Con un fastidioso ronzio alle orecchie, Verlaine aprì gli occhi e vide uno spazio indistinto, nebbioso e inconsistente. Il grigio delle pareti si stemperava in quello del soffitto, dandogli l’impressione di essersi risvegliato in una grotta. Sentiva un forte bruciore in tutto il corpo, perfino il cotone morbido delle lenzuola gli irritava la pelle. Non capiva dove si trovasse, come fosse finito su quel materasso così duro, né il motivo di quel dolore pulsante. Poi gli tornò in mente San Pietroburgo, l’angelo dalle ali nere, la scossa elettrica.
Al suo fianco apparve la sagoma di una donna, una presenza sfocata che allo stesso tempo sembrava confortante e minacciosa. Verlaine batté le palpebre, nel tentativo di distinguerne i lineamenti. Per un istante si ritrovò catapultato nel suo sogno ricorrente: il gelo del bacio di Evangeline, l’attrazione magnetica che aveva provato nel toccarla, la forza delle sue ali che si avvolgevano intorno a lui. Era disorientato, non sapeva nemmeno se l’aveva vista davvero e temeva che, una volta risvegliatosi completamente, l’avrebbe persa per sempre. Ma ora i suoi occhi erano aperti e lei era ancora al suo fianco. La bellissima creatura che lui aveva tanto desiderato era tornata da lui.
Cercò di mettere a fuoco la vista. Poi sentì il freddo della montatura metallica dei suoi occhiali che gli venivano posati sulla pelle, e una voce che diceva: «Prova con questi».
Tutto riacquistò immediatamente contorni definiti: la donna era la cacciatrice russa che Verlaine aveva visto un attimo prima di perdere i sensi. Ora che non portava l’elmetto, aveva un aspetto meno pericoloso, sembrava una persona normale, e non una professionista addestrata per essere una macchina di morte. Aveva lunghi capelli biondi e sembrava preoccupata. Accanto a lei c’era Bruno, coi capelli arruffati e con una brutta ferita su un lato della faccia. Anche i suoi vestiti erano imbrattati di sangue e sudiciume. Quindi Verlaine riportò l’attenzione su di sé: ogni inspirazione gli dava una fitta di dolore. Ricordava l’inseguimento per le strade di San Pietroburgo, ricordava Eno e i perfidi gemelli Nefilim. Deglutì a fatica, gli faceva male perfino l’esofago. Fece per dire qualcosa, ma dalla gola non uscì nessun suono.
Bruno si fece avanti e gli posò una mano su una spalla. «Bentornato.»
A quel punto, Verlaine immaginava di trovarsi in una specie di ambulatorio medico, ma non sapeva se si trovasse in Russia o in Francia. «Dove siamo?»
Bruno guardò l’orologio. «A occhio e croce, a metà strada tra Mosca e Jaroslavl.»
Verlaine aggrottò le sopracciglia, confuso.
«Stiamo andando in Siberia», spiegò Bruno. «Siamo in treno.»
«Cosa ti è successo?» Verlaine cercò di levarsi a sedere, ma ebbe un’altra fitta violenta.
«Un tête-à-tête coi Refaim russi.»
«Sarebbe un bel titolo per le tue memorie», disse la donna bionda.
Bruno si accorse di non averla ancora presentata a Verlaine. «Ah, lei è Yana, una cacciatrice che peraltro è sulle tracce di Eno più o meno da quando ho cominciato io. Ha anche provveduto a farci avere questo vagone, per prestarti assistenza medica.»
Yana portava un paio di jeans attillati e un dolcevita rosa di scarsa qualità, uno stile diametralmente opposto alla sua uniforme da caccia, tutta pelle e borchie. Si allontanò dal letto, si appoggiò alla parete e incrociò le braccia con aria irrequieta, forse impaziente di rimettersi al lavoro. «Come ti senti?» chiese. Aveva un pesante accento russo.
«Splendidamente.» Verlaine aveva l’impressione che la sua testa stesse per esplodere da un momento all’altro. «Una meraviglia, guarda.»
«Sei già fortunato se ti senti male.» Yana gli rivolse uno sguardo che sembrava dettato soprattutto da un interesse professionale: forse stava confrontando le lesioni di Verlaine con quelle che aveva visto su altre persone.
Verlaine tentò di nuovo di mettersi a sedere. Stavolta avvertì un forte bruciore al petto, un dolore localizzato. «Si può sapere che diamine è successo?»
«Non ti ricordi?» disse Bruno.
«Sì, ma solo fino a un certo punto. Devo aver perso i sensi.»
«Devi aver perso anche la ragione! Cosa ti è venuto in mente di correre dietro a Eno in quel modo? Ancora un minuto e ti cuoceva alla griglia!» disse Yana.
Verlaine ripensò all’elettricità che gli attraversava il petto ed ebbe un brivido. «Ha tentato di uccidermi.»
«E per poco non ci riusciva», commentò Bruno.
«Buon per te che siamo riusciti a fermarla», aggiunse Yana. «Hai riportato soltanto ustioni localizzate.»
«Tu dici?» Verlaine si sentiva come se il suo intero corpo fosse stato arrostito a fuoco lento su un falò.
«Se fai il confronto coi cadaveri del convento di St. Rose, credo che tu ti possa considerare tra i fortunati», disse Bruno.
L’episodio cui si riferiva aveva colpito profondamente Verlaine: decine di donne morte carbonizzate, cadaveri tanto sfigurati da risultare irriconoscibili... Ecco di che cosa erano capaci quelle creature.
«La corrente elettrica ti ha provocato un attacco cardiaco durato più di tre minuti», proseguì Bruno. «Yana ha provveduto a una rianimazione cardiopolmonare ed è riuscita a tenerti in vita fino al momento in cui i suoi colleghi non hanno fatto arrivare un defibrillatore portatile.»
«Sei letteralmente risorto dalla morte», disse Yana.
«Quindi ho almeno una cosa in comune coi Refaim», scherzò Verlaine.
«Questo, però, non spiega come mai sei sopravvissuto», continuò Yana. «Scusa la brutalità, ma in teoria l’attacco avrebbe dovuto arrostirti come una costoletta.»
«Complimenti per la similitudine.» Verlaine fece un altro tentativo di sollevarsi. Aveva un dolore formicolante alla pelle del torace, ma tentò d’ignorarlo e, un movimento alla volta, riuscì finalmente a mettersi seduto. Ripensò alla forza di Eno, al suo tocco ustionante.
«Chissà che non sia merito di questo?» Bruno estrasse di tasca una collana e gliela mostrò.
Verlaine prese il ciondolo e lo osservò. L’attacco di Eno non lo aveva minimamente alterato: il metallo era ancora brillante, come se fosse stato fuso nella luce solare. In quel momento, forse, Bruno stava facendo due più due ed era probabile che avesse già capito come aveva fatto quel ciondolo a finire nelle mani di Verlaine. Anche lui era un amico intimo di Gabriella e, sebbene non si sarebbe mai messo a discutere di fronte a Yana, sicuramente era contrariato dal fatto che Verlaine gliel’avesse tenuto nascosto per tutti quegli anni.
Verlaine alzò le mani per indossare la collana, ma sussultò dal dolore. Yana, più per impazienza che per compassione, lo aiutò a serrare il fermaglio, poi gli disse: «Ecco, adesso il babau non ti mangia più». Gli diede una leggera pacca sul petto, provocandogli un’intensa fitta.
La porta si aprì ed entrò il medico, una donna bassa e corpulenta, con spessi occhiali e capelli acconciati alla perfezione. Si chinò sul letto e abbassò le lenzuola sino ai fianchi di Verlaine, che soltanto allora vide la pesante benda avvolta intorno al torace. La dottoressa infilò le dita sotto il bordo della fasciatura, la sollevò e la rimosse delicatamente.
Yana prese un piccolo specchio dalla borsetta e lo porse a Verlaine. «Tieni.»
Il riflesso era quello di un uomo parecchio malconcio, c’era una linea di sutura sopra un occhio e la pelle era tumefatta in alcuni punti, irruvidita dalle ustioni in altri. Un’immagine tanto estranea, tanto spaventosa che Verlaine drizzò d’istinto la schiena e spinse all’indietro le spalle. Voleva soltanto riaddormentarsi, non voleva essere quella persona. Abbassò lo specchio al livello del torace e vide la pelle annerita, con chiazze rosse di carne viva che trasudavano un liquido chiaro. Erano l’impronta delle mani di Eno.
«Adesso porti il segno di un attacco Emim», disse Bruno.
Yana esaminò i contorni delle dita impressi sul petto di Verlaine. «La forma dell’ustione è molto particolare. È da tempo che studio queste cose: la creatura deve posizionare le mani in un certo modo, per poter sprigionare la scarica elettrica: i pollici devono toccarsi, in modo che le altre dita puntino verso l’esterno. Vedi?»
Verlaine riconobbe la forma dell’impronta e avvertì un improvviso senso di nausea. «Sembrano due ali.»
Era abituato al dolore fisico, negli ultimi dieci anni era stato ferito così tante volte che nemmeno le contava più, ma un assalto di quel genere non l’avrebbe mai dimenticato. La creatura l’aveva marchiato per sempre.
La dottoressa andò a prendere un vassoio sul quale c’erano una pomata, un paio di forbici, alcuni rotoli di bende e bastoncini cotonati. Verlaine inspirò profondamente, piano, mentre la donna gli ripuliva il petto con la garza.
«Nei punti in cui la carne è nera, le terminazioni nervose sono perdute. Se senti dolore, è a causa delle ustioni meno gravi intorno ai margini della ferita.» La dottoressa fece una pausa, studiando la forma della bruciatura. «Era da un po’ che non ne vedevo», disse, spalmando la pomata prima di applicare un nuovo bendaggio. «Questa medicazione fa miracoli. Ai vecchi tempi, ci sarebbero volute settimane, forse mesi, per riprendersi da una lesione del genere.»
Verlaine sentì una frescura diffondersi sul petto. «Incredibile. Sta già facendo effetto.»
La dottoressa si chinò su di lui. «La pelle guarirà rapidamente da sé. Questa pomata è una nanoemulsione che impedisce ai batteri di attecchire; allo stesso tempo, crea le condizioni adatte per accelerare la riproduzione delle cellule. Sull’ustione si forma subito un nuovo strato di pelle, proteggendola dall’aria e riducendo il dolore. È un farmaco di difficile reperibilità, ne abbiamo una quantità minima, prodotta da angelologi e destinata all’uso interno della Società. È di un’efficacia incredibile.» Come per dimostrare quanto aveva appena spiegato, passò una mano sulla superficie della ferita.
«Efficacia o no, questo angelologo ci serve subito», disse Yana, incapace di celare l’impazienza. «Quanto deve riposare?»
La dottoressa prese il polso di Verlaine. «Il battito è normale. Come ti senti?»
Verlaine mosse le dita dei piedi, poi le caviglie. Il ronzio alle orecchie e il dolore al petto erano spariti. «Alla grande.»
La donna riprese il vassoio e si diresse verso la porta. «Dovrebbe essere in condizioni di scendere dal treno secondo programma. Mancano circa trentacinque ore alla stazione di Tjumen’, consiglierei riposo assoluto fino a quel momento.» Poi, rivolta a Verlaine, disse: «In parole povere, niente giri di valzer col demonio. Anche se dubito che mi darai ascolto. Mai una volta che accettino un consiglio, gli agenti come te».
Verlaine posò i piedi a terra, fece forza sulle gambe e si alzò. Quanto a impazienza, era come Yana: non era minimamente disposto a restarsene in una specie di ospedale di fortuna.
Dopo che la dottoressa se ne fu andata, Bruno disse: «Be’, se non altro c’è una buona notizia. Abbiamo recuperato l’uovo e, soprattutto, siamo riusciti a catturare Eno».
«Dov’è?» chiese Verlaine.
«In un posto sicuro», tagliò corto Yana, fulminandolo con lo sguardo, come per sfidarlo a fare altre domande.
Bruno gli fece l’occhiolino. «Yana ha voluto a tutti i costi che la portassimo in Siberia, in una prigione specializzata.»
«Ah, un gulag per angeli.»
«La teniamo in osservazione», disse Yana. «Sei già fortunato se ti permetto di accompagnarmi.»
«Ma tu credi di essere capace di farti dare informazioni da Eno?» chiese Verlaine.
«È l’unica possibilità. Una volta in Siberia, sarà costretta a parlare.»
«Hai mai assistito a un interrogatorio del genere?»
«Ci sono specialisti che hanno metodi molto particolari per estorcere informazioni ai prigionieri», replicò Yana, in tutta tranquillità.
Verlaine riepilogò mentalmente tutti gli avvenimenti delle ultime ventiquattr’ore, cercando di scuotersi di dosso la sensazione di essere stato catapultato in un universo parallelo, una sorta di bizzarro alternate reality game che era concreto e illusorio allo stesso tempo. Si trovava su un treno che attraversava l’immensa taiga siberiana, alla ricerca di una creatura metà umana e metà angelica che soltanto ora, dopo dieci anni di dubbi, lui sapeva di amare. Dopo tutto quello che aveva visto, credeva che nulla avrebbe più potuto sorprenderlo, ma si era sbagliato: le cose si stavano facendo sempre più bizzarre.