Dentro c’era già la luce accesa. Era una di quelle botteghe isolate nella campagna, alle quali vanno a rifornirsi i contadini, e dove perciò si vende di tutto: dai generi alimentari ai tabacchi alle caramelle ai quaderni ai filati; e che fanno anche da osterie. In fondo c’erano due che giocavano a carte: non si capiva come facessero a vederci, con quella poca luce.

Gli altri tre viaggiatori, costretti come me ad aspettare l’arrivo della corriera per M*, erano un giovanotto, una donna e una ragazza. Il giovanotto era piccolo, bruno, coi baffetti e le basette. Portava una giacca verdognola, calzoni di flanella e una camicia a scacchi aperta sul collo. Era irrequieto, consultò un paio di volte il cronometro che teneva al polso, si rivolse a me per lamentarsi della noia di quell’attesa; accese una sigaretta; si alzò, chiese ad alta voce al padrone se teneva liquori. Il padrone rispose che teneva soltanto il vino. Allora tornò a sedersi sulla panca.

Mi chiedevo chi potesse essere, un ragioniere, un perito agrario, forse anche qualcosa di meno. Era facile invece indovinare la condizione della donna che mi sedeva accanto. Magra, anziana, interamente vestita di nero, con una pezzuola in testa, si capiva subito che era una contadina. Teneva una grossa sporta tra le gambe e in mano stringeva il fazzoletto e un piccolo portamonete. Rimase immobile per tutto il tempo, guardando fisso davanti a sé, rassegnata e paziente.

La ragazza era grassottella, rossa in faccia; appena arrivata, senza perder tempo, aveva tirato fuori dalla borsa un grosso libro. Leggeva e poi alzava gli occhi e ripeteva a mezza voce quello che aveva letto.

«Va a M* anche lei, signorina?» domandò il giovanotto.

«Sì» rispose la ragazza. L’interruzione le aveva fatto perdere il filo; dovette guardare un’altra volta sul libro, e riprese a muovere le labbra rapidamente.

Ma il giovanotto, a quanto pareva, aveva deciso di attaccar discorso: non con fini galanti, credo, ma solo per ingannare la noia dell’attesa.

«Che cosa studia?» domandò.

«… italiano» rispose la ragazza.

«Ma non son finite le scuole?» insisté quello.

«Devo dare l’esame.»

«Senti» fece il giovanotto interessato. «Che esame?»

La ragazza chiuse il libro, tenendo però il segno col dito, e disse:

«L’abilitazione magistrale.»

«Ah.» Poi il giovanotto lesse ad alta voce il frontespizio del volume: «Antologia della letteratura italiana. Ci sono anche le poesie del Leopardi?» domandò.

«Sì» rispose la ragazza.

«C’è anche quella… come si chiama? Quella che comincia: Vaghe stelle dell’Orsa, io non vi credevo…»

«No» disse la ragazza, ma poi ci ripensò e fece: «Le Ricordanze?».

«Le Ricordanze, sì» disse il giovanotto. «Mi piacevano molto le poesie del Leopardi, quando studiavo. Erano poesie… meravigliose. Io mi sono diplomato da geometra» aggiunse poi.

«Lei non è mica di M*?» interloquì il padrone. Era un uomo grosso, con la faccia vinosa: fino a quel momento se n’era stato immobile dietro il banco.

«Sono di M*, sì» rispose il giovanotto.

«Allora ho capito chi è lei» disse il padrone; ma non aggiunse altro.

«Eh, tutti mi conoscono da queste parti» fece il giovanotto con soddisfazione. «Sono stato cinque anni al Catasto,» aggiunse rivolto a me «e ora lavoro per l’Ente di Riforma.»

La ragazza aveva approfittato dell’interruzione per rimettersi a studiare. Non smise più finché non s’intese il rumore della corriera. Io trovai un posto vicino al finestrino, ma era buio fitto, non si vedeva quasi niente. Vedevo il mio viso riflesso nel vetro e pensavo ai miei compagni di viaggio, alla ragazza che si avviava a diventar maestra, al geometra, alla contadina che non aveva aperto bocca in tutto il tempo. In quel poco che mi si era rivelato delle loro esistenze sentivo con intensità quanto sia triste, futile, eppure consolante la vita.