Tricerri contempla una cravatta esposta in vetrina al prezzo di lire diciotto. È giallina a pallini neri e gli starebbe benissimo sull’abito di flanella. Ma non si decide ad acquistarla. E in fondo, non che gli manchino le diciotto lire.

Riprendendo a camminare lentamente e senza una meta, Tricerri torna col pensiero al tempo in cui, giovanissimo, era già lanciato nel vortice della vita mondana. Forse fu uno sbaglio cambiar città, o forse prender moglie, anche perché non hanno avuto figlioli.

A un certo punto si accorge di aver davanti una formosa creatura bruna. Si mette a seguirla, ma senza intenzioni precise. S’è animato; fischietta. La ragazza dalla periferia lo ha portato in centro. Quando entra in un portone, Tricerri riprende la via di casa. La sua andatura s’è fatta strascicata. Ha la barba lunga e grigiastra, la scriminatura trascurata, la camicia tutt’altro che irreprensibile, le spalle incurvate. Sentendo freddo, si tira su il bavero del cappotto.

Ma guarda un po’ chi gli si para davanti: Bosio! Bosio veramente non sembra troppo soddisfatto di vederlo, forse ripensando al tiro che gli ha giocato Tricerri l’ultima volta, quando gli chiese una somma in prestito e, avutala, si dileguò. «Mettiamoci a sedere che ho tante cose da raccontarti» dice Tricerri; e si siedono in un caffè. «Sono tanti anni che non ci vediamo, e ho un’infinità di racconti da farti.» Bosio si dispone ad ascoltarlo, con una cert’aria indispettita. Ma ecco: Tricerri tace. Pare impossibile, eppure non trova nulla da dire.

Bosio dal canto suo non l’aiuta minimamente. Tricerri se ne sta a capo chino.