Il ritorno dalla villeggiatura non cambiò di molto le sue abitudini. L’Università si sarebbe aperta solo dopo i Santi; tolto il pomeriggio del sabato, in cui doveva recarsi alla premilitare, Fausto aveva l’intera giornata disponibile.
Il padre s’era raccomandato che cominciasse a guardarsi qualcosa di Legge; e gli aveva passato due grossi volumi, che risalivano a molti decenni prima, ma che secondo lui erano sempre un utile avviamento allo studio del Diritto. Fausto li aveva messi sul tavolo, ma si guardava bene dall’aprirli. La madre invece, vedendo che passava troppe ore chiuso in camera, gli diceva: «Esci! Goditi questi ultimi giorni di vacanza».
Fausto la mattina restava in casa, ma il pomeriggio lo dedicava a lunghe scorribande per la città. La sua meta preferita erano le librerie d’occasione e le bancarelle del centro. Ci trovava qualche romanzo da comprare, ma più spesso era il piacere di starsene in mezzo ai libri, di scorrerne i titoli, di prenderne in mano qualcuno e darci un’occhiata.
Il suo stato d’animo non subiva cambiamenti. Era costantemente quieto e felice, costantemente concentrato nel pensiero di Anna e della futura attività di scrittore. E non erano poi due pensieri diversi, ma lo stesso pensiero. Egli non concepiva nemmeno che si potesse non essere innamorati di Anna e far qualche altra cosa che non fosse lo scrivere. Per la verità, era trascorso un mese dal ritorno a Roma e non aveva ancora scritto una riga. Ma i fogli bianchi erano pronti nel cassetto e il tavolo che un tempo gli era servito per studiare ora gli appariva indubitabilmente come la scrivania del romanziere. Sulla mensola occupata prima dai libri di scuola si allineavano i romanzi che andava via via comprando. Aveva smesso di fumare il giorno stesso del ritorno a Roma e aveva anche deciso di non andare più al cinema: sopprimendo quelle abitudini, aveva inteso marcare meglio l’inizio della nuova vita. Il mensile ora lo spendeva tutto nell’acquisto di libri.
Continuava coscienziosamente a leggersi quei ponderosi romanzi tedeschi, francesi, inglesi e americani. Ma non avrebbe saputo dare un giudizio qualsiasi su di essi. Confusamente andava in cerca di ciò che gli riempiva l’animo, senza trovarlo. Quegli scrittori sembrava che si occupassero di tutt’altre cose. Uno si occupava di problemi sociali (così era detto nel risvolto della copertina) e infatti nei suoi libri non si parlava che di disoccupati, di reduci, di prostitute. Un altro era preso tutto dai problemi del sesso; ma l’amore era per Fausto un’altra cosa, un sentimento dolce, tranquillo, senz’ombra di sensualità né di passione. Un terzo trattava argomenti religiosi e morali: e infatti il protagonista del suo romanzo era un prete, che faceva discorsi interminabili, nei quali Fausto, per quanta buona volontà ci mettesse, non riusciva a capir nulla.
Una volta compiuto il dovere di leggere qualcuno di quei grossi romanzi, lo riponeva sulla mensola e non sentiva più il bisogno di riprenderlo in mano. Ma uno dei volumi della «Medusa» non passava giorno senza che fosse tentato di sfogliarlo. Era una presentazione dei romanzieri fino allora stampati nella collezione. Per ognuno era riportata una fotografia, una notizia biografica, un breve profilo critico, finalmente qualche pagina di saggio, una novella o il brano di un romanzo. Le fotografie soprattutto attraevano Fausto. I romanzieri generalmente si erano fatti ritrarre dietro la scrivania: con la sigaretta o la pipa in mano, e lo sguardo stanco e trasognato di chi smette di lavorare proprio in quel punto. Qualcuno aveva avuto il cattivo gusto (così almeno pareva a Fausto) di farsi fotografare in altre pose, all’aria aperta, e uno si trovava a bordo del suo panfilo, uno addirittura era ritratto in costume da sciatore. Ma anche tra i romanzieri in posa dietro la scrivania, non tutti erano correttamente vestiti. Alcuni erano in maniche di camicia, altri in maglione. Fausto pensava che lui per farsi fotografare avrebbe scelto un abito scuro. Avrebbe avuto davanti un pacco di fogli bianchi, nella destra la stilografica e nella sinistra la sigaretta (quando fosse diventato uno scrittore avrebbe ricominciato a fumare). E sulla scrivania sarebbe stato bene in vista un ritratto, il ritratto di Anna.
Leggeva con avidità le notizie biografiche. Quegli scrittori avevano avuto quasi tutti inizi difficili, erano stati costretti, per vivere, ai più svariati mestieri: impiegato di banca, commesso di negozio, maestro elementare, qualcuno aveva dovuto perfino adattarsi a lavori manuali. E i loro manoscritti sulle prime non avevano trovato un editore.
Di quasi tutti poi era detto che si erano sposati giovanissimi.
Fu così che Fausto capì che avrebbe sposato Anna. Fino ad allora quell’idea, la più normale per un innamorato, non gli era nemmeno passata per la mente.
Cominciò subito a immaginare nei più minuti particolari come sarebbe stata la sua vita con Anna. Certamente, pensava, si sarebbero stabiliti alla periferia. Era questo segreto pensiero che lo guidava ora nei suoi vagabondaggi solitari. Scopriva sempre nuovi quartieri al limite tra città e campagna, pieni di quel sottile fascino che emana da tutto ciò che si trova ai margini, che non ha una caratterizzazione precisa.
Un pomeriggio era giunto a piedi fino alla Madonna del Riposo. Le strade quasi di campagna fiancheggiate da siepi di sambuco, gli orti e i campicelli che erano al di là delle siepi, le misere baracche, qualche grosso casamento o qualche villetta che gli si parava inopinatamente davanti, tutta quella periferia disordinata ed eterogenea sembrava esprimere col muto linguaggio delle cose lo stesso sentimento che era al fondo dell’anima sua. Anche le persone sembravano spogliate della grossolanità di cui è rivestita l’umanità comune. La vista di un uomo che zappava in un orto gli dava un brivido di piacere, la voce della donna che chiamava il figlio aveva una rispondenza nel suo cuore, e così gl’innamorati che parlavano nel cerchio di luce della lampada, e la servetta che scendeva in città con la bottiglia del latte. Fausto non aspettò, come le altre sere, che il calar della notte lo risospingesse verso il centro. Tornò indietro in fretta, prese un tram al capolinea, e in dieci minuti fu a casa. Tirò fuori il pacco di fogli e cominciò a scrivere. Non scriveva una novella, semplicemente si provava nella descrizione di un paesaggio di periferia. Riempì in fretta un mezzo foglio, poi non fu più capace di andare avanti. Rilesse quello che aveva scritto e rimase deluso. Sì, egli aveva tentato di descrivere l’uomo che zappava nell’orto, la voce della donna che richiamava il figlio, la servetta che scendeva in città con la bottiglia del latte; ma dell’incanto che c’era nei gesti misurati dell’uomo o nel richiamo della donna, non si conservava traccia nelle sue parole. Ed era bene quell’incanto che avrebbe voluto far rivivere. Sconfortato, lacerò il foglio e lo buttò nel cestino.
Non sapendo che fare, prese un libro che aveva comprato il giorno prima. S’intitolava Gente di Dublino e ne era autore James Joyce. Lesse i primi tre racconti, poi si stancò e rimase senza far niente seduto al tavolo, in attesa che lo chiamassero per la cena.
Si era ormai a metà novembre, ma il tempo si manteneva bello. La mattina Fausto andava all’Università, dove aveva cominciato a seguire due corsi; il pomeriggio usciva di casa subito dopo mangiato e raggiungeva a piedi qualche zona della periferia. Il vagabondaggio in periferia era ormai indispensabile al suo animo: solo lì ritrovava la pace del cuore. A lungo fantasticava su quella che sarebbe stata la sua casa, la casa dove sarebbe andato a vivere con Anna. A volte sceglieva una villetta bassa, col giardinetto intorno. A volte invece lo attraeva un alto palazzo sorto in uno scasso del terreno. Ma si può dire che non c’era fabbricato che non avesse un fascino per lui.
Anche ricercava alla periferia i motivi della sua ispirazione. E non che questi motivi mancassero, anzi! Tutto alla periferia gli pareva degno di nota: i grandi viali asfaltati; le zone incolte, tutte buche e monticelli, dove giocavano i ragazzi e correvano i binari dei décauville; gli orti che sopravvivevano tra le nuove costruzioni; le osterie protette da pergolati o da graticciate verdi. Soltanto a descrivere tutto questo, non si sarebbe finito più. Ma egli sentiva che in ogni caso una descrizione sarebbe stata insufficiente. Bisognava ambientare alla periferia una vicenda, ma che specie di vicenda?
Un giorno capitò in un quartiere nuovo passato Ponte Milvio. Era un insieme di casamenti grigi, dai cortili tetri che s’intravedevano oltre i grandi cancelli sormontati da un arco. Anche qui però la periferia aveva imposto la sua legge di eterogeneità e di disordine. Fausto se ne accorse appena oltrepassato l’ultimo blocco. La strada asfaltata, coi marciapiedi larghi, continuava a salire leggermente. Ma Fausto si fermò perché era ormai il crepuscolo. Da una parte si ergeva una collina che egli giudicò una propaggine di Monte Mario: le sagome di alcuni pini e una fila di cipressi si profilavano nette contro il cielo incendiato dal tramonto. Dall’altra parte, verso il Tevere, si stendeva un accampamento di casupole. Fausto sostò a guardare in quella direzione. Era tutto teso come nell’imminenza di una scoperta. Non voleva tornarsene ancora una volta a casa a mani vuote! Frugava con lo sguardo nell’aria di cenere, tra i fumi che si levavano dalle baracche e la nebbiolina che saliva dal fiume. Ma in quale libro aveva già trovato la descrizione di un ammasso di casupole al crepuscolo?
A un tratto ricordò che era in uno dei racconti di Gente di Dublino. Lo scrittore paragonava le casupole al crepuscolo a un gruppo di vagabondi che stessero per alzarsi, scuotersi la polvere di dosso e riprendere il cammino. Fausto ricordò che Joyce sembrava prediligere anche lui i paesaggi di periferia e l’ora del crepuscolo. Colpito da questa scoperta, si sentì pronto per il ritorno.
Arrivò a casa che mancava sempre più di un’ora alla cena. Si chiuse in camera e riprese il libro che aveva letto un mese prima senza che gli facesse nessuna particolare impressione. Dapprima lo sfogliò per ricercare quel passo in cui alcune casupole erano paragonate a un gruppo di straccioni. E rimase un po’ deluso, perché non rendeva l’impressione che aveva provato poco prima, davanti all’ammasso di baracche tra i fumi del crepuscolo. Poi rilesse il secondo racconto, intitolato Un incontro. Parlava di una scappata di due ragazzi che invece di andare a scuola vagabondano per la città. E anche qui trovò l’eco di un’impressione che gli pareva di aver già provato, l’impressione che dànno certe mattine limpide e luminose, quando i rumori della città e l’affaccendarsi della gente mettono addosso una piacevole eccitazione, e si sente il desiderio di fare, di muoversi, di partire in cerca di avventure… Quella sera Fausto a cena era irrequieto, tanto che la madre gli domandò cos’aveva. Egli non rispose, ma sapeva bene quello che aveva: aveva l’impressione di non essere più solo, perché c’era già stato qualcuno che aveva provato i suoi stessi sentimenti ed era stato anzi capace di esprimerli.