Era un villino isolato alla periferia della città. Limitavano il giardinetto, davanti un muricciolo, lateralmente due stecconate, dietro una rete metallica: eterogeneo recinto che lasciava un’impressione di provvisorietà e di abbandono, quasi avesse fatto difetto la moneta o la voglia per ultimare il lavoro. In effetti doveva essere stato proprio così. Quel villino fu costruito qualche anno dopo la guerra. Allora la città s’ingrandiva rapidamente: interi quartieri sorsero come per incanto dove prima non erano che orti e spiazzi incolti. La crisi arrestò di colpo questa febbre di costruzioni. Il villino Taccini rimase solo in mezzo a una landa, come un pioniere che non sia stato più raggiunto dai suoi compagni.

Lo stesso anno in cui scoppiò la crisi, morì il padre di Taccini, un affarista che stava facendo una fortuna. Sicché quello fu veramente un anno nero, per i Taccini, e segnò come una svolta nel tempo. Un periodo della vita era finito, ne cominciava un altro. Il ragazzo si dovette impiegare. È vero che aveva venticinque anni suonati.

Mamma e figliolo abitavano al primo piano, che era poi un pianterreno rialzato. Il piano di sopra lo occupava la signora Algardi, una vedova senza figli che dava in affitto un paio di camere. Quelle due persone la signora Algardi le teneva anche a mangiare.

Taccini era alto, diritto, di corporatura elegante: specie d’inverno, quando indossava un soprabito col bavero di pelliccia, faceva una gran figura. Aveva fattezze regolari; il suo volto era naturalmente serio e dignitoso, e sempre accuratamente rasato. Ma le basette davano l’allarme, perché erano passate di moda da parecchi anni. Mettevano malinconia; facevano voler bene a Taccini.

Egli era entrato in un’età particolarmente appropriata: quella che, pur serbando la freschezza della gioventù, si ammanta del fascino dell’esperienza. Infine Taccini aveva maniere da gentiluomo; “da maggiordomo” correggeva il professor Vannicola, uno dei due pensionanti del piano di sopra; peccato, in ogni caso, che avesse le orecchie a sventola.

Il professor Vannicola non se la diceva con Taccini. Disprezzava la sua mentalità da ragioniere e le sue basette da macellaio. Bisognava vedere come in quel punto si faceva radere lui: altissimo, sopra l’orecchio: e non dava una bella vista quel bianco cotennoso. Sembrava che lo facesse per contraddire Taccini.

Ma, per quanto bisbetico, Vannicola non era cattivo. Invece l’altro pensionante, certo Lapi, metteva nel modo di trattar Taccini una sgarberia tutta calcolata.

Ciò nonostante Taccini quasi ogni sera si faceva un dovere di salire su dalla signora Algardi. Questo in primo luogo perché il villino era fuori mano: ci volevano cinque minuti di strada per arrivare al capolinea, e un tram e un autobus per arrivare in centro. Inoltre Taccini non aveva amici. Conoscenti parecchi: ma nessuno con cui fosse tanto in confidenza da prenderci appuntamento per passare insieme una serata. Infine, se Vannicola e Lapi lo trattavano sgarbatamente, peggio, lo ignoravano, in compenso la signora Algardi era piena di attenzioni. Per esempio, alla radio suonavano un valzerino (come mai quella gente lo aveva lasciato passare?) e lei:

«Taccini, lo ballerebbe un valzerino?»

«Con lei a gamba zoppa, signora. Come ai bei tempi, eh, signora? Una quarantina di anni fa…»

Solo al suo “tipo” era permessa una simile impertinenza. E lui ne godeva. Viene il momento per tutti, a questo mondo. E se al professor Vannicola era dato di pontificare per tutto il resto della serata, quando suonavano un valzerino bisognava bene che chiudesse il becco.

Le serate in casa Algardi procedevano così: Vannicola e Lapi discorrevano tra loro, la signora sferruzzava, Taccini, confinato in un angolo, reprimeva a stento gli sbadigli. Venuta l’ora di andare a letto, prendeva congedo dicendo invariabilmente: «Me ne vado alla maison di casa mia» e la signora invariabilmente aveva la bontà di sorridere.

Anche fra Taccini e la mamma non passavano molte parole. La mamma gli ammanniva dei buoni pranzi e si preoccupava che indossasse la maglia di lana quando la stagione si faceva rigida. A volte (magari in giardino alla presenza della signora Algardi) Taccini brontolava di qualche cosa, ma così, tanto per fare, e la mamma: «Starai meglio quando sarai sposato» o: «Ti contenterà di più la moglie». Allora Taccini la abbracciava protestando di non volerne sapere della moglie, perché nessuna moglie avrebbe potuto prendere il posto di una mamma come lei.

Sul tavolino del salotto c’era una vecchia rivista illustrata. Tutte le mattine la mamma la spolverava e la rimetteva lì: forse ricordando di aver visto qualcosa del genere nei saloni degli alberghi o nelle anticamere dei dentisti. Sfogliandola, potevi renderti conto come le basette di Taccini non avessero nulla da invidiare a quelle di Jack Dempsey e di Rodolfo Valentino. “Altri tempi” diceva spesso Taccini, tra malinconico e scherzoso. Forse effettivamente in altri tempi, cioè in altri ambienti, le sue qualità di ballerino, di freddurista, di prestigiatore, avevano avuto successo; o forse lo diceva così tanto per dire, e a forza di dirlo s’era egli stesso convinto di avere in passato condotto una vita brillante.

Comunque fosse, di quei tempi non restavano che le basette. Era stato sul punto di uscirne ammogliato, ma la famiglia di lei aveva mandato a monte il matrimonio per la morte di Taccini padre e la conseguente svalutazione di Taccini figlio.

Un pomeriggio di domenica non sapeva cosa fare. Per la terza volta si trovò in mano la rivista: s’era quasi fissato sul viso di un giovane che si radeva – réclame del sapone da barba Palmolive: quei denti scintillanti nel sorriso incatenavano l’attenzione. Così si decise a uscire. Si mise il cappello davanti allo specchio dell’anticamera: forse solo per questo s’era deciso a uscire, per portar fuori un cappello accuratamente calcato in testa. Stava aprendo il cancelletto quando fu investito da una sconosciuta:

«Abita qui la signora Algardi?»

Proprio quella mattina Taccini aveva saputo della partenza di Lapi. È difficile trovare una persona meno priva di fiele: pure, gli aveva fatto piacere. E badate: se Lapi si fosse degnato di passare a salutarlo, Taccini si sarebbe commosso addirittura, e avrebbe serbato di lui un ottimo ricordo.

Come la ragazza confermò di essere la nuova pensionante, Taccini si fece premura di presentarsi. «E quella,» disse «quella è la maison di casa mia.»

Una volta fuori non ebbe scrupolo di tornare un’ora prima di cena, sebbene ad aspettar l’ora di cena ci fosse da morir di languore. Questa volta al languore aspettando la cena si aggiunse un’altra e diversa languidezza e, appena cenato, si precipitò di sopra. Li trovò ancora a tavola. La signora abbozzò le presentazioni, ma Taccini la interruppe: «Noi ci siamo già conosciuti» e la signorina confermò con un sorriso.

«La vedo triste, signora» fece il professor Vannicola.

«Il gatto si è pappato il canarino» spiegò Taccini.

«“Pappato”! che espressione!» esclamò la signora. «Davvero, Taccini, mi aspettavo di meglio da lei.»

Ne nacque una piccola discussione.

«Ha ragione Taccini!» esclamò inaspettatamente una vocetta squillante.

Fosse il timbro eccezionalmente limpido e festevole della vocetta, fosse l’incarnato roseo della signorina Jolanda, fosse il modo confidenziale – quel Taccini nudo e crudo – fatto si è che tutti si volsero vivacemente. Taccini ebbe poi un secondo momento di felicità quando, lasciata la tavola, la Jolanda venne a sedersi accanto a lui. Il professor Vannicola, secondo il solito in ciabatte e col «Corriere della Sera» in mano, se ne andò alla radio a prendersi uno dei suoi programmi. Taccini spalancò gli occhi come per dire che la musica classica non era di suo gusto. Poi indicò alla Jolanda un quadro stile novecento insinuando che, capovolto, forse sarebbe riuscito più comprensibile. Parlava forte, in modo da disturbare la radioaudizione. Era talmente invalvolato che osò proporsi per un gioco di prestigio.

La Jolanda scendeva abbasso di frequente. Taccini le fece girare il giardinetto. Lei volle sapere il nome delle varie piante e come si coltivano. Non che gliene importasse nulla: nulla le importava, all’infuori della propria persona: ma in ciò consiste la perfidia delle donne belle, fingere di interessarsi a cose senza interesse. Era un pomeriggio d’inverno, sereno ma rigido. Il vento le srotolava i riccioli: lei tendeva il viso incontro al vento, con un’espressione di sottile piacere. Invece Taccini batteva i denti dal freddo: ad onta dell’aspetto imponente, era un valetudinario.

Appoggiate alla rete di divisione, la signora Taccini e la signora Algardi li guardavano pensando entrambe la stessa cosa. La signora Algardi buttò là che il signor Vitale era un uomo facoltoso. Lo conosceva bene: non per nulla le aveva affidato la figliola. La Jolanda dichiarò alla signora Taccini che il suo figliolo era “un simpaticone”. E lo stesso Vannicola ebbe a dire: «Ma sì! Sono fatti l’uno per l’altra». Lui, Vannicola, era uno scapolo per principio.

Un giorno capitò il signor Vitale: un campagnolo corpulento, sulla cinquantina, con due leziosi baffetti a virgola: a guardare i soli baffetti, si aveva l’impressione di trovarsi di fronte a un giovanotto. Lo si vide in giardino battere amichevolmente sulle spalle al “futuro genero” (così certo lo avrà mentalmente qualificato il professor Vannicola, che affacciato alla finestra stringeva tra le dita ossute una sigaretta). Un genero non disprezzabile: tanto per cominciare, un bell’uomo, anche se i tempi di Jack Dempsey e di Rodolfo Valentino erano passati. Quanto alla Jolanda, era una studentessa, ma gli studi più che altro le servivano come pretesto per girare, far conoscenze, divertirsi; se fingeva di starci dietro, era per quella perfidia di cui s’è già discorso. E all’Università trovò certo qualche giovanotto interessante (ma non così decorativo come Taccini) e cambiò pensione con la scusa che era fuori mano.

Al suo posto venne un certo Ferretti, che se la intese a meraviglia con Vannicola: erano due vecchi compagni d’arme, si capisce, nel senso più lato dell’espressione, e Ferretti sfoggiava una gamba escoriata, indecente, e certo modo di parlare aspro e realistico, da persona che ha fatto la guerra. Inoltre aveva educato il corpo alla sopportazione: perfino si trafiggeva con gli spilli senza che ne spicciasse sangue.

La signora Taccini c’è rimasta proprio male: aveva fatto la bocca al matrimonio. La casa è grande, gli sposi sarebbero rimasti con lei. Per la prima volta l’idea di morire e di lasciare quel figliolo solo, la sfiora, le riempie gli occhi di lacrime. Il figliolo entra, capisce: fa una smorfia, poi esce, girella per la casa. A un tratto colpito da un’idea luminosa rientra a precipizio in cucina:

«Mamma, quand’è che mi fai la torta di mele?»

E mamma e figliolo si abbracciano senza dirsi nulla.

Un giorno la mamma a tavola fa una tirata contro le ragazze moderne. «Non temere, io non ci casco!» dice scherzando il figliolo. Arriva la partecipazione di matrimonio di un conoscente: «S’è voluto impiccare!». Ma quando va su dalla signora Algardi, sente che non è più come prima. Manca l’entusiasmo. Il tempo della Jolanda si confonde coi bei tempi che furono.

È avvenuto un piccolo cambiamento. Taccini ha scoperto che nella rivista c’è un articolo del professor Vannicola; ed è corso a farglielo vedere. Vannicola ha sorriso e per la prima volta lo ha guardato con una certa dolcezza. Poi la rivista è rimasta nel salotto della signora Algardi e Taccini se la ritrova spesso tra le mani, quando Vannicola e Ferretti sono impegnati a discutere.

Ed è commovente la compunzione con cui se ne sta fra loro: perché in cuor suo deve bene ritenerli una compagnia uggiosa. Dalle pagine lucide della rivista il giovane sorridente lo fissa, ahimè! le cose andavano bene a quel tempo; Taccini lo dice sempre; sbadiglia, e subito dopo si guarda intorno intimorito perché non ha messo la mano alla bocca.