Alla testata della valle c’era un podere di cui non ricordo il nome. Subito sopra la casa cominciava la macchia, bassa, fitta, sormontata dalla linea ad alta tensione. Il contadino era un uomo sveglio, benché vivesse in un posto così sperduto. Il suo unico figlio era con noi tra i partigiani.

Quel giorno l’uomo era solo, perché la moglie era andata a Castelnuovo, a visitare la sorella ricoverata in ospedale. Tornando dal campo, egli si tagliò una fetta di pane e la mangiò con le cipolline e il sale. Quindi rimase un bel pezzo seduto sulla panca, tra un ronzio invisibile di mosche.

Sperava ancora che la moglie tornasse in serata. Ma era poco probabile. Di lì a Castelnuovo c’erano tre ore di strada, e poi tutto dipendeva dalle condizioni della cognata.

Il cane lo aveva seguito in cucina, poi era tornato fuori. Lo sentì abbaiare. “Che sia lei?” pensò. Ma gli abbaiamenti avevano un’intonazione tutt’altro che festosa.

Uscì a vedere. Il cane era sul ciglio del muro, si sporgeva abbaiando furiosamente contro qualcuno o qualcosa nell’orticello sottostante. L’uomo guardò giù, ma sulle prime non vide nessuno.

A un tratto lo vide, proprio in mezzo al viottolo, tra le canne dei pomodori. Il verde della divisa si confondeva col verde delle piante e dell’erba.

Il cane ora aveva smesso di abbaiare, ma restava pronto a slanciarsi contro l’intruso. Questi veniva avanti senza fretta. Gesticolava; al contadino parve anche che dicesse qualcosa.

“E se scappassi?” pensò. Si disse anche che doveva correre ad avvertire i ragazzi. Ma non si mosse, e restò come affascinato a guardare il tedesco, che continuava a venire avanti, fermandosi ogni due passi e gesticolando.

Il cane si rilassò. Scodinzolando, si mise a frugare intorno col muso. Acchiappò qualcosa, lasciò la presa e starnutì rumorosamente. Il tedesco, che era ormai sotto il muro, alzò la testa di scatto. Vide il cane, vide il contadino, riabbassò la testa e ricominciò a gesticolare. Diceva anche qualcosa come: “Rauff, rauff…”. A un tratto si slanciò su per la scaletta e in un momento fu davanti al contadino.

Era un uomo alto, molto alto, con un faccione rosso. Dapprima guardò il contadino con ostilità, poi la sua bocca si aprì in un largo sorriso che scoprì i denti lunghi e appuntiti:

«Buonasera» disse.

«Buonasera» rispose il contadino, che aveva anche accennato a togliersi il cappello.

«Tu che fare qui? Contadino?»

«Sissignore.»

«Tua questa casa? Tuo questo cane?» Il cane si era avvicinato, gli annusava gli stivali. «Bella bestia,» disse il tedesco «bella bestia» e si chinò ad accarezzarlo. Gli dava dei colpetti sulla testa, mentre l’animale si schermiva e tentava per gioco di azzannare la mano. Di scatto il tedesco gli chiuse la mascella nella morsa delle dita. Il cane si divincolò furiosamente, finché il tedesco lasciò la presa, raddrizzandosi e scoppiando a ridere. «Bella bestia» ripeté guardando il contadino. «Razza… fina» aggiunse.

«Uhm» fece il contadino. «È un bastardo.»

«Bastardo? Cosa essere bastardo?» Il contadino non rispose nulla. Si chiedeva cosa mai fosse venuto a cercare lassù quel tedesco. Doveva aver fatto molta strada, a giudicare da com’era sudato. Gli stivali avevano una larga suola di fango. Quando si chinò per ricominciare a giocare col cane, la giubba, dietro, gli si aprì scoprendo una grossa pistola appesa alla cintura.

Fu la vista della pistola a ricordare al contadino la pericolosa situazione in cui si trovava. Giocando col cane, il tedesco si era allontanato di qualche passo. “Se gira l’angolo,” pensò il contadino “me la batto nella macchia.”

Ma il tedesco smise di giocare col cane.

«Hai acqua?» domandò brusco.

«Anche vino» rispose prontamente l’uomo.

«No vino; acqua» disse il tedesco. «Vino non buono quando uno stanco. Senti qua» gli prese la mano e se la schiacciò contro il petto. «Senti? Pun-pun-pun» e scoppiò a ridere.

Smise di colpo e prese a guardare dalla parte della macchia. La fitta cortina boscosa incupiva nel crepuscolo. Tra palo e palo i fili dell’alta tensione non si scorgevano già più. Il contadino dapprima pensò al suo ragazzo, poi non pensò più a nulla. Il tedesco dal canto suo sembrava si fosse dimenticato di lui. Teneva le lunghe braccia abbandonate lungo il corpo; le dita delle mani si rattrappivano e tornavano a distendersi. A un tratto cominciò a camminare avanti e indietro, borbottando qualcosa e gesticolando.

L’aria infittiva. Giù nella vallata la nebbia aveva confuso i contorni, velando i lumi che andavano accendendosi qua e là.

Il contadino si era quasi dimenticato del tedesco, quando questi gli venne vicinissimo col viso:

«Bere» disse minaccioso.

Il contadino lo precedette in casa. Dalla porta si scendevano due scalini e si era subito in cucina. Tastoni l’uomo trovò l’interruttore: una luce scialba si diffuse nella stanza. Anche il tedesco si decise a scendere i due scalini. Si guardava intorno, arricciando il naso. Non era infatti un ambiente molto confortevole. Il piano del tavolo appariva nero e untuoso. Anche sugli sgabelli e sulla panca c’era una patina d’untume nerastro. La credenza verdognola sembrava fatta di legno fradicio. Solo la mezzina sull’acquaio riluceva pulita.

«Pronti» fece il contadino mettendo il bicchiere sul tavolo.

Il tedesco lo prese di scatto, disse: «Salute» e bevve d’un fiato. «Ancora» disse.

Bevve un secondo e un terzo bicchiere, quindi emise un “Ah” di soddisfazione e si lasciò andare sulla panca.

«Vuole anche da mangiare?» disse il contadino. «Giovane, vuole anche da mangiare?»

Il tedesco non rispondeva. Aveva steso le lunghe gambe, si era appoggiato con la schiena alla parete e guardava fisso davanti a sé.

L’uomo si decise, e per prima cosa accese il fuoco. Quindi aprì la madia e scelse con cura due uova tra le sei o sette sepolte nella farina. Il tedesco nel frattempo non dava segni di vita. Ma quando si vide mettere davanti il tegamino con le due uova che friggevano nell’olio, strappò il pane dalle mani del contadino e si buttò sul cibo con la stessa avidità con cui si era buttato sull’acqua.

Il contadino lo guardava mangiare, soddisfatto. Mise in tavola il fiasco del vino, quindi affettò la carne grassa e il prosciutto. Dava al tedesco quello che era abituato a dare ai partigiani, quando il figlio glieli portava in casa.

Mangiando e bevendo, il tedesco si era fatto anche più rosso. «E tu?» disse al contadino. «Mangia; bevi; hai paura?» e rise. Ma poi diventò triste: «Tedeschi fare paura» disse. «Tedeschi essere cattivi…» Ridiventò allegro: «Ma io essere tedesco buono: capito?».

Il contadino andò a prendersi la zuppiera con la minestra avanzata e si mise a mangiare anche lui. Mangiava adagio, perché non aveva quasi più denti. Si vide mettere sotto il naso il pacchetto delle sigarette: ne prese una. Il tedesco gli porse anche il cerino acceso, ma l’uomo fece segno di no: aveva preso la sigaretta per serbarla al suo ragazzo, su al campo infatti avevano tutto, meno che da fumare.

«Io essere tedesco buono,» ricominciò quello «sai perché essere qui? Perché scappato. Non volere più tornare con camerati. Io tedesco buono, gli altri tutti cattivi. Gli altri dire: Heil Hitler!, io dire… porco Hitler, all’inferno Hitler!» e scoppiò in una grande risata. «Io essere stato tre anni in Italia, prima di guerra. Io avere molti amici italiani. Io a Roma cercare amici, ma non trovare. Io essere scappato, io volere nascondere: capito? Io non volere più fare guerra. Io comunista: capito? Io per Russia. Tu comunista?» Il contadino non rispondeva nulla. «Non avere paura, io comunista. Io per Russia. Sì, tu per Russia. Tutti italiani per Russia. Tutti italiani comunisti. Tutti italiani cantare…» e con una voce inaspettatamente calda e gradevole accennò le note dell’Internazionale. Ma il contadino non capì nemmeno in questo modo. Capì solo quando il tedesco gli domandò a bruciapelo: «Tu conoscere partigiani?». Lo aveva afferrato per un braccio e lo guardava con gli occhi supplichevoli: «Tu conoscere partigiani, sì? Io volere andare con partigiani. Tu portare me da partigiani…».

Poi per un po’ rimase zitto, ma continuava a stringere il braccio al contadino. Questi non pensava a nulla, e anzi si sentiva venir sonno. Senza il dolore del braccio, si sarebbe addormentato. L’improvviso abbaiare del cane gli fece fare uno scossone. Si spaventò al pensiero che fosse la moglie, o peggio ancora, che fosse il figliolo. Ma fortunatamente non era nessuno.

«Tu non avere famiglia?» gli chiese il tedesco. Sembrava che gli avesse letto nel pensiero. Il contadino fece cenno di sì. «Moglie?» Il contadino accennò ancora di sì. «Figli?» Il contadino non rispose nulla. «Io avere moglie, due figli.» Da qualche tasca tirò fuori un voluminoso portafoglio, e ne trasse una dozzina di fotografie. Prima le guardava lui, poi le passava al contadino. Questi le rigirava tra le dita, imbarazzato. Una donna grassa, bionda, era ritratta sempre in pose sorridenti; due bambini, anche loro grassi, biondi, giocavano in un giardino o sulla spiaggia. «Liebchen, liebchen, liebchen!» gridò il tedesco come fuori di sé, e baciò l’ultima fotografia, in cui la donna era ritratta in costume da bagno.

Poi il tedesco ricominciò a parlare e a bere. Il contadino non ci capiva nulla, e anzi, non si sforzava nemmeno di capire. Ma quando il tedesco tornò a parlare dei partigiani, si fece attento. Il tedesco era scappato; se quegli altri lo riacchiappavano, kaputt, lo ammazzavano. Il tedesco voleva nascondersi, voleva andare coi partigiani…

Improvvisamente il contadino si ricordò che tra i partigiani ce n’erano due vestiti da tedeschi: il figliolo gli aveva spiegato che erano austriaci.

«Sei austriaco?» gli chiese.

Il tedesco lo guardò:

«Austriaco?» ripeté. «Sì, sì, austriaco» e si mise a ridere. «Tu portare me da partigiani, dire che io scappato, io austriaco… Essere vicini partigiani?»

«Sì» rispose il contadino.

«Quanto tempo volere? Quanto tempo volere per andare da partigiani?»

«Un’ora» rispose il contadino.

«Allora andare subito» disse il tedesco, alzandosi. Anche il contadino si alzò. Ora che finalmente aveva capito le intenzioni del tedesco, non solo non aveva più timore, ma si sentiva pronto a far qualsiasi cosa per lui.

Il tedesco ricadde a sedere. «No, ora troppo notte» disse. «Domani mattina.»

«Vuoi che ci vada a io a dirgli che sei qui? Gli dico che ti vengano a prendere loro?» insisteva il contadino. Anche questa idea gli era stata suggerita dai discorsi del figlio. I due austriaci avevano passato la notte in un podere giù all’imboccatura della valle. Il contadino era andato ad avvertire i partigiani, e questi erano scesi a prenderli. «Io vado dai partigiani e tu aspetti qui?»

Il tedesco faceva segno di sì. Incrociò le braccia sul tavolo, reclinò il capo e cominciò subito a russare.

Il contadino era già stato altre volte dai partigiani, e d’altronde era pratico dei luoghi; ma la notte era buia, e lui, nella foga di andare, non aveva pensato a munirsi della lanterna. Così gli ci vollero almeno due ore per arrivare al campo. La sentinella che gl’intimò l’alt era Baffo, un compagno del figlio. Il figlio era fuori per un’azione; anche il comandante era fuori; così svegliarono il commissario politico. Questi lo stette a sentire assonnato e per due volte domandò: «Ma sei sicuro che sia austriaco?».

«Me l’ha detto lui» rispose il contadino.

«Potrei andarci io» disse Baffo «quando smonto di sentinella.»

«Sì, ma non andarci solo» disse il commissario. «Andateci in tre o quattro…»

Baffo non diede retta al commissario. Quando vennero a rilevarlo per il cambio, disse al contadino: «Andiamo».

Il tedesco doveva essere rimasto un pezzo in quella posizione. A un certo momento si svegliò; macchinalmente si alzò, staccò da un chiodo un vecchio cappotto e lo stese sull’impiantito di mattoni. Vi si sdraiò sopra e riprese a russare.

Il chiarore dell’alba, penetrando dalla finestrella, affievoliva la luce della lampadina da poche candele che era rimasta accesa tutta la notte. Ma fu l’abbaiare del cane a risvegliarlo.

Sentì una voce, poi un’altra. Balzò in piedi. Le voci si avvicinavano. Il tedesco estrasse la rivoltella e si mise contro la parete, puntando l’arma in direzione della porta.

Se il primo a entrare fosse stato il contadino, forse le cose sarebbero andate diversamente. Disgraziatamente fu Baffo. Il tedesco vide il berretto con la visiera, il fazzoletto rosso, lo Sten a tracolla. Sparò: lo vide afflosciarsi e stramazzare. Allora corse alla finestrella, la spalancò, scavalcò il davanzale, saltò di sotto.

Sul tavolo era rimasto il portafoglio, con le fotografie sparpagliate intorno. Così potemmo sapere che il povero Baffo era stato ucciso dal caporale Rudolf Müller, della classe 1914, nato ad Amburgo.