Quando Verlaine aprì gli occhi, si accorse di essere steso su un campo innevato. Non sapeva per quanto tempo avesse dormito. Vedendo la neve chiazzata di sangue, impiegò qualche istante a rendersi conto che era il suo. Aveva una lesione alla gamba e la ferita alla testa si era riaperta. Ricordò di aver camminato carponi uscendo dal panottico, mentre le fiamme si alzavano intorno a lui e i boati delle esplosioni gli rimbombavano nelle orecchie. Si voltò indietro, ma della prigione non era rimasto altro che un pennacchio di fumo che si sollevava in lontananza. L’intero complesso era imploso.
Sentì un ronzio molesto e persistente, come quello di un insetto. Era il motore di un fuoristrada che veniva verso di lui, procedendo in mezzo alla neve. Quando il veicolo fu abbastanza vicino, Verlaine vide che era una Lada Niva. Al volante c’era Dmitrij e accanto a lui Bruno, appoggiato alla portiera, gravemente ferito. Dal sedile posteriore balzò fuori Yana assieme a un uomo che lui non aveva mai visto. I due si avvicinarono, seguiti da Dmitrij, e lo sconosciuto porse la mano a Verlaine, presentandosi come dottor Azov e spiegando che era arrivato dietro richiesta di Vera.
«Cos’è successo?» chiese Verlaine a Dmitrij, scuotendosi di dosso la neve.
«Esattamente quello che sperava Godwin.» Dmitrij aveva il volto striato di nero e i vestiti bruciacchiati.
«È rimasto là dentro?»
«Non c’è modo di verificarlo.»
Verlaine si sentì cadere le braccia. Godwin poteva essere morto nel crollo, oppure poteva essere fuggito. In quel caso, ormai, chissà dov’era? «E la centrale nucleare?»
Dmitrij lanciò un’occhiata alle proprie spalle, verso il fumo che saliva. «È stata progettata per resistere a questo genere d’incidenti, ma non credo che sia il caso di restare qui a verificare. Dobbiamo allontanarci il più possibile, e in fretta.»
«No, non ancora.»
Dmitrij indicò l’estremità opposta del campo. «Se restiamo, ci tocca affrontare quelli là.»
Gli evasi, angeli di ogni specie, stavano sciamando tutt’intorno a loro. Verlaine li scandagliò con lo sguardo, in cerca di Evangeline. Gli sembrava di vederla ovunque, eppure non era da nessuna parte.
D’improvviso la scorse, al margine del panottico, mano nella mano con Lucien. Mentre si avvicinavano, Verlaine si accorse della somiglianza tra padre e figlia, la forma delicata del volto, gli occhi grandi, la luminosità che li circondava. Era palese: Evangeline e Lucien erano fatti della stessa sostanza eterea.
«Lei deve venire con noi», disse Verlaine, ma sempre più disperato.
«Non so se Lucien lo permetterà», rispose Azov, in tono cauto. «Abbiamo viaggiato assieme per migliaia di chilometri, so bene quanto è forte, ma soprattutto so che è una creatura gentile e amorevole, animata da buone intenzioni. Da quello che ho sentito dire di lei, Evangeline non si rivolterebbe mai contro di lui e non permetterebbe che tu gli facessi del male. Se vuoi portarla con te, c’è un solo sistema.» Azov estrasse di tasca una fialetta e gliela mostrò.
Verlaine ripensò alla convinzione con cui Vera aveva detto che Azov poteva aiutarla a comprendere il significato dell’album di Rasputin. Evidentemente, in qualche modo, erano riusciti a produrre il Farmaco di Noè.
Tese una mano per prendere la fialetta, ma Azov si ritrasse e cominciò a camminare verso gli angeli, chiamandoli per nome. Dalla disperazione nel suo tono di voce, Verlaine capì che anche Azov aveva un disperato bisogno di convincerla ad abbandonare Lucien. Sorprendentemente, Azov riuscì ad attirare l’attenzione di Evangeline, che cominciò a camminare verso di lui, nel campo innevato, con Lucien al suo fianco.
«Chi sei? Che cosa vuoi da noi?» chiese Evangeline.
A Lucien bastò un’occhiata alla fialetta per capire all’istante l’intenzione di Azov, qualunque essa fosse. «Non ti avvicinare», gli disse, dischiudendo le ali e avvolgendole intorno a Evangeline, come per proteggerla.
Azov le tese la fialetta. «Questa è per te. Riporterà indietro tutte le creature come te.»
«Indietro?» chiese Evangeline.
«Puoi scegliere», replicò Azov.
Verlaine si avvicinò a lei. «Non dovrai più essere una di loro.»
Evangeline lo fissò. «E allora che cosa sarò?»
«Umana. Una di noi.»
«Non so se ne sarei ancora capace», rispose lei, senza distogliere lo sguardo da Verlaine.
«Potrei insegnartelo io, se vuoi.»
Evangeline si divincolò dalle ali di Lucien e avanzò verso Azov. La neve scricchiolava sotto i suoi piedi. Gli prese di mano la fialetta col Farmaco di Noè e dalla sua espressione – prima costernata, poi incuriosita, infine determinata – Verlaine riusciva quasi a vedere i pensieri che le passavano per la mente. Evangeline sfiorò con un’unghia il tappo della fialetta e la capovolse più volte, facendo passare il liquido da un’estremità all’altra del piccolo recipiente. Poi, in un unico gesto deciso, se l’infilò in tasca. Dopodiché si voltò e tornò di corsa da Lucien.
Verlaine fece per inseguirla, ma Dmitrij e Azov lo trattennero, trascinandolo verso la Lada Niva.
«Muovetevi», gridò Yana, seduta al volante. «Dobbiamo andarcene.»
Dibattendosi per cercare di tornare da Evangeline, Verlaine vide che il fumo nero sprigionato dal reattore si stava addensando. Poi sentì un rumore, una vibrazione simile al frinire di una cicala. La luce del giorno stava scemando, tingendo il cielo di rosa, e il terreno fu scosso da una serie di lampi. Pochi secondi dopo, l’aria si riempì di cenere. Dal fumo eruppe un nugolo di creature in volo, una massa tanto fitta da oscurare il cielo. All’ombra dello sciame di angeli fuggitivi, il reattore prese fuoco.