UNDICI

Dopo aver lasciato Faoud davanti alla porta, Naomi arrivò a casa degli Haldane. Sam la stava aspettando nella veranda con una lampada a olio e del tè alla menta. Con il passare delle ore l’ansia era cresciuta e quando finalmente vide Naomi prese la lampada, spargendo piccoli rettangoli di luce intorno a sé, e le andò incontro per farle luce sui gradini. A Vlychos c’era più vento e il sentiero era completamente buio.

«Cos’è successo?» sussurrò l’americana quando Naomi salì i gradini.

«Niente. Entriamo».

«Ho spiegato ai miei che dormivi qui. Gli dirò che sei arrivata un’ora fa. Tanto dormono».

Andarono nella veranda e si distesero insieme sul divano coi numerosi cuscini di cotone. Il tè era ancora caldo e le foglie di menta galleggiavano in superficie. Naomi raccontò tutto quello che era successo e Sam pensò che era molto compiaciuta di sé stessa. Come poteva essere filato tutto liscio? Naturalmente, osservò Sam, Naomi non sapeva se Faoud aveva fatto quello che lei gli aveva detto.

«No, ma se ci fosse stato qualche problema Jimmie mi avrebbe telefonato, sicuramente. Quindi è andato tutto bene. Per sicurezza aspetterò sveglia un’altra ora».

Rimasero distese fianco a fianco ad ascoltare il suono del mare, chiedendosi in modi diversi se quell’alibi avrebbe retto in una situazione critica. Naomi pensava di sì; Sam aveva i suoi dubbi, ma si sarebbe attenuta alla versione concordata.

«È incredibile pensare...» cominciò.

«Che lui sia in casa» concluse Naomi.

«Non vuoi vederlo, dopo?».

«Come faccio? Dovrebbe venire lui a cercarmi, e non lo farà. Se ha un minimo di cervello, non verrà».

«Forse dovresti tornare a Londra. Qui sarà un tormento, quando si saprà in giro. Ne parleranno tutti per settimane. Se fossi nei tuoi panni, non resisterei».

Naomi si voltò e le sfiorò la guancia con il dorso della mano.

«Devo dirtelo. Sei stata incredibilmente coraggiosa ad aiutarmi in questa storia. Grazie. Hai avuto fegato e generosità nel mantenere il segreto».

«Dici?».

«Sì. Una volta tanto è stato fatto del bene senza far male a nessuno».

Sam permise a quel sofisma di penetrarla e affondare fin dove poteva. Ma alla fine non credette nella solennità della frase di Naomi; al suo interno era una combinazione di falsità. Un furto era sempre un male, un danno per chi lo subiva. Perché Naomi non ci pensava nemmeno? Ne parlava come se fosse una partita a scacchi da giocare e rigiocare senza nessuna conseguenza. Sembrava indifferente alle conseguenze evidenti e alle motivazioni altrettanto evidenti, ma non ammesse.

Quando Naomi si svegliò era ancora buio. Non le aveva telefonato nessuno. Rimase immobile per un po’, ipnotizzata dal tintinnio delle campane a vento, suono volgarmente californiano in quell’habitat greco. Poi dormì ancora. Sognò di sorvolare il deserto e vedere sotto di sé una carovana lunga e disorganizzata. Era notte, ma all’orizzonte c’erano luci come di fuoco d’artiglieria. Alle sette Sam la svegliò e la prima cosa che Naomi vide fu la caffettiera, dolci greci e una ciotola di zollette di zucchero. I familiari di Sam non c’erano ancora.

«Sono andati a prendere il caffè al villaggio» disse semplicemente Sam, e le si distese accanto. «Ho detto che sei stata qui tutta la notte».

«Perfetto».

«Hai dormito bene?».

«Sì, ma credevo di essere da un’altra parte».

«Succede sempre anche a me».

Sam versò il caffè e si divisero una sola tazza bevendo a turno, nel piacere dell’intimità. Il mare era diventato uno specchio solare. Gli ulivi intorno a casa ardevano con il loro eterno luccichio grigio. A quale mondo, pensò, era tornata dal deserto? Sullo stesso mare Faoud era partito un’ora prima e adesso era lontano dagli occhi, svanito per sempre. Le tornò in mente la domanda che le aveva fatto Sam la sera precedente: non voleva rivederlo? Si chiese se le aveva dato una risposta sincera. No. Già lui le mancava, ma forse era la certezza che le loro strade erano segnate e che non si sarebbero incrociate mai più. Ed era meglio che non succedesse, pensò malinconicamente. Poi attaccarono i dolci. Non mangiavano da dodici ore o forse più. Si chiesero se andare a nuotare o a navigare tra le isole. Qualsiasi cosa, pur di allontanarsi dalle famiglie. Alla fine, comunque, abbandonarono l’idea della barca e andarono invece alla vecchia casa di Nikos Ghika sopra Kamini. Era dove l’artista ateniese ospitava Lawrence Durrell e Henry Miller negli anni Quaranta, ma la grande villa era stata distrutta da un incendio qualche anno dopo. Secondo le voci dell’isola, il fuoco era stato appiccato da una domestica rancorosa. Le rovine con le grandi arcate e i pilastri solitari si erano piuttosto degradate dall’ultima volta che ci era stata, a vent’anni. Scavalcarono la recinzione sgangherata e vagarono per le sale vaste. Fredde e indifferenti al mondo esterno, si arrotolarono una canna con i rimasugli di erba e la fumarono nell’ultima ora fresca della giornata. Rientrarono a casa poco dopo mezzogiorno.

Gli Haldane pranzavano presto nella veranda, e Amy le chiamò a tavola a mangiare la moussaka preparata dalla cameriera. Era proprio il piatto che Jimmie aveva suggerito di preparare. Dovevano avere un’espressione stordita e imbarazzata, perché Christopher le guardò furbescamente. Jeffrey si tolse gli occhiali, anche se non era chiaro perché li portava, e scostò la sedia dal tavolo per Naomi.

«Sono dieci minuti che ti suona il telefono» disse, e glielo diede. Naomi lo prese e abbassò gli occhi sulle nove chiamate arrivate dallo stesso numero. Era Carissa.

«Oh...».

«Volevamo rispondere, ma Amy ha detto che era da maleducati. Se è urgente non ti preoccupare di noi... richiama pure».

Naomi si sentì bollire il viso; si alzò con garbo e disse: «Vado laggiù, così non vi disturbo».

Tremando andò sotto il sole che faceva risaltare tutto in maniera fatale e si allontanò una cinquantina di metri da casa per non farsi sentire. Carissa rispose subito. Aveva la voce spezzata e debole; sembrava che le mancasse il fiato. Erano le prime ore del pomeriggio e sicuramente doveva essere in piedi dalle sei, dalle sette. Non poteva essere accaduto niente durante quelle ore, e quando Carissa le disse che le cose non erano andate secondo i piani Naomi fece fatica a crederci. Pur stupefatta, non volle cedere allo shock. Ma non era quel che si aspettava di provare, comunque. Sentì più una specie di vuoto. Tornò dagli Haldane e trovò una scusa.

«Mi dispiace,» disse «ma la nostra cameriera ha avuto un problema e devo tornare subito a casa. Sapete com’è».

«Ti accompagno» disse subito Sam.

«Ma no, non c’è bisogno. Tanto non possiamo fare niente. È probabile che voglia solo dei soldi, e Jimmie è uscito con Phaine».

Fu incredibile la facilità con cui riuscì a essere fredda.

Ma dovette distogliere gli occhi dal panico sul viso di Sam. Sam non cedette. Se anche Naomi si fosse impuntata, avrebbero sollevato sospetti; doveva essere tranquilla e disinvolta. Purtroppo Sam si era già alzata e la sua decisione di seguire l’amica produsse un lampo d’allarme nei suoi genitori, che non ne capirono la necessità.

«C’è qualche problema?» chiese Amy.

«No,» rispose Naomi «davvero, non preoccupatevi. La nostra cameriera fa sempre così. Sam, davvero, non c’è bisogno che tu venga».

«Vengo con te. Tranquilla, mamma. Torno subito».

«Chiamateci quando arrivate» disse Amy.

Se ne andarono, rabbuiate. Naomi spiegò tutto con brevi frasi stanche. Era difficile da credere. Carissa aveva trovato i corpi la mattina e questo era tutto. Era andata male, non sapeva come né perché, e adesso non ci si poteva fare niente.

«Ma allora cos’è successo?» continuò a chiedere Sam, troppo attonita per pensare a qualcosa di diverso da dire.

«Oppure lei sta mentendo» disse Naomi, confusa.

Davanti alla porta della villa si fermarono un momento a riprendere fiato. Naomi si guardò intorno con gli occhi sbarrati e un senso di vuoto disperato, come se avesse perduto i punti di riferimento e la ragione. Dalle nocche cadde qualche goccia di sudore, e apparvero piccole macchie brune intorno ai piedi. Aprì la porta con la sua chiave, girandosi per lanciare a Sam una strana occhiata. Quindi entrarono.

Chiamò piano la cameriera. Fin dall’ingresso si capiva che dentro c’era un’oscurità innaturale e che le tende delle finestre sul terrazzo erano state abbassate completamente. C’era un vago senso di disordine, non ancora visibile allo sguardo. Il salone era vivificato dalle mosche e la cameriera sedeva su una delle poltrone di Jimmie, una poltrona di crine di cavallo del Raj britannico, in silenzio, con il telefono in una mano e gli occhi fissi sull’ingresso e le due ragazze. I corpi erano distesi dov’erano caduti quella notte, composti e in pace, e le mosche vi si affollavano intorno, e intorno ai mobili, che forse non sarebbero stati usati mai più. Ma la cosa più curiosa era che Carissa non era agitata; sembrava solo sorpresa di vedere Sam, come se fosse quella la calamità più grave.