Vicino al lago di Bolsena, mentre il sole tramontava dietro cipressi che gli ricordarono Hafez, Faoud attraversò il paese di Valentano e proseguì lungo il lago, passando piccoli campeggi e chioschi chiusi con la scritta FRAGOLA. Dopo il lago, la strada saliva, ripida, sul bordo di una gola colossale e avvicinandosi a Sorano, un luogo che secondo lui doveva essere abitato solo da vecchi. Alle dieci di sera, quando ci arrivò, la piazza era già vuota e quel sospetto fu confermato. Il paese era un alveare di grotte e case abbandonate abbarbicate su un’imponente cresta di roccia, e quando scese dall’auto qualche minuto per prendere aria e acclimatarsi sentì subito gli uccelli che rappresentavano il grosso della vita notturna di Sorano.
Vicino all’ingresso della città vecchia una terrazza aggettava sulla gola, resa visibile dall’illuminazione dei lampioni della piazza. Sul fondo ribolliva l’acqua e Faoud riuscì a vedere le bocche delle grotte dove un tempo gli etruschi seppellivano i loro morti. Per un attimo, appoggiato al parapetto, non poté non ricordare Aleppo prima della distruzione. La città impeccabile dove aveva studiato, anni prima, alla scuola di musica del francese Julien Weiss, maestro di qanun. La nostalgia fu suscitata proprio dall’abbandono sepolcrale di Sorano la sera tardi. Case scavate nella roccia, migliaia di anni condensati dentro semplici muri, archi, passaggi segreti. Ma le pietre siriane non le avrebbe mai più riviste.
Sovana, al contrario, si estendeva in fondo a una strada che scendeva in un sito archeologico. La strada attraversava un fiume e vicino all’acqua c’era la casa dei Codrington, alla quale non si arrivava da un normale viale d’accesso ma da uno sterrato che si snodava in un frutteto di meli cotogni. Lasciò l’auto all’estremità del frutteto, prese la borsa e chiuse a chiave. Un sentiero portava a un alto cancello di ferro che bisognava aprire. Dall’auto aveva preso varie chiavi e nel buio armeggiò provandole una dopo l’altra finché trovò quella che girava e aprì il cancello. La casa era bassa e molto lunga, come un’enorme stalla, anche se aveva due piani. Davanti c’era un giardino incolto con pezzi di statue e un pozzo. Andò alla porta e dovette vedersela con tre serrature, una per una, poi riuscì ad aprirla ed entrò in un corridoio pavimentato in pietra, con travi e austere pietre a vista. Brancolando alla ricerca dell’interruttore, accese la lampada a sospensione e si accorse di trovarsi in un ex convento ristrutturato, con lunghi corridoi bianchi e porte di celle in fila. Alle pareti erano appese mappe su pergamena incorniciate; dipinti religiosi scuriti dal tempo e strani mestoli di legno, gli strumenti di monache dimenticate.
Chiudendo in silenzio la porta d’entrata, la bloccò con un chiavistello di ferro e portò la borsa in un salone alla destra dell’atrio. Era stato creato nell’ex cappella, con archi sopra i divani di velluto e un tavolo fratino. I Codrington non erano partiti di fretta. Le persiane erano tutte chiuse e bloccate, le poltrone e i tavoli erano coperti da un telo. Nel caldo dell’estate le stanze erano fresche perché l’aria esterna non vi entrava da settimane.
Provò ad andare di sopra con la borsa e scoprì che le ex celle del convento erano diventate camere da letto singole, ciascuna di un diverso colore. Qualcuna era dipinta di rosa, qualcun’altra di verde o di giallo, ma tutte erano ornate da oggetti d’antiquariato e arazzi alle pareti. Scelse la più piccola e vi posò la borsa, poi scese ed esplorò l’enorme cucina dei Codrington, un luogo dove l’insolente ventunesimo secolo s’imponeva con una torma di elettrodomestici tedeschi. Perlustrò il frigorifero e non ci trovò niente. Avevano pulito tutto prima di partire e anche il freezer era vuoto. Un po’ abbattuto, provò nella dispensa e nelle credenze. Lo stesso disastro. Impossibile, pensò. Anche se si assentavano per settimane o persino mesi di fila, i ricchi non vivevano in case vuote. La cucina, però, era stata meticolosamente ripulita e non riuscì a trovare nemmeno una lattina solitaria per rimediare alla catastrofe. L’avevano sgomberata e probabilmente si erano portati tutto in Grecia. Perché l’altra faccia della medaglia dei ricchi era la loro nascosta e repellente parsimonia.
Decise di dormire, invece, e di pensare alla situazione l’indomani mattina. Tornò di sopra, crollò sul letto vestito e si lasciò sopraffare gradualmente dalla spossatezza. Ma non lo portò direttamente a dormire. Nella mente gli turbinavano le immagini di Istanbul. Non ci aveva più pensato da tempo, nemmeno quand’era solo nella baracca di Episkopi, ma adesso rivide la città delle umiliazioni.
Da una città d’adozione ci si aspetta di meno, ma anche così Istanbul era stata dura con lui. Cacciato da una città di moschee dall’artiglieria, aveva trovato la prima consolazione nelle moschee degli ottomani, dove poteva restare da solo. C’era la moschea di Mihrimah vicino alle mura bizantine a nord, che in quel momento veniva ristrutturata ed era coperta dalle impalcature. Fra i capolavori meno noti di Sinan, era stata costruita per una principessa che portava quel nome e la sua meraviglia erano le pareti interamente finestrate. C’era una luce intensa anche al crepuscolo. Era un luogo nel quale pensare alla musica, sognare le sue composizioni; dopo andava a piedi alla chiesa di San Salvatore in Chora, a poche strade di distanza, dove i mosaici cristiani gli trasmettevano la stessa ispirazione. Il primo inverno, poteva passare i giorni di solitudine tra quei due luoghi, con le composizioni che andavano e venivano nella mente anche se non trovava mai il tempo di scriverle. E spesso gli sembrava che nevicasse ogni giorno, anche se non era possibile.
Attraverso conoscenze nel mondo della musica aveva trovato lavoro come insegnante privato per rampolli di famiglie turche e diverse volte la settimana andava con l’autobus a Ulus, Etiler o Bebek, dove entrava in case piene di tappeti lungo le vie silenziose affacciate sul Bosforo. Vi abitavano i suoi allievi, ai quali insegnava a cantare o a suonare il flauto. Nessuno di loro aveva talento e nessuno di loro faceva progressi. Ma siccome non facevano progressi, i genitori arrivavano alla conclusione che era colpa sua e che non era un maestro come si deve. Perciò l’avevano liquidato senza spiegargli il perché. Si era preso una stanza nei pressi di Kadırga Limani a Sultanahmet, in una strada di fornai e venditori di süt salep. I caseggiati vicini, sopra i binari della ferrovia, erano pieni di africani e siriani, e quelle erano le stradine di cui sapeva ancora i nomi a memoria. Hemşehri, Alişan, Ismail Sefa. Erano i luoghi dell’inattività e del dolore. Qui rifletteva che una volta aveva voluto diventare un maestro di qanun: un compositore, un insegnante, o persino un professore che alla fine insegnava musica araba a Parigi. Ma adesso era polvere. Anche certi suoi compagni di studio di Aleppo erano fuggiti a Istanbul; andavano insieme alle serate del maestro Weiss, che aveva insegnato a tutti loro nella città distrutta. Anche Weiss si era spostato a Istanbul per continuare la carriera, e lo si vedeva nelle sere ventose per le strade di Galata in vesti fluenti, un uomo di torreggiante bellezza ed estraniazione sufica. Una volta al mese Weiss suonava per i suoi amici in un appartamento proprio accanto alla torre di Galata, e lì Faoud sedeva in fondo insieme ad altri studenti e ritrovava il mondo che una volta era stato il suo. La magia del gruppo. Quando sto in silenzio cado dentro quel luogo dove tutto è musica. Ma se ne stava sempre solo e senza parlare con nessuno. Gli bastava ascoltare il maestro da una certa distanza ed essere vicino ai fantasmi che lo collegavano a casa. Il tempo passava, però, e remava contro di lui.
Se all’inizio aveva sperato di poter avere abbastanza soldi per pagarsi una stanza decente, con il passare dei mesi vi aveva rinunciato e si era dato a speranze più grandiose ma anche più inattuabili: l’esodo e la fuga, in Europa. In primavera finiva nei caffè di Ortaköy sotto il ponte, dove i siriani più colti dividevano il caffè e confabulavano, tre uomini per tazza. C’era solo un amico turco di suo padre che lo sorvegliava, si dava da fare per assisterlo da lontano, e al tempo stesso lo usava con la massima spietatezza possibile. Si chiamava Mert e lavorava nel commercio del tè, ma aveva anche intrallazzi meno aperti alla luce del sole, ed era sempre rimasto un’incognita per Faoud. Non essendo riuscito a imparare granché il turco, il capo non lo introduceva nelle sue frequentazioni, quindi il suo ostracismo era permanente. Andavano a prendere il tè all’hotel Çirağan Palace Kempinski sul Bosforo e si scambiavano aneddoti sul padre di Faoud, perché i due vecchi si erano conosciuti a Damasco. Insieme avevano fatto i soldi, però Mert non rivelava come. C’era semplicemente un senso di obbligo, da parte sua, verso il figlio dell’amico. Perciò chiacchieravano ed evitavano le verità più difficili, e mentre bevevano il tè Faoud guardava le navi cisterna russe procedere verso i Dardanelli e si chiedeva come poter fuggire sullo stesso mare. Alla fine aveva confidato il suo desiderio, fin troppo comune, a quell’uomo enigmatico e antipatico.
Se avesse trovato i mezzi, sarebbe potuto restare molto di più. Ma non c’era lavoro e i suoi familiari erano andati in fallimento dopo aver perso tutto il loro patrimonio. Adesso non era che un fantasma tra molti altri fantasmi. I siriani che mendicavano per strada davanti alla moschea di Istiqlal erano diventati sgraditi, la guerra aveva cambiato forma e i confini avevano assunto significati diversi. Gli esuli cominciavano a essere radunati e portati in un nuovo centro di detenzione, che lui non aveva mai visto. Perciò un giorno ti svegli e capisci che è scaduto il tempo, che Dio ha smesso di proteggerti e che i vari Mert del mondo non ti possono salvare, come non ti può salvare la musica. Poteva restare, come fantasma. Era solo che non aveva quasi più niente in comune con gli altri siriani e non aveva nessuno con cui parlare oltre agli altri studenti di musica sparsi qua e là, ora senza un tetto come lui. A volte li vedeva nelle moschee e dopo dividevano un tè, ma la conversazione era fine a sé stessa. Molti lo consideravano un giovane ricco viziato che aveva avuto quel che si meritava; lui sentiva che ad accomunarli c’era solo una spiacevole coincidenza di origini.
Del resto cosa diceva Adonis, il loro poeta, sul suo fratello morto?
È stato il dio dell’amore per tutta la mia vita.
Cosa farà l’amore se me ne vado anch’io?
Quando si svegliò decise subito di prepararsi un bagno per rimettersi in ordine. Nel bagno padronale c’erano tutti i loro prodotti per lavarsi, intatti, a differenza dei viveri in cucina, e si crogiolò nella vasca per un’ora lavandosi i capelli, le unghie, la pelle impoverita. Fu una purificazione attesa da lungo tempo. Non erano i bagni di Istanbul, non l’hammam di Sultanahmet, ma era sufficiente. Rinfrescato e rinvigorito, si mise un accappatoio e scese in cucina. Prese il cibo che aveva comprato il giorno prima alla stazione di rifornimento, si preparò il caffè e una colazione leggera di pane e formaggio.
Guardò il frutteto e il giardino con le statue attraverso le fessure delle persiane. Nelle vicinanze c’era una casa, ma sembrava un rudere. Non c’era verso di sapere se i Codrington impiegavano personale tutto l’anno ed era troppo presto per aprire una persiana o avventurarsi in giardino. Avrebbe atteso fino al tardo pomeriggio prima di scoprire se fosse veramente solo.
Mentre aspettava setacciò la casa, stanza per stanza, indugiando tra le loro cose come se le avesse temporaneamente ereditate. Scese nelle cantine, suddivise in vari locali: uno per le bottiglie di vino, uno per le armi, il terzo per libri e riviste. Quello delle armi era un locale molto piccolo e aveva al centro un tavolo. Sopra c’erano pile di scatole di proiettili e cartucce. A una parete un fucile semiautomatico Benelli Montefeltro Silver, un fucile da caccia Benelli Ethos, una bolt-action Tikka, tre pistole semiautomatiche Beretta Storm. A quanto pareva, il vecchio aveva un debole per le armi italiane. Forse le comprava in Italia e aveva il porto d’armi italiano. I fucili non erano bloccati, perciò tirò giù il Montefeltro con il calcio lucido in noce, lo girò e lo soppesò tra le mani. Era una bell’arma, di costruzione robusta e lavorazione raffinata. Anche le pistole erano modelli moderni, leggere e facili da impugnare, praticamente mai utilizzate, a vederle. Le mise tutte sul tavolo tra le scatole, poi caricò il Montefeltro e due pistole. Non c’era motivo di farlo, ma all’improvviso mettere le mani sulle armi diminuì il senso di impotenza e la paura che lo opprimevano da mesi. Era una cosa puramente simbolica, un’ondata di emozioni, ma non irreale. Una vampata di baldanza animalesca e un vago risveglio di sete di vendetta. Non scaricò le armi quando le rimise sul tavolo, ma le lasciò com’erano, come se le volesse pronte. Fu come il momento in cui Jimmie andò verso di lui nell’altra casa, costringendolo ad agire – perché o agisci o ti rispediscono in gabbia nel posto da cui sei arrivato, ad affrontare un destino anonimo del quale tanto non importerà a nessuno.
Uscì su un terrazzo del primo piano e guardò il podere. Nel frutteto non c’era anima viva a lavorare ed era evidente che era rimasto deserto tutto il giorno. Ovviamente i Codrington avevano scelto un posto senza vicini, un posto dove godere di un isolamento rurale. Scese in giardino, attraversò il cancello di ferro e il frutteto per arrivare all’automobile. Si fermò un momento per farsi coraggio. Pensò a come sostituire le targhe dell’auto e si interrogò sul garage di Sorano. Ma sicuramente conoscevano il signor Codrington e la sua opulenta Peugeot. Doveva farlo più avanti, in un paesino dove non passava nessuno. E poi c’era il problema dei soldi. Gli erano rimasti circa centoquaranta euro in contanti, ma aveva già notato che l’Italia, anche quella rurale, era molto più cara della Grecia; gli sarebbero bastati per due o tre giorni al massimo.
Un’ora dopo essere rientrato in casa, qualcuno bussò ripetutamente alla porta. All’inizio furono colpetti delicati, esitanti, una sorta di richiesta dubbiosa. Ma poi ripresero, con qualche impazienza. Scese in cantina, prese il Montefeltro ancora carico e tornò in punta di piedi alla porta con la canna puntata verso la serratura. La voce, una voce femminile, chiedeva: «Signori, siete in casa?». In una camera del primo piano si mise a suonare un telefono.
Continuò per cinque minuti, poi tacque. La donna si allontanò dalla porta e Faoud vide la sua figura tremolare contro le persiane del salone, da dove cercò di guardare all’interno. Dopo un po’ se ne andò e Faoud sentì cigolare il cancello di ferro; perciò aveva la chiave per aprirlo. Doveva essere una domestica, qualcuno che lavorava nel podere in loro assenza o un’amica alla quale avevano dato la chiave. Mise il fucile contro il muro e rifletté sulle implicazioni. Qualcuno doveva averle detto o suggerito che i Codrington erano tornati dalla vacanza in Grecia. E quel qualcuno doveva sapere che non era proprio così. Era un elemento nuovo: aveva un nemico. Ma poi, con più calma, si rese conto di aver tralasciato la spiegazione più ovvia. La donna aveva solo visto la macchina. La macchina aveva tradito la sua presenza e questo semplice fatto gli fece decidere di andarsene.
Stabilì di portarsi via tutte le armi. Le caricò nel bagagliaio e chiuse la casa, lasciando le chiavi in un vaso del giardino. Andò a Sorano in un caldo torrido, sotto un cielo senza nuvole.