«Crede che mi sarà difficile trovare un imbarco?» domandai gettandomi affranto sulla panca.

«Come?» fece la donna gravida dietro il banco. «Sì, è difficile. Di qui non passa nessuno.»

«Allora» dissi «aspetterò che sbollisca il caldo e poi me la farò a piedi.»

A questo punto entrarono un giovanotto e una ragazza. Avevano lo zaino sulle spalle, più altri fagotti e una valigia. Erano sudati e impolverati. Il giovane avrà avuto vent’anni: era magro, con gli occhi e i capelli nerissimi. Lo riconobbi quasi subito e lo salutai calorosamente.

A sua volta Bebo (così si chiamava il giovane) sembrò contentissimo di aver trovato un compaesano.

«Di dove vieni?» gli chiesi.

«Da Firenze» rispose.

«Ora mi racconterai» dissi.

«Prima beviamo» fece lui. «Questa è la mia fidanzata» aggiunse con sussiego.

La ragazzina sorrise furbescamente. Avrà avuto al massimo diciott’anni: portava la gonnella cortissima, una camicetta a pallini rossi, un paio di scarpe sdrucite, un nastro nei capelli secchi e stopposi: aveva gli occhi verdastri e i denti gialli.

«Che caldo» disse con accento schiettamente fiorentino.

«Un litro» fece Bebo alla donna gravida che continuava a starsene immobile dietro il banco. Quella venne fuori, a piedi nudi attraversò la stanza: «Un momento,» dissi io a Bebo «per conto mio bevo pochissimo…».

«Eh, qualcuno berrà» rispose Bebo. «Fate servizio di trattoria?» domandò forte. La donna gravida rispose di no. «Qualcosa bisognerà pur mangiare» fece Bebo.

«Io non ho che pane» dissi.

«Che c’è in quel mastello?» domandò Bebo.

«Aringhe» rispose la donna.

«Ti piacciono le aringhe?» domandò Bebo alla ragazza. Quella fece un gesto di schifo. «Me ne dia una» disse Bebo.

Dopo un po’ la donna ci avvertì che doveva chiudere. Ci caricammo della roba e uscimmo sullo stradale. Il sole picchiava a perpendicolo sulle nostre teste. Uscimmo fuori delle case e ci fermammo in un campo alla magra ombra di un fico. Tanto, per chilometri all’intorno, non c’era niente di meglio. Io piombai in terra e mi addormentai. Svegliandomi, sentii Bebo e la ragazza che parlavano.

«Siete ignoranti dalle vostre parti» diceva Bebo.

«Siete tanto sapienti voi» rispose la ragazza.

«Non sapete nemmeno che cos’è il ripis» incalzò Bebo (voleva dire il ribes).

«Dammi a intendere cos’è,» disse la ragazza «da noi si chiamerà in un altro modo.»

Poi la ragazza si allontanò; m’avvicinai a Bebo e gli chiesi come l’avesse conosciuta.

«Il fratello era partigiano con me sul Monte Morello» mi spiegò Bebo. «E poi è morto a Firenze.»

«Quando?» domandai.

«L’altro giorno» rispose Bebo. «L’11, quando si passò l’Arno.»

A dormire sul secco m’ero riempito di fastidio: così, mentre Bebo mi narrava le sue peripezie di partigiano, mi levai la maglia, e ne andavo togliendo gli spunzoni e le pagliuzze. Tornò la ragazza, ma io pensai che non era il caso di far complimenti e continuai a svestirmi: avrebbe pensato lei a voltarsi dall’altra parte. E nemmeno credetti fosse il caso di farle le condoglianze per la morte del fratello.

«Son stufo di aspettare» disse Bebo.

«Stai calmo poverino» lo canzonò la ragazza.

«È un anno che manco da casa» disse Bebo. «Che ore sono?» domandò poi. Nessuno di noi aveva l’orologio. «Si fa così,» disse Bebo «si lascia tutto da un contadino e ce ne andiamo a piedi.»

La proposta fu accettata, e ci demmo a mettere insieme la roba. Quanto all’aringa, cominciava a puzzare, e Bebo non trovò di meglio che buttarla via.