Ogni volta Clerici faceva voto di non giocar più: tanto, non gli fruttava che bocconi amari. Quando formavano le squadre lo sceglievano per ultimo, poi preferivano perdere la palla anziché passarla a lui, perfino dopo finito di giocare lo tagliavano fuori dalla loro compagnia.

“Non ci casco più” si ripeteva Clerici tornando a casa stanco e amareggiato. Ma già la mattina dopo, in un intervallo del lavoro, non resse alla voglia di tirar quattro calci per strada subito fuori del garage. È vero che tra i meccanici si sentiva più a suo agio, giocando quelli press’a poco come lui, tranne De Simone, ma De Simone era un buon giovane che non dava ombra. Se la palla volava nel giardino di fronte, era Clerici che si precipitava a ricuperarla. In ultimo finì addirittura infilata in una picca del cancello. Subito Clerici si fece promotore di una colletta per ricomprarla.

E il pomeriggio, terminato il lavoro, di nuovo si affrettò al campo.

Non c’era nessuno. Non risolvendosi a venir via, Clerici si aggirò intorno a capo basso. Quando irruppe una turba di ragazzetti con un pallone. Per un po’ Clerici li guardò giocare, poi si fece avanti e venne accettato in una delle due squadre. Segno certo che non parve temibile: e in realtà specialmente gli occhiali lo facevano apparire inoffensivo.

Forte dell’età, Clerici decideva in merito alle controversie tra le due squadre e insieme dirigeva il gioco della sua. I ragazzi gli davano un po’ del tu, un po’ del lei. Era felice: ma alzando gli occhi vide un giovanotto che seguiva la partita. Rosso di vergogna al pensiero di essere stato sorpreso in lizza con dei ragazzetti, Clerici sarebbe fuggito in capo al mondo: ma non poteva, perché il suo berretto era ai piedi dello spettatore: e non se la sentiva di affrontare tanto da vicino lo sguardo di chi l’aveva colto in fallo.

Una domenica pomeriggio si vestì meglio che poté, si lisciò fino all’inverosimile i radi capelli e spese le ultime lire che gli rimanevano per un pacchetto di sigarette di lusso. Entrando poi in una casa da venti lire, aveva speranza di divertirsi a buon mercato, e accarezzava altre speranze ancora, vaghe e pazzesche.

Nella sala c’era soltanto un giovanotto. Le ragazze discorrevano tra loro in un angolo. Una bionda si staccò dal gruppo per andare a strusciarsi al giovanotto; visto che quello non si smuoveva, passò a Clerici; stette un po’ curva su di lui, e fece per tornare dalle compagne. Clerici voleva trattenerla, senza pensare la trattenne per il fiocco dietro la schiena, il fiocco si sciolse: la bionda si voltò inviperita:

«Ma che ti prende? Che confidenze sono queste, carino mio?» E tornando a rivolgersi alle compagne: «Ma oh, che razza di scemi c’è al mondo, che figli di vacche».

Clerici guardava fisso davanti a sé senza veder niente. Capiva che era meglio andarsene, ma non aveva il coraggio di rompere quell’immobilità che lo proteggeva come un guscio. Si ripeteva la scena del campo.

Solo che questa volta ebbe un seguito. Con la pervicacia e la mancanza di generosità che contraddistingue le donne del suo rango, dopo cinque minuti la bionda lo apostrofò:

«Cos’aspetti, la manna dal cielo? Tutta qui la mercanzia. O sali in camera o te ne vai.» Clerici finse di non capire che s’indirizzava a lui. La bionda gli si piantò davanti: «Hai capito cosa ti ho detto? Se non sali, vattene. Su, vattene».

Clerici si alzò e se ne andò in una nube di vergogna.

Il sabato successivo, presa la paga, si precipitò in quella casa e salì proprio con quella donna. La quale non fece mostra di riconoscerlo e usò con lui la solita espansività professionale.

Al momento di andarsene Clerici ingarbugliò un discorso: un discorso lungamente meditato e rimasticato: domenica l’aveva scacciato, oggi invece era stata costretta a darsi a lui…

«Darmi a te?» fece la bionda, quando capì dove voleva andare a parare. «Stai fresco caro, questo è mestiere, per me è come fare una pisciata. Io mi do solo a chi voglio io. Vai, caro, paga.»

A tempo perso Clerici faceva qualche lavoretto per le case. Un giorno lo chiamarono dal ragioniere (il ragioniere era il padrone del garage). Lo aiutava nel lavoro la serva, una ragazzona crespa. Senza pensarci Clerici le disse di salire lei sulla scala.

«Fossi scema! Così mi guarda le gambe.»

«E che vuol dire?» ribatté Clerici. «Se son belle è bene metterle in mostra.» La ragazza rise, divertita e compiaciuta. «Be’, che c’è da ridere?» fece lui con la sua solita aria imbambolata. «Le gambe delle donne settantasette.»

«È un bel tipo lei» disse la ragazza.

«Io?» fece Clerici. «Tipo Novecento. Romanesco puro. Magnà e beve.» La ragazza tornò a ridere. «Dammi qua, sora Cesira, sora Maria» disse Clerici tendendo la mano.

«Mi chiamo Jole» precisò la ragazza porgendogli l’oggetto richiesto.

Continuando a stare rivoltato Clerici fingeva di non trovarlo e con la mano brancolava verso le poppe. La Jole si schermiva. Finalmente si diedero appuntamento per il pomeriggio della domenica.

La Jole arrivò all’appuntamento coi capelli neri oleosi e puzzolenti, il rossetto color mattone screpolato sulle labbra, le calzette arrotolate e dei tacchi altissimi che avevano una ripercussione spropositata sulla prominenza del sedere. Ed è certo che il sedere era la cosa che dava più nell’occhio. Al cinema la Jole abbandonò la testa sulla spalla di Clerici, si lasciò tastare e rise alle sue facezie. Uscirono a braccetto. Clerici era un bel po’ più basso, ma pontificava ugualmente:

«Il ragioniere è un uomo in gamba, te lo dico io. Appena gli metti in moto un motore, sente subito dov’è il difetto.»

«Sì sì, è un uomo in gamba» confermò la Jole.

Davanti a un caffè stazionava una piccola folla e Clerici volle fermarsi a vedere i risultati delle partite. La Roma aveva vinto. Clerici non stava più nella pelle. Parlò della Roma, del campionato, di Fulvio: la Jole non sapeva chi era Fulvio. «Ma che stai nella luna?» le disse Clerici.

«Sei anche tu calcista?» domandò la ragazza.

«Calciatore» corresse Clerici, e aggiunse: «Naturale».

«Mi spieghi che gusto ci provate a prendere a calci una palla…?» e la Jole si mise a ridere sguaiatamente.

«Non bestemmiare» disse solenne Clerici. «Smetti di ridere, o donna.»

Non tentò nemmeno di trascinarla in qualche parte solitaria. La soddisfazione dello spirito aveva il disopra sull’eccitamento dei sensi.

Il lunedì De Simone lo prese in disparte:

«Quella il ragioniere… e poi tutti… Se vai per divertirti è un conto, ma nel caso avessi intenzioni serie…»

Clerici non lo lasciò finire. E a sua volta gliene snocciolò quattro. Si meravigliava che De Simone lo conoscesse così poco. Lui con le donne ci andava solo per divertirsi. Pensasse ai casi suoi, De Simone.

La domenica dopo, mentre aspettava, progetti e monconi di progetti gli turbinavano in mente. Finalmente arrivò la Jole: si scusava di averlo fatto attendere invano, ma quel giorno doveva accompagnare un cugino venuto dal paese.

Non ebbe bisogno di seguirla troppo! Alla cantonata aspettava un giovanotto: di media statura, tarchiato, coi capelli fittamente arricciolati e lucidi di unto, la scriminatura impeccabile, i baffetti curati, bastava un’occhiata per indovinare il resto, le giornate nei caffè e nei biliardi, le domeniche a caccia di serve e di puttane. Del resto Clerici lo conosceva di vista, avendolo incontrato al campo in anni passati.

Si allontanò lentamente, zoppicando per un calcio ricevuto il giorno prima. Aveva un intero pomeriggio davanti a sé. Girovagò a caso, evitando di guardarsi nelle vetrine dei negozi. Finì su una panchina a un giardino pubblico. Fumò una sigaretta dopo l’altra, finché gli venne il mal di capo e dovette smettere.

Un bambino montò sulla panchina per saltare di sotto.

«Attento a non farti male» gli disse Clerici.

Il bambino lo ringraziò con uno sberleffo.

Clerici stette un po’ lì guardandosi intorno con gli occhiali, poi si avviò verso casa.

Clerici ha abbandonato il campo e la Roma, preso dalla guerra e dalla politica. Naturalmente è tutto Fascismo, tutto Germania e Giappone. Al gruppo rionale fa le ore piccole magnificando i sommergibili e i bombardieri in picchiata, e minacciando di sterminio imboscati e traditori.

Alla latrina del gruppo trovano scritte contro il Regime. «Che figli di vacche» va ripetendo Clerici e, almeno esteriormente, ribolle d’indignazione.

Da piantone e galoppino è passato alle informazioni. Quando lo vedono entrare nel caffè, più d’uno ammutolisce e dà una gomitata al vicino.

Egli disbriga le sue nuove mansioni col consueto zelo ed entusiasmo. Recentemente ha denunciato diversa gente, fra cui De Simone.