La signora in questione era vedova di un deputato socialista. Abitava lontano da me e io andavo a trovarla, di tanto in tanto: il tram mi lasciava all’imbocco di un ponte, un ponte ornato di gruppi barocchi di statue (grandi statue simboliche stile Liberty, con fastosi drappeggiamenti che scivolavano lungo i fianchi di poderosi uomini nudi, di donne nude coronate di punte di ferro, con occhi simili a spade). Quando scendevo da quel tram a quella fermata, non era sempre per far visita alla signora di cui parlo. A volte mi addentravo per le viuzze dietro il lungotevere, viuzze fiancheggiate da case cadenti, coi panni tesi ad asciugare fuori delle finestre.

In casa della signora mi sedevo sulla poltrona che era stata di “lui”. Tutta la casa era conservata al di là del tempo, coi mobili tenacemente antiquati, i libri logori negli scaffali, le mattonelle consunte, alcune perfino spezzate. Quando le persiane erano chiuse, e nessun rumore disturbava la sonnolenta quiete estiva, sembrava possibile che “lui” apparisse da una porta, con lo stesso viso sorridente e i rigogliosi baffi all’insù delle molte fotografie disseminate alle pareti.

La decrepitezza dell’ambiente era in parte dovuta al desiderio di conservare l’illusione di una presenza, in parte si spiegava con le poco buone condizioni finanziarie della padrona di casa. Tali condizioni andavano sempre peggiorando. Quand’ero piccolo la signora aveva l’abitudine di regalarmi dieci lire a ogni mio compleanno. In seguito smise con la scusa che ero diventato grande (mi sembra difficile che potessi apparire grande ai suoi occhi). Ella dovette fare a meno di tante piccole cose e subì una quantità di piccole umiliazioni.

Discorrevamo insieme di molti argomenti; le ore passavano senza che ce ne accorgessimo e la pioggia d’oro del tramonto accendeva i vetri. Ella tirava fuori di continuo qualcuna delle sue convinzioni, vecchie di quarant’anni, mai mutate. Aveva parole di ardente ammirazione per la Duse, Zola, Stecchetti, Ardigò, Cavallotti, la Kuliscioff (che dovette essere il suo modello). Parlava spesso di mogli infedeli, di donnine famose del suo tempo. Usava espressioni crude (ricordo questa frase: “è proprio la conformazione degli organi femminili a dare tale debolezza…”): ma era, come si vede, una crudezza scientifica, non mai trivialità.

La signora era anti-militarista, pacifista, internazionalista. Se non approvava quell’apocalisse che fu la prima guerra mondiale (intendiamo per apocalisse un’epoca rossa di sangue, sconvolta, grandiosa e terribile), approvava invece l’altra apocalisse che s’innesta sul tronco sanguinoso della guerra: la rivoluzione russa. Ne parlava spesso, sollevando tanti ricordi di quand’ero piccolo (una via dove passa il tram sfuma lontano fra gli alberi autunnali, verso l’opprimente quartiere del Policlinico e del Verano. C’è un vetro al primo piano con su una scritta in lettere bianche, l’insegna di un sarto: e ancora questo nome senza patria, Lenin, sullo sfondo rosso della sua fede…). Da grande ho considerato spesso, a lungo, il capo di Lenin simile a un guscio d’uovo, i suoi occhi asiatici, la sua barbetta grigia. Ho letto anche una volta (ma tutto nel ricordo mi si confonde): il giorno stesso dei funerali di Lenin la marea dei delusi, degli affamati, dei perseguitati si assembra, ingrossa, tumultua nelle vie della futura Leningrado.

Ma, positivamente, non so nulla di Lenin. La signora invece conosceva a fondo le sue idee e la sua opera, lo considerava e lo giudicava freddamente come un qualsiasi altro uomo.

Ella sognava una vita ancora più chiusa e deprimente di quella condotta. Sognava un mondo quale potrebbe aversi, io dico, se le nuvole nere delle giornate minacciose, quando però non piove, scendessero ancora più in basso sulle nostre teste (quelle giornate che io passavo, non lungi dalla sua casa, in case aperte al pubblico). Inoltre io non comprendo come si possa desiderare l’avvento di un mondo costruito da noi, e quindi già da noi scontato.

Ora ella è morta. Io l’ho vista e ricordo i gambi dei fiori sparsi sul letto, le scarpe nere e le calze nere, il corpo innaturalmente peso e rigido affondato nel letto. Non piansi allora; ma in seguito, quando mi è sembrato di scorgerla tra la folla (se intravedevo una piccola figura nera simile alla sua), un nodo mi serrava la gola, ed era insieme angoscia e pietà.

So che poco prima di morire ella diceva di essere tranquilla, che la morte non può far paura perché significa il nulla; anzi avrebbe voluto morire subito, se doveva continuare a soffrire come soffriva (frasi che già altre volte avevo sentito da lei). L’hanno sepolta nello squallido cimitero di Roma, in mezzo alla selva di alberi e lapidi che si stende a perdita d’occhio tra salite e discese, terrazze e avvallamenti, e lo scuro flusso di gente.