel tal libro che non deludesse l’aspettativa. Da notare che io pensai subito a un libro, a un libro stampato, né mi passarono per la mente pubblicazioni su riviste e tanto meno su giornali. Il libro fu immediatamente il mio punto di arrivo.
Mi piace scorrere liste di libri che non conosco. L’autore e il titolo, niente altro. Un libro.
In realtà di libri “eccezionali” io ne ho letti molti e anche ne ho scritti, benché non siano mai stati stampati. Libro eccezionale era, per esempio, l’Ornitologia del Figuier, che leggevo intorno agli undici anni e di cui feci una riduzione, anch’essa eccezionale.
Se fossi uno scrittore, vorrei essere nato a Praga. Praga è ai limiti del possibile: da una parte e dall’altra ci sono la Germania e la Russia, troppo grandi, troppo definite; a nord e a sud la Polonia e l’Ungheria, legate a ricordi letterari deteriori; poi i Balcani, che hanno un senso politico-militare più che letterario. Ma la Boemia no: là nacque Rilke (1875-1926), là nacque Dvorak.
Se fossi uno scrittore, vorrei avere un monumento, dopo morto s’intende, simile a quello dello scrittore Vittorio Rydberg, in Göteborg. Un monumento che non riproducesse la mia effigie: piuttosto una statua allegorica: io sento pur sempre una certa attrazione per le allegorie. Un monumento posto su una collina, all’incrocio di strade asfaltate, tra eleganti case della periferia. L’attività degli abitanti di queste case si svolge lontano, nel centro della città. Le loro automobili vanno e vengono. Qui sono le loro case, signorili, composte, con le finestre chiuse: le tendine chiare precludono ogni indagine.
Oggi sono uscito subito dopo mangiato e molte cose mi sono rimaste impresse negli occhi. Anzitutto un senso di biancore nel cielo, sugli alberi e sui sassi sporgenti dalla terra indurita della via.
Faceva molto freddo. Nella stretta via popolata di botteghe ho visto un carbonaio uscire nell’ombra della strada: ed era come se io non fossi a contaminare con la mia presenza: era come se di quel carbonaio avessi avuto notizia indirettamente, come se avessi sentito dire da uno: “quando abitavo in Via Nuova, di faccia al carbonaio…”.
Sono tornato a casa e stanco mi sono buttato sul letto senza nemmeno togliermi il cappotto. E sono rimasto immobile finché la luce che filtrava attraverso le tendine mi ha ricordato i giardini alla periferia lussuosa di una grande città; e ho desiderato poter raccontare qualcosa intorno a un piano suonato in un’altra stanza.
Ancora pochi minuti accanto alla finestra. Che si estinguano, col giorno, gli ultimi richiami! Oh, molti li rammento senza sentirli più. Non più sopra quei tetti un cielo bianco, animato da una leggerissima luce, mi ricorda la stanchezza della Perichole e di Don Andrès. Ancora qualche istante, e poi m’immergerò nell’inutile lettura.
Ho davanti agli occhi l’immagine di un educatore. Siamo verso il 1840, in un paese anglosassone non meglio precisato. L’educatore è alto, porta le fedine, ha un volto naturalmente severo. È inesorabile coi ragazzi e li punisce a suon di nerbate.
Vogliamo sviluppare un’azione qualsiasi intorno a questa figura? Insegna nella scuola presieduta da un tale uomo (che ha ben più di quarant’anni) una signorina diplomata allora e giovanissima. I suoi morbidi capelli biondi e i suoi dolci occhi azzurri indicano in lei grande bontà, il mento ben modellato e le labbra ferme un’energia non comune. Ella adopra la bontà nei rapporti coi ragazzi e l’energia in quelli con l’educatore. Perché tra i due è nato, inevitabile, un contrasto: dato che la signorina è un’entusiasta dei nuovi metodi educativi basati sulla dolcezza e l’altro non crede che nell’eccellenza del suo bastone.
L’alta, grigia figura dell’educatore sprigiona indubbiamente un gran fascino. I suoi metodi educativi possono essere non buoni, però io penso: egli li esplica nei riguardi di ragazzi che hanno dodici anni, dodici anni nel 1840: e dunque dove andrebbero a finire le torte di mele e le candele accese il giorno di Natale senza le nerbate dell’attempato maestro?
Il quale è scapolo. Nei riguardi della signorina si comporta con una correttezza assoluta. La sua vita è regolata come un orologio. Il suo piccolo appartamento è messo in ordine dalla padrona di casa ed egli esce e rincasa sempre alla stessa ora. Con quale innata gravità consulta l’orologio estraendolo dall’impeccabile panciotto! È austero e silenzioso e quel poco che parla parla per precetti morali.
«Siete un uomo senza cuore» gli dice la signorina, e si congeda. Egli corruga le folte sopracciglia… e mentre la coraggiosa ragazza si avvia verso un destino generoso, lui resterà sempre lo stesso, senza cambiare di un millesimo le sue convinzioni.
Ho visto una fotografia di “Clemenceau a passeggio nel suo rustico giardino sulla costa della Vandea”. In verità non è nemmeno un rustico giardino. È quasi un pezzo di landa incolta dietro la casa, con una intricata vegetazione contenuta dal filo di ferro, e una panchina di legno piantata nella sabbia. Davanti non si vede ma si sente il mare.
Clemenceau nacque in un paesino posto in riva all’Atlantico. Ora il bello della Francia era questo: che tutto si accentrava nella capitale. Io penso ai paesani di Clemenceau che prima ne hanno seguito gli studi di medicina e poi gli esordi giornalistici e politici. Io penso alla giovinezza di Clemenceau a Parigi, riflessa sulla vita degli abitanti di Saint-Vincent sur Yard.
L’Austria-Ungheria era il secondo stato d’Europa per territorio, il terzo per popolazione: vivo è il ricordo dei suoi confini segnati in giallo. Considerate questo paese veramente fortunato se poteva riunire in sé tante terre diverse: la Boemia con Praga, una città più vicina a Varsavia che a Budapest, due terre di maniera come l’Austria e l’Ungheria; e poi la Croazia, la Slavonia, la Schiavonia… Come un’ameba la Duplice Monarchia allungava le sue punte in tutte le direzioni: nel cuore dell’azzurra Germania, oltre le Alpi dilagando nella verde Italia e si estendeva nella penisola balcanica fino quasi a toccar l’Albania.
Per vent’anni Plotino tirò avanti in Roma una vita oscura. La sua persona passava inosservata tra la folla dei ricchi e dei potenti, tra il marmo e l’oro dei grandiosi palazzi; e già si affacciava ai confini dell’Impero la minaccia dei barbari che avrebbero piegato quella potenza, spento quel fasto. Plotino si ritirò a Minturno in Campania, una plaga pianeggiante fino al mare, dove collinette misere non riescono ad acquistare una vita autonoma, appaiono solo sgraziate anormalità della pianura. Là viveva il filosofo, aspettando la morte. Era morto da un secolo quando i barbari irruppero dal Nord portando un soffio di vita nuova coi nomi nuovi: nomi di popoli – Avari, Sassoni, Gepidi, Alani – di capi – Ariovaldo, Clodoveo, Adaloaldo – e altri – Faramanno, Adelingi… A Minturno abita una nostra lontana parente che io non ho mai conosciuta.