[1] Schopenhauer intende con ciò il suo trattato; Il mondo come volontà e come fenomeno (rappresentazione). (N. del Trad.).
[2] Narrenkolbe (mazza da pazzo) in tedesco, Marotte in francese, in italiano non v’ha parola corrispondente. (Nota del Trad.).
[3] Altre traduzioni riportano “Habes, habeberis”.
[4] Prendo qui ed in altri punti la parola agi nel senso di ozi, vale a dire per l’opportunità di poter disporre come meglio aggrada del proprio tempo. In francese avremmo loisirs, parola che esprime magnificamente il concetto. (Nota del Trad.).
[5] La natura va elevandosi costantemente dall’azione meccanica e chimica del regno inorganico fino al regno vegetale nella sua tacita soddisfazione di sè stessa; di qui al regno animale con cui si mostra l’aurora dell’intelligenza e della coscienza; poi, partendo da questi deboli principi, sale di grado in grado sempre più alto per arrivare finalmente con un ultimo e supremo sforzo all’uomo, nel cui intelletto raggiunge il punto culminante e lo scopo delle sue creazioni, dando così quanto essa può produrre di più perfetto e di più difficile. Tuttavia pur nella specie umana, l’intelletto presenta ancora delle graduazioni numerose e sensibili, e molto di raro arriva fino al grado più elevato, sino all’intelligenza effettivamente superiore. Questa dunque, nel senso più ristretto e più rigoroso, è il prodotto più difficile, il prodotto supremo della natura; e quindi essa è ciò che il mondo può offrire di più raro e di più prezioso, si è in una tale intelligenza che appare la conoscenza più lucida e che il mondo si riflette quindi più chiaramente e più completamente che altrove. Sicchè l’essere che ne è dotato possede ciò che v’ha di più nobile e di più squisito sulla terra, una sorgente di piacere al cui confronto tutte le altre sono meschinissime, talmente che egli non avrà a chiedere al mondo esterno se non agi per godere del suo bene senza molestie, e per finire la sfaccettatura del suo diamante. Perocchè tutti gli altri piaceri, non intellettuali, sono di natura volgare; essi tutti hanno in vista movimenti della volontà, quali desideri, speranze, timori, aspirazioni realizzate, qualunque ne sia la natura; tutto questo non può compiersi senza dolori, ed inoltre, una volta raggiunto lo scopo, s’incontrano d’ordinario disinganni in maggior o minor numero secondo il caso; mentre nelle gioje intellettuali la verità si presenta sempre più chiara. Nel dominio dell’intelligenza non regna alcun dolore! tutto è cognizione. Ma i piaceri intellettuali non sono accessibili all’uomo che per la via e nella misura dell’intelligenza. Perchè «tutto lo spirito che v’ha al mondo è inutile a chi non ne possede.» Tuttavia uno svantaggio non manca mai d’accompagnare questo privilegio ed è che in tutta la natura, la facilità ad esser impressionato dal dolore aumenta nel tempo stesso che si alza il grado dell’intelligenza, e che in conseguenza essa arriverà al suo massimo nell’intelligenza più elevata. (Nota di Schopenhauer).
[6] La volgarità consiste in sostanza nel fatto che il volere la vince totalmente, nella coscienza, sull’intelletto, per cui le cose arrivano ad un tal punto che l’intelletto non appare più che per il servizio della volontà: quando questo servizio non reclama intelligenza, quando non esistono motivi nè piccoli, nè grandi, l’intelletto cessa completamente, e sopraggiunge una vacuità assoluta di pensieri. Ora il volere sprovvisto d’intelletto è ciò che v’ha di più basso; ogni tronco lo possede e lo manifesta, non foss’altro quando cade. Si è dunque un tale stato che costituisce la volgarità. In essa gli organi dei sensi ed una minima attività intellettuale, necessari a fermare i loro dati, rimangono soli in azione; ne risulta che l’uomo volgare resta sempre aperto a tutte le impressioni, e percepisce istantaneamente tutto quanto succede intorno a lui, al punto che il suono più leggero per esempio, o qualunque circostanza per quanto insignificante, sveglia tosto la sua attenzione, proprio come succede negli animali. Tutto ciò apparisce dal suo viso e dal suo esteriore, ed è da ciò che proviene l’apparenza volgare, apparenza la cui impressione è tanto più ributtante in quanto che, come succede molto spesso, la volontà, la quale allora occupa tutta la coscienza, è bassa, egoista e cattiva. (Nota di Schopenhauer).
[7] Letterale: Un mestiere ha un fondo d’oro.
[8] Mi si permetta il neologismo. (Nota del Trad.).
[9] Mediocre et rampant nell’originale. (N. del Trad.).
[10] Le classi più eminenti nel loro lustro, splendore e fasto, nella loro magnificenza ed ostentazione d’ogni natura possono dire a sè stesse: La nostra felicità è posta interamente fuori di noi; il suo luogo è nella testa degli altri. (Nota di Schopenhauer).
[11] Scire tuum nihil est, nisi te scire hoc sciat alter (Che tu sappi è niente, se non sai che gli altri lo sanno). (Nota di Schopenhauer).
[12] Point d’honneur und puntiglio nel testo. (Nota del Trad.).
[13] Vedemmo cosa dice lo Schopenhauer dei Francesi, degli Inglesi e dei Tedeschi; vediamo ora come parla degli Italiani: «Qualità dominante nel carattere nazionale degli Italiani si è un’impudenza assoluta che proviene da ciò che eglino si considerano come se non fossero nè al di sopra nè al di sotto di chicchessia, vale a dire che sono a vicenda arroganti e sfrontati, oppure vili ed abbietti. Chiunque, invece, ha pudore è per certe cose troppo timido, per altre troppo fiero. L’italiano non è nè l’uno nè l’altro, ma secondo le circostanze poltrone od insolente.» Dei Tedeschi scrisse pure: «In previsione della mia morte faccio questa confessione: che disprezzo la nazione tedesca a causa della sua infinita stupidezza, e che arrossisco di appartenerle.» Si veda in proposito: A. Schopenhauer. Von ihm. Ueber ihn, von Lindner; Memorabilien, von Frauenstaedt (Berlino, 1863). (Nota del Trad.).
[14] In francese nell’originale.
[15] Nei manoscritti di Schopenhauer Adversaria, cominciati nel marzo del 1828 a Berlino, nei quali si contiene la prima idea di un trattato dal titolo: Schizzo d’una dissertazione sull’onore, si legge: Ecco dunque questo codice! Ed ecco l’effetto strano e grottesco che producono, quando sono stabiliti su nozioni precise ed enunciati chiaramente, questi principî, a cui obbediscono ancora oggidì nell’Europa cristiana tutti coloro che appartengono alla così detta buona società od al così detto bon ton. Vi sono pure molte persone, fra coloro a cui questi principi sono stati inoculati fin dalla prima gioventù colla parola e coll’esempio, che credono in essi più fermamente che nel loro catechismo; che portano loro la venerazione più profonda e più sincera; che sono pronti in ogni momento a sacrificar loro felicità, riposo, salute e vita; che sono convinti che la loro radice stia nella natura umana, che sieno innati, che esistano a priori e che sieno posti al di sopra di qualunque esame. Io sono ben lontano dal voler portar colpi al loro cuore, ma devo dichiarare che tutto ciò non fa testimonianza in favore della loro intelligenza. Di più questi principî dovrebbero convenire meno che a tutt’altra, a quella classe sociale destinata a rappresentare l’intelligenza, a diventare il sale della terra, e che per conseguenza si prepara a quest’alta missione: intendo parlare della gioventù accademica, la quale in Germania, ohimè! obbedisce a questi precetti più che qualunque altra classe di persone. Qui io non vengo a richiamare l’attenzione dei giovani studenti sulle conseguenze funeste od immorali di tali massime; lo si deve aver fatto ben di sovente. Mi limiterò dunque a dir loro ciò che segue: Voi, la cui gioventù è stata nutrita colla lingua e colla saggezza dell’Ellade e del Lazio, voi, per cui si ebbe la cura inapprezzabile d’illuminare di buon’ora la giovane intelligenza coi raggi splendidi emanati dalle menti nobili e saggie del bel tempo antico, come mai volete voi esordire nella vita prendendo per regola di condotta questo codice della demenza e della brutalità? Vedetelo, questo codice, quando, come ho fatto io, lo si stabilisce su nozioni chiare, come è spiegato, là, davanti i vostri occhi, nella sua miserabile nullità; fatene la pietra di paragone non del vostro cuore, ma della vostra ragione. Se questa non lo respinge, allora la vostra mente non è atta a coltivare un campo per cui qualità indispensabili sono una forza energica di raziocinio che spezzi facilmente i legami del pregiudizio, ed una ragione chiaroveggente che sappia distinguere nettamente il vero dal falso anche là dove la differenza è profondamente nascosta, e non solamente dove, come qui, è palpabile; se così fosse, miei buoni amici, cercate qualche altro mezzo onesto per tirar avanti nel mondo: fatevi soldati, o imparate qualche mestiere, che una buona arte è sempre un podere d’oro. (Nota dell’editore tedesco).
[16] Cioè chi vuole scimiottare i nobili ed i militari. (Nota del Trad.).
[17] “affatto” ripetuto nel testo.
[18] Nel già ricordato «Schizzo di una dissertazione sull’onore» Schopenhauer così racconta questa storia: Due uomini d’onore, l’uno dei quali si chiamava Desglands, corteggiano la stessa donna: essi sono seduti a tavola vicini, e dirimpetto alla dama, di cui Desglands cerca fissar l’attenzione con discorsi vivaci; ma ciò durante, gli occhi della persona amata carezzano costantemente il rivale di Desglands, ed ella non presta a quest’ultimo che un orecchio distratto. La gelosia provoca in Desglands, che tiene in mano un uovo a bere, una contrazione spasmodica; l’uovo scoppia, e il suo contenuto salta sul viso del rivale. Questi fa un gesto colla mano, ma Desglands gliela afferra e gli dice nell’orecchio: «Lo tengo per dato». Si fa un profondo silenzio. L’indomani comparisce Desglands colla guancia destra coperta da un gran tondo di taffetà nero. Ha luogo il duello e il rivale di Desglands riceve una ferita grave, ma non mortale. Desglands diminuisce allora di alcune linee il suo taffetà. Alla guarigione del rivale, secondo duello; Desglands gli cava sangue nuovamente e impiccolisce ancora il noto circoletto. E così per cinque o sei volte di seguito: dopo ogni duello Desglands riduce sempre più stretta la circonferenza dell’impiastro, che finalmente fa sparire alla morte dell’avversario. (Nota dell’editore tedesco).
[19] L’onore cavalleresco è figlio dell’orgoglio e della follia (la verità opposta a questi precetti si trova nettamente espressa nella commedia El Principe constante colle parole: Esa es la herencia de Adan, gli affanni sono il retaggio dei figli di Adamo)Reca stupore che questo orgoglio estremo non s’incontri che in seno di quella religione che impone ai suoi aderenti l’umiltà estrema; nè le epoche anteriori, nè le altre parti del mondo conoscono tale principio dell’onore cavalleresco. Tuttavia non è alla religione che bisogna attribuirne la causa, ma al regime feudale durante il quale ogni nobile si considerava come un piccolo sovrano; egli non riconosceva fra gli uomini alcun giudice che fosse messo al di sopra di lui; imparava così ad attribuire alla sua persona una inviolabilità ed una santità assolute; ed è per questo che qualunque attentato contro la sua persona, una percossa, una ingiuria, gli sembrava un delitto meritevole di morte. Per ciò il principio dell’onore ed il duello non erano in origine che un affare concernente i nobili; essi si estesero più tardi agli officiali, a cui si unirono poi qualche volta, ma giammai d’un modo costante, le altre classi più eminenti, nello scopo di non perdere in considerazione. Le ordalie, quantunque abbiano fatto nascere il duello, non sono l’origine del principio dell’onore cavalleresco; esse non ne sono che la conseguenza e l’applicazione: chiunque non riconosce in altro uomo il diritto di giudicarlo ricorre al giudice divino. — Le ordalie stesse non appartengono esclusivamente al Cristianesimo; le troviamo spesso nel Brahmanismo, benchè più di sovente nelle epoche più antiche; ne esistono però vestigi anche oggigiorno. (Nota dell’Autore). (*) Le parole sopra citate fra parentesi, si leggono così nel Principe costante (Jorn. III, Esc. 8, ed. Hartzenbüsch). (Don Giovanni entra con un pane) Don Giovanni Per portarti questo pane io fui inseguito dai Mori e le loro spade mi ferirono; arrivo or ora fieramente minacciato. Fernando La miseria (gli affanni) è il retaggio d’Adamo (dei figli d’Adamo). (Nota dell’editore tedesco). . (*)
[20] Venti o trenta colpi di canna sulle natiche sono, per così dire, il pane quotidiano dei Chinesi. È questa una correzione paterna del mandarino, correzione che non ha niente d’infamante, e che viene ricevuta con vivi ringraziamenti (Lettres édifiantes et curieuses, ediz. del 1819, voi XI, pag. 454). (Citazione dell’Autore).
[21] Ecco, secondo me, qual’è il vero motivo per cui i governi non si sforzano che in apparenza a proscrivere i duelli, cosa ben facile, sopra tutto nelle Università, e d’onde viene che essi pretendano non potervi riuscire; lo Stato non è in grado di pagare con danaro i servigi dei suoi officiali e dei suoi impiegati civili al loro giusto valore; perciò fa consistere l’altra metà dei loro emolumenti in onore, rappresentato dai titoli, dalle uniformi e dalle decorazioni. Per mantenere tale prezzo ideale dei loro servigi ad un corso elevato, bisogna, con ogni mezzo, sostenere, avvivare ed anche esaltare un po’ il sentimento dell’onore; siccome a tal uopo l’onore borghese non basta per la semplice ragione che è proprietà comune di tutti, si chiama in aiuto l’onore cavalleresco che si stimola, come abbiamo già dimostrato. In Inghilterra, ove il soldo dei militari e degli impiegati civili è molto maggiore che sul continente, non si ha bisogno d’un tale espediente; sicchè, da una ventina d’anni specialmente, il duello vi è quasi affatto caduto in disuso; e nelle rare occasioni in cui vi si ricorre ancora, il pubblico ne ride come d’una pazzia. È certo che la grande Anti-duelling Society, che conta fra i suoi membri una folla di lord, d’ammiragli e di generali, ha contribuito assai a questo risultato, e il Moloch deve così far a meno di vittime. (Nota dell’Autore).
[22] Ecco la famosa nota: Ma se altri cercasse di altercare con lui, come dovrà egli comportarsi? Rispondo ch’egli non avrà mai alterchi, se non si presterà abbastanza per averne. Ma infine, si seguiterà a chiedere, chi sarà salvo da uno schiaffo o da una smentita da parte d’un brutale, d’un ubbriaco, o d’un bravaccio briccone che per avere il piacere di uccidere un uomo comincia col disonorarlo? Allora è un’altra cosa: è necessario che l’onore dei cittadini e la loro vita non sieno in balia d’un brutale, d’un ubbriaco o d’un bravaccio briccone, e non si può preservarsi da un tale accidente meglio che dalla caduta di una tegola. Uno schiaffo ed una smentita ricevuti e sofferti hanno effetti civili che nessuna saggezza può prevenire, e di cui nessun tribunale può vendicare l’offeso. L’insufficienza della legge gli rende dunque in ciò l’indipendenza; egli è allora il solo magistrato, il solo giudice tra l’offensore e sè stesso: egli è il solo interprete e il solo ministro della legge naturale, egli si deve giustizia e solo può rendersela e non v’ha sulla terra governo tanto insensato per punirlo di essersela fatta in caso tale. Non dico che debba andare a battersi, sarebbe una stravaganza; dico ch’egli si deve giustizia e che ne è il solo esecutore. Senza tanti vani editti contro il duello, se io fossi sovrano, garantisco che non sarebbero mai dati schiaffi nè smentite nel mio regno, e ciò con un mezzo molto semplice, con cui i tribunali non avrebbero a che fare. Checchè ne sia Emilio conosce la giustizia che in tal caso deve a sè stesso, e l’esempio che deve alle persone d’onore. Non dipende dall’uomo il più risoluto l’impedire che lo si insulti; ma dipende da lui l’impedire che si possa vantarsi a lungo di averlo insultato. (N. del Trad.).
[23] E il medico che assiste al duello, come andrebbe trattato? (domanda il traduttore).
[24] Perciò si fa un brutto complimento quando, come è di moda oggidì, credendo render onore ad opere, le si chiama atti. E ciò perchè le opere sono, per la loro essenza, d’una specie superiore. Un atto è sempre un’azione basata sopra un motivo, per conseguenza, qualche cosa d’isolato, di transitorio, ed appartenente all’elemento generale e primitivo del mondo, alla volontà. Una grande e bella opera è cosa durevole, perocchè la sua importanza è universale, ed ella stessa procede dall’intelligenza, da quell’intelligenza innocente e pura che si leva come un profumo al di sopra del basso mondo della volontà. Fra i vantaggi della gloria delle azioni v’ha pur quello di prodursi ordinariamente d’improvviso con grande splendore, così grande che talvolta l’Europa intera ne è abbarbagliata, mentre la gloria delle opere non giunge che con lentezza od insensibilmente debole da bel principio, poi cresce più e più, e di sovente non arriva a tutta la sua potenza che dopo un secolo; ma allora rimane così per migliaia d’anni, perchè anche le opere rimangono. L’altra gloria, passata la prima esplosione, s’indebolisce gradatamente, è sempre meno conosciuta, e finisce col non esister più che nella storia allo stato di fantasma. (Nota dell’Autore).
[25] Per ben comprendere il senso delle parole di Schopenhauer bisogna sapere che il grande pessimista, non traduce mai le citazioni latine, e che delle greche dà solamente, e non sempre, la traduzione in latino. Per Epicarmo fa un’eccezione in favore degl’ignoranti sempre da lui profondamente dispregiati. (Nota del Trad.).
[26] Siccome il nostro maggior piacere consiste nell’ammirazione degli altri verso di noi, ma siccome d’altra parte gli altri non consentono che assai difficilmente ad ammirarci anche quando l’ammirazione sarebbe giustificata appieno, ne risulta che più felice è colui che è giunto, non importa come, ad ammirare sinceramente sè stesso. Solamente ei non deve lasciarsi sviare dagli altri. (Nota dell’Autore).
[27] L’Ecclesiaste.
[28] Qual modo di dire ha voluto citare Schopenhauer con queste parole? Forse il campar la vita? (Nota del Trad.).
[29] Da Omero.
[30] Come il nostro corpo è avvolto nei vestiti, così il nostro spirito è inviluppato di menzogne. Le nostre parole, le nostre azioni, tutto il nostro essere sono bugiardi, e non è che a traverso questo intonaco che si può qualche volta intravvedere il nostro vero pensiero, come a traverso i vestiti le forme del corpo. (Nota dell’Autore).
[31] In francese nell’originale. (Nota del Trad.).
[32] Tutti sanno che i mali si sentono meno sopportandoli in comune: pare che fra questi mali gli uomini contino la noja, ed è per questo che si riuniscono allo scopo di annojarsi insieme. Nello stesso modo che l’amore della vita non è alla fin fine che la paura della morte, così l’istinto sociale degli uomini non è un sentimento diretto, vale a dire non è fondato sull’amore della società, ma sulla paura della solitudine, perocchè non è in verità la benefica presenza degli altri che si cerca, ma si fugge piuttosto l’aridità e la desolazione dell’isolamento, e così pure la monotonia della propria coscienza; per togliersi alla solitudine ogni compagnia è buona, anche la cattiva, e ciascuno si sottomette volontieri alla fatica ed alla riservatezza forzata che qualunque società porta necessariamente con sè. — Ma quando il disgusto di tuttociò ha preso il sopravvento, quando, come conseguenza, la solitudine si ha caparrata la nostra simpatia e noi abbiamo vinto quella prima impressione che essa produce, in modo da non provar quegli effetti che più in alto abbiamo descritti, allora si può a bell’agio restar sempre soli; non si rimpiangerà di certo il mondo, perchè non si avrà bisogno diretto di esso, e perchè ormai si sarà avvezzi alle conseguenze benefiche dell’isolamento. (Nota dell’Autore).
[33] Gli aforismi sulla saggezza nella vita fanno parte di una raccolta di scritti pubblicata da Schopenhauer sotto il titolo di Parerga und Paralipomena. Ecco l’apologo di cui l’autore parla nel testo: «In una rigida giornata d’inverno una truppa di porcospini si era messa in mucchio serrato per salvarsi scambievolmente dal freddo col loro proprio calore. Ma subito sentirono le offese delle loro punte, ciò che li fece allontanare gli uni dagli altri. Quando il bisogno di riscaldarsi li avvicinò di nuovo, si rinnovò lo stesso inconveniente, dimodochè essi furono ballonzolati di qua e di là tra i due patimenti fino a che non ebbero trovato una distanza media che rese loro sopportabile la situazione. Così il bisogno di società, nato dalla vacuità o dalla monotonia del loro interno, spinge gli uomini gli uni verso gli altri; ma le numerose loro qualità ributtanti e i loro insopportabili difetti li disperdono nuovamente. La distanza media che essi finiscono collo scoprire, e nella quale la vita in comune diventa possibile, si è la pulitezza e le belle maniere. In Inghilterra si grida a chi non mantiene la dovuta distanza: Keep your distance! — Con questo mezzo il bisogno di mutuo riscaldamento non è invero soddisfatto che a metà, ma in cambio non si sente la puntura delle spine. — Chi però possede molto calorico suo proprio preferisce rimanere fuori della società per non provare nè cagionare sofferenze.» (Nota del Trad.).
[34] L’invidia, negli uomini, dimostra quanto si sentono infelici, e la continua attenzione che portano a tutto ciò che fanno o non fanno gli altri, prova quanto si annojano. (Nota dell’Autore).
[35] In italiano nell’originale.
[36] n francese nell’originale. Si veda a proposito di questo motto la nota a pag. 10. (Nota del Trad.)
[37] Il sonno è una piccola porzione di morte che noi prendiamo a prestito anticipando (*) e col cui mezzo riguadagniamo e rinnovelliamo la vita consumata nello spazio di un giorno. Le sommeil est un emprunt fait à la mort. Il sonno prende a prestito dalla morte per mantenere la vita. Oppure esso è l’interesse pagato provvisoriamente alla morte, che rappresenta il pagamento completo del capitale. Il rimborso totale è chiesto con un ritardo tanto più lungo quanto più l’interesse è alto e pagato regolarmente. (Nota di Schopenhauer). (*) In italiano nel testo originale. (Nota del Trad.).
[38] Così nell’originale. (Nota del Trad.).
[39] In italiano nel testo. (Nota del Trad.).
[40] In italiano nel testo originale. (Nota del Trad.).
[41] Se negli uomini, tali quali sono nella maggior parte, il lato buono superasse il cattivo, sarebbe cosa saggia fidarsi alla loro giustizia, alla loro equità, alla loro fedeltà, alla loro affezione od alla loro carità piuttosto che al loro timore; ma siccome succede affatto il contrario, fare il contrario sarà più saggio. (Nota dell’Autore).
[42] Cfr. nell’op. Il mondo come volontà e come rappresentazione, 3a ed., vol. II, p. 256 le toccanti parole del D. Johnson e di Merk, l’amico di gioventù di Goethe.
[43] Vedi Oraculo manual y arte de prudencia, 240 (Obras, Amberes 1702, P. II, p. 287).
[44] Per tirar avanti nel mondo amicizie e camerate sono, fra tutti, il mezzo più potente. Ma le grandi capacità danno fierezza; si è allora disadatti per adulare coloro che ne sono privi e davanti ai quali, precisamente a causa di questo, si devono dissimulare le proprie qualità eminenti. La coscienza di non avere che mezzi limitati agisce in senso opposto; essa si accorda perfettamente coll’umiltà, l’affabilità, la condiscendenza ed il rispetto per ciò che è cattivo; giova quindi per farsi amici e protettori. Tutto questo non si applica solamente alle funzioni dello Stato, ma pure alle cariche onorifiche, alla dignità, ed anche alla gloria nel mondo della scienza; ciò che produce, per esempio, che nelle accademie la buona e brava mediocrità occupa sempre il primo posto e che la gente di merito non vi entra che tardi o forse mai: lo stesso succede da per tutto. (Nota dell’Autore).
[45] Bacone da Verulamio dice così: «Non è piccola prerogativa di prudenza se alcuno con una certa arte e grazia possa presso gli altri far mostra di sè, col millantare opportunamente le sue virtù, i meriti ed anche la fortuna (quando ciò possa esser fatto senza arroganza o fastidio), e all’opposto coll’occultare artificiosamente i vizi, i difetti, gl’infortuni e i disonori; in quelle trattenendosi e volgendole come contro a luce, in questi cercando sotterfugi o purgandoli coll’interpretarli destramente, e altre cose di simil fatta. Così Tacito intorno a Muziano, uomo della sua età prudentissimo e ad operare prontissimo, disse: Di tutte le cose che aveva dette e fatte, con una certa arte vantatore. Questa cosa abbisogna senza dubbio di un qualche artifizio, onde non generi noja o spregio: cosicchè, nondimeno, una certa millanteria, benchè fino al primo grado della vanità, sia piuttosto vizio in Etica che in Politica. Imperciocchè siccome suol dirsi della calunnia, arditamente calunniando sempre qualche cosa rimane affissa (semper aliquid haeret), così possa dirsi della jattanza (se pur non sia stata brutta e ridicola) con audacia va gloriando te stesso, chè sempre qualche cosa resta attaccata (semper aliquid haeret). Starà impressa di certo presso il popolo, abbenchè i più savi sorridano. Dunque la stima ottenuta appresso i più compenserà in gran copia il fastidio dei pochi». (De augmentis scientiarum, Lugd. Batav. 1645. L. VIII, C. 2, p.644 e seg.). (Nota dell’Editore tedesco)
[46] Il caso ha in ogni cosa umana un campo d’azione così vasto che se noi cerchiamo subito di prevenire per mezzo di sacrifici un pericolo che ci minaccia di lontano, spesso questo pericolo per un nuovo indirizzo impreveduto degli avvenimenti scompare, ed ecco che non solo vanno perduti i sacrifici fatti, ma ancora i cambiamenti che da questi risultarono, riescono, per la mutata condizione delle cose, a dirittura di pregiudizio. Non dobbiamo quindi, prendendo le nostre misure, andar troppo avanti nell’abbracciare l’avvenire, bensì calcolare anche sul caso ed audacemente affrontare qualche pericolo, sperando che esso, come tante nere nuvole di temporale, passi oltre. (Nota di Schopenhauer).
[47] Nell’età matura si sa meglio guardarsi dall’infelicità, in giovinezza a sopportarla. (Nota dell’Autore).
[48] La vita umana, propriamente parlando, non può esser detta lunga nè corta, perocchè, in sostanza, è la scala su cui misuriamo tutte le altre lunghezze di tempo. Le Upanishadi dei Veda (Oupnekhat, Vol. II, p. 53) danno 100 anni per durata naturale della vita, e con ragione, a mio credere; perocchè ho notato che coloro solamente che passano i 90 anni finiscono coll’eutanasia, cioè muojono senza malattia, senza apoplessia, senza convulsioni, senza rantolo, qualche volta anche senza pallore, il più di sovente seduti, specialmente dopo aver preso cibo: sarebbe più esatto dire non che muojono, ma che cessano soltanto di vivere. In qualunque altra età anteriore a questa non si muore che di malattia, dunque prematuramente. — Nel Vecchio Testamento (Salmo 90, 10) la durata della vita umana è valutata di 70 anni, tutto al più di 80; e, cosa più importante, Erodoto (I, 32 e III, 22) dice lo stesso. Ma ciò non è vero, e non è che il risultato di una maniera grossolana e superficiale d’interpretare l’esperienza giornaliera. Perchè, se la durata naturale della vita fosse di 70-80 anni, gli uomini tra 70 e 80 anni dovrebbero morire di vecchiaja; ciocchè non succede: essi muojono di malattia, come i loro cadetti; ora la malattia, essendo essenzialmente una cosa anormale, non costituisce la fine naturale. Non è che tra 90 e 100 anni che diventa normale morir di vecchiaja, senza malattia, senza lotte, senza rantolo, senza convulsioni, qualche volta senza impallidire, in una parola di eutanasia. — Anche sopra questo punto le Upanishadi hanno dunque ragione fissando a 100 anni la durata naturale della vita. (Nota di Schopenhauer).
[49] Circa 62 nuovi pianeti sono stati scoperti ancora, ma è questa una innovazione di cui non voglio sentir parlare. Così tratto con essi come i professori di filosofia hanno trattato a mio riguardo; non ne voglio sapere, perocchè ciò discrediterebbe la mercanzia che ho in negozio. (Nota dell’Autore).
[50] Taschenspielerstreich, colpo di giuocatore di bussolotti. (Nota dei Trad.).