VENTUNO

Faoud guidò a fari spenti fino ai piedi della collina, poi li accese. Confuso nel paesaggio ondulato e buio, decise di seguire le indicazioni per l’autostrada, che l’avrebbe portato ad Arezzo più rapidamente. Nel giro di pochi minuti scorse un distributore vicino a un incrocio, con le pompe del self-service che spuntavano desolate nel vento caldo. Si fermò e si guardò intorno, quindi fece il giro delle pompe. Sapeva bene quant’era scarmigliato adesso, come se un brusco declino si fosse impossessato di lui. La camicia aveva perso da un pezzo la tenuta e la barba non era solo quell’ombra che dona. Si sentiva esausto, allentato dentro. Il carburante si pagava con la carta di credito e non c’erano benzinai; prese l’ultima carta e decise di rischiare, visto che la macchinetta non poteva trattenerla. Gli era rimasta benzina per un terzo di serbatoio e non aveva abbastanza contanti per fare il pieno. Introdusse la carta nella fessura, scelse il carburante e attese l’autorizzazione. Rifiutata.

Provò una seconda volta, e una terza. Spazientito, imprecò, afferrò gli scontrini e li lanciò al vento. Volarono via fino al gabinetto e a lui non restò altro che un terzo di serbatoio e un pezzo di plastica inservibile. Rimettendosi la carta in tasca, andò alle finestre e scrutò dentro il locale chiuso. Bussò sul vetro, ma fu inutile. Quest’area illuminata dai lampioni e, come notò in quel momento, sorvegliata da quattro videocamere non era il posto adatto per piantare una scenata. Si calmò, tornò in auto e riprese l’autostrada scorrevole e vuota per Arezzo.

L’autostrada era ben illuminata e nello specchietto retrovisore vide, lontano, lo spettro di un’auto che lo seguiva a fari spenti. All’inizio la ignorò e poi si chiese perché aveva i fari spenti. Rallentò, e anche quella parve rallentare. L’alternativa fu accelerare, perciò andò a ottanta ed entrò a velocità di crociera nella periferia della città.

La cartina non servì per orientarsi ad Arezzo, e appena entrò nel centro storico si perse in un esasperante labirinto di stradine. C’era qualche bar ancora aperto con frotte di ragazzi davanti che dovette oltrepassare lentamente. Sbucò su una strada più ampia che curvava verso la stazione. La superò e prese una statale con rotonde che chiaramente portava fuori città, attraverso una zona periferica e poi in direzione nord verso Bibbiena. Qualche minuto dopo era di nuovo nel buio della campagna, ma guidava molto più veloce e senza preoccuparsi di risparmiare la preziosa benzina.

In un quarto d’ora, superata Bibbiena, non riuscì più a vedere lo spettro nello specchietto. Anziché procedere verso est svoltò a sinistra su una strada molto più piccola lungo l’Arno, un fiume che aveva sentito tanti anni prima a scuola. Si fermò un momento, uscì dall’auto e rimase in ascolto per udire il motore dell’inseguitore nel buio, ma non c’era nulla se non il rumore dei pini mossi dal vento. Vide l’indicazione per un monastero, che immaginò isolato. Si interrogò. Se fosse andato lì, chiunque lo seguiva sarebbe stato sviato; la strada che saliva in montagna era stretta e buia, un sentiero asfaltato che portava al nulla. Ma negli alberi vicini alla strada brillavano le lucciole. Decise di provarla.

La salita era ripida e presto Faoud si trovò in mezzo ai boschi, in un’aria che si rinfrescava rapidamente. Sui tornanti c’era una debole luce che arrivava da sopra gli alberi, come da una luna velata, che gli permise di vedere irti banchi di felci ai bordi della carreggiata e tronchi di vecchi pini. La strada salì fino al monastero, un blocco buio che sorgeva in una radura accanto a quello che doveva essere un fiume gelido.

Parcheggiò dietro il corpo principale e vide che non c’erano luci accese; spense il motore e decise di fermarsi a dormire. Cercò di sentire se arrivavano automobili, lasciando passare qualche minuto prima di convincersi di essere proprio solo. Allora girò dietro il monastero, dove un sentiero correva lungo un vecchio muro e vicino agli orti nell’ampio fossato dietro i dormitori.

In fondo trovò il fiume del quale aveva sentito subito il rumore, un ponte, il bianco scintillio dell’acqua lontana giù in basso. C’era una stradina che risaliva il versante della montagna e poi scompariva. La percorse con una delle pistole in tasca, con passi lenti e attento a non far rumore. Arrivò alla cappelletta di un santo scavata nella montagna e da lì vide dall’alto la strada serpeggiante da cui era salito. Poteva dormire al sicuro. Appena ne fu certo tornò al fiume e si appoggiò contro il muro del ponte per ragionare. Gli erano rimasti un pezzo di pane e delle fette di formaggio; il mattino dopo si sarebbe trovato di fronte il muro molto diverso della fame.

Chissà se i frati facevano l’elemosina o avevano compassione di quelli che bussavano alle loro porte. Forse c’era il rischio che lo segnalassero. Il piano era di dormire in macchina e partire prima dell’alba.

Ma la nottata era calda e senza vento, e il bosco era più fresco e confortevole dell’auto. Si distese sulle felci accanto al fiume e dormì quattro o cinque ore. Sognò suo padre. Era vestito con uno dei suoi completi di Parigi, ma aveva anche la kefiah. Mangiava un’arancia col coltello e stava in piedi sotto i pini, da dove chiedeva al figlio quante notti gli rimanevano da vivere. Una, due – forse nemmeno.

«Guardati» diceva. «Sei meno di un barbone. Non hai fatto nessuna strada. Sei una vergogna e lo sai».

Al risveglio le stelle erano ancora in cielo e brillavano con uno splendore indifferente, ma nel monastero c’erano le luci accese. Quando andò a prendere la macchina i monaci stavano cantando. Uno era uscito per vedere di chi fosse l’auto parcheggiata per la notte e il suo volto era tranquillo, privo di sospetti. «Si è perso?» disse in italiano, ma Faoud, che non capì, lo salutò con la mano e salì a bordo. Erano quasi le sei e il mattino prometteva una giornata d’estate pura e torrida.

Discese lentamente per una strada diversa da quella della sera prima. C’era una banca del Monte dei Paschi, però mancavano ore all’apertura. Vide un bar aperto e aveva qualche moneta per un caffè. Sentì gli sguardi su di lui, la blanda sorpresa suscitata dalla sua strana presenza – con quei bei vestiti sciupati perché indossati troppo –, le occhiate alle mani non lavate. E guidava una Peugeot 506. I soldi bastavano anche per una spremuta, e la bevve con le mani che tremavano e la gola tanto secca da stringersi. Si accorgeva che la situazione stava precipitando e che non poteva sfuggire in nessun modo alla rete che gli si stava chiudendo intorno. Quando si mise sull’unica strada che tagliava Tosi il sole era quasi spuntato e le campagne oltre il paese si mostrarono improvvisamente come un morbido tappeto verde di orti, vigneti e rilievi velati di foschia. La strada scendeva serpeggiando, nel sole; i filari di cipressi ai lati proiettavano ombre lunghe sull’erba. In basso a destra si vedeva una statale lontana, mentre i paesi che attraversava offrivano via via diversi obiettivi – farmacie, negozi, ristorantini – che avrebbero potuto tentarlo e che erano aperti.

Il paese successivo si chiamava Pian di Scò. Per caso c’era un’elegante pasticceria con una vetrina piena di quelle che sembravano torte nuziali. Due donne all’interno. Era un obiettivo come un altro. Parcheggiò dall’altra parte della strada, prese uno dei fucili lucidati dal sedile posteriore e attraversò con calma per entrare nel negozio

Avevano il sole in faccia e socchiusero gli occhi per vedere chi era entrato. Fu molto educato. Chiese in inglese di dargli i soldi, puntò la canna verso la donna alla cassa e attese che la aprisse e vuotasse. Ci vollero pochi secondi; non dissero niente. Erano circa trecento euro, non male. La donna fece scivolare i soldi dall’altra parte del bancone e lui li prese con un «grazie» a bassa voce. Poi restituì una banconota da venti euro e chiese una manciata di biscotti. Glieli misero in un sacchetto con la stessa efficienza silenziosa, lui ringraziò di nuovo e disse alle donne di tenere il resto. Abbassò il fucile, uscì dal negozio e senza eccessiva fretta risalì in auto e ripartì.

La strada scavalcava la cima della collina, i vigneti digradavano sulla destra, insegne di enoteche sulla strada, agriturismi e cantine e mille ulivi che si crogiolavano in un sole delicato. Non erano ancora le nove.

A Castelfranco la strada scendeva, curvava e risaliva. Una strada senz’ombra né alberi torreggianti, al di sopra del mondo e splendente con la promessa del vino, tentazione temuta e disprezzata. Guidò veloce mangiando i biscotti dal sacchetto finché gli passò la fame. Era impossibile non sentirsi meglio, non rallegrarsi un po’.

Alla svolta per una chiesa antica si trovò davanti una fila d’auto in attesa senza un motivo apparente. Aveva pensato a un semaforo rosso, ma quando si fermò e scese dall’auto per controllare vide che non era così. C’era stato un incidente. Due auto si erano scontrate e avevano sbandato da un lato e dall’altro della stradina. Gli occupanti erano illesi e stavano seduti sui due bordi della strada, vestiti eleganti come per un matrimonio. Faoud si avvicinò con calma alla scena e vide i vetri sparsi dappertutto sull’asfalto e due bambine, sedute su sedie pieghevoli coi vestiti di raso, con l’aria incredula e maliziosa. Sembrava che trovassero uno spasso tutta la situazione.

Dalla parte opposta c’era un’altra fila di auto che si allungava sulla collina. Non era ancora arrivata la polizia e quando pensò al suo inevitabile e imminente arrivo si rese conto di essere in trappola.

Tornò all’auto senza fretta, prese le armi avvolte nella coperta, si mise la borsa in spalla e s’incamminò verso Gropina, che sembrava una specie di paese fantasma, adornato però da vasi di fiori. In quel momento una macchina si accodò dietro alla sua Peugeot chiudendo la fila; lui era già sopra la strada quando se ne aggiunsero altre due. Da quella posizione i battibecchi e le impennate di rabbia sembravano gradevoli. In ogni caso, dopo un po’ sentì le sirene avvicinarsi da lontano, ma non era ancora chiaro per chi fosse arrivata la polizia.

Giunse alla pieve di Gropina e continuò a camminare finché non fu di nuovo nei campi. Non c’era nessuno, nessun incontro. Superò un boschetto e l’aria diventò improvvisamente calda, come l’aria di una cava, e dal limitare dell’ombra arrivò un ronzio di api. Il sentiero ridiscese sulla strada dei Setteponti, e Faoud poteva semplicemente continuare a camminare. Ma non sapeva da quale direzione fosse in arrivo la polizia. Così abbandonò il tracciato e si infilò tra i filari delle viti, fino a un bosco più fitto dove le foglie sembravano in preda a un terrore nero. Quando ci arrivò, le sirene dall’altra parte di Gropina erano diventate più forti, e poi tacquero. Corse nel bosco, tirò fuori tutti e due i fucili e se li posò al fianco.

 

 

Quel mattino Rockhold fu svegliato nell’albergo sopra Donnini dove aveva preso una stanza per la notte. Villa Pitiana era stata a suo tempo una dimora nobiliare, ma ora riusciva a malapena a reggere come logoro albergo. Susan lo stava chiamando e la suoneria del telefono lo fece riavere; eppure guardò il soffitto alto e non seppe dov’era. La sera prima aveva perso la Peugeot nei dintorni di Poppi e, infuriato con sé stesso, aveva deciso di fermarsi sperando che il mattino dopo gli offrisse un’altra possibilità. E successe proprio così. Andò ad aprire le persiane. Apparve un paesaggio soleggiato, un mattino fresco incorniciato dal caldo in arrivo. Susan gli raccontò tutto quello che era accaduto, che aveva appreso solo pochi minuti prima.

«Una rapina dove?».

Interruppe un momento la conversazione per ordinare del caffè dal piano di sotto e si sedette al sole vicino alla finestra, dove si scaldava una lucertola.

«Pian di Scò?» proseguì. Aprì la carta sul tavolo e cercò il paese. Avevano chiamato la polizia, che però si stava recando sulla stessa strada per un incidente. Le notizie venivano da un loro contatto nella polizia italiana.

«A che ora è successo?».

Era successo un’ora prima.

«Quindi sono già a Gropina. Magari non è lui».

Ma era sicuro che lo fosse. Lasciò perdere tutto e prese il caffè nella lobby prima che glielo mandassero in camera, poi uscì e imboccò la strada sinuosa affacciata sulla valle.

Non fu semplice arrivare a Gropina e quando fu lì chiamò Susan per farsi aggiornare. Alla fine raggiunse anche lui Pian di Scò. Fuori dalla pasticceria era parcheggiata un’auto della polizia, ma non c’era agitazione. Chiamò il collega italiano a Firenze. La polizia aveva trovato la Peugeot abbandonata, ma l’uomo alla guida era scomparso; inoltre avevano dovuto occuparsi di un incidente d’auto. Sul posto regnava la confusione e Rockhold trovò raccolte intorno alle auto incidentate le stesse persone che aveva visto Faoud. I poliziotti stavano facendo le rilevazioni e quattro agenti camminavano lentamente tra i filari di viti, sulla destra della strada. Rockhold parcheggiò sul bordo dietro le auto imbottigliate e per prima cosa si avvicinò alla Peugeot con la targa inglese che alla fine aveva trovato. C’era un poliziotto; si strinsero la mano. I poliziotti erano stati informati del suo arrivo, ma il loro inglese era limitato. Rockhold guardò dentro la macchina, le portiere erano aperte. Erano prove da non toccare e così si limitò a girare intorno all’auto esaminando gli spruzzi di fango sulla carrozzeria. Gli dissero che entro un paio d’ore sarebbero arrivati gli ispettori. Il sospetto era fuggito a piedi. La rapina era stata denunciata dalle proprietarie della pasticceria ed era insolito, per quella zona, che la polizia reagisse con tanta ammirevole efficienza.

«Fuggito?» disse Rockhold.

«È scappato a piedi. Lo stiamo cercando nelle campagne».

Rockhold si spostò dove c’erano i vetri rotti e si presentò agli agenti che prendevano appunti sul posto. Lo stupì che non dessero la priorità assoluta alla rapina a mano armata della pasticceria avvenuta soltanto pochi chilometri prima. Ma era gente del posto a confronto con altra gente del posto; tutti si conoscevano e c’era in ballo l’assicurazione. Fra i due proprietari la situazione si era scaldata e si gridava. I poliziotti cercavano di calmarli; Rockhold si allontanò verso il paese sopra la strada, dove qualcosa gli diceva che sarebbe andato un uomo in fuga. Lì, però, non avevano inviato nessuno. Una questione di organico e di confusione. Salì alla chiesetta, scura e antica, che dominava su un mare di vigneti, poi percorse le viuzze e arrivò quasi subito alla fine di Gropina.

Ma al margine degli uliveti c’era una vecchia con un secchio e un rastrello, e quando le passò davanti lei gli indicò il bosco. Fu un gesto muto che Rockhold accolse con gratitudine. Più avanti, fra gli alberi scuri echeggiavano i cuculi.

Quando uscì dai vigneti ed entrò nelle prime, umide pozze d’ombra, dal bosco partì un colpo e qualcosa fischiò vicino alla sua spalla sinistra. Quasi senza ricordarsene, vide che stava tenendo la Glock in una mano, puntata verso terra, a cuor leggero. Un istante più tardi si sarebbe abbassato, ma subito ci fu un altro sparo, che questa volta arrivò da qualcosa di più grande e più determinato, e i proiettili del fucile lo colpirono al petto e lo fecero cadere all’indietro tra le vigne in un stupore muto che gli tolse la parola. Rimase disteso sulla schiena, cercando di respirare e guardando il cielo che sorprendentemente sembrava averlo liberato dalla sua stretta. L’uomo nel bosco, vedendolo cadere, si alzò, si appoggiò alla spalla il fucile che aveva appena usato e si voltò per addentrarsi nel fitto. Aveva riconosciuto subito Rockhold come l’uomo della piazza di Sorano.

Arrivò fino agli uliveti che circondavano una grande casa, da cui si vedeva la strada. Pullulava di auto della polizia, e gli uomini avevano cominciato a battere i vigneti con i cani. Naturalmente avevano sentito i due spari e adesso puntavano verso il bosco con il branco alla guida.

Vide un sentiero con cipressi alti e dietro ancora boschi. A destra la polizia saliva per un vigneto ripido e i cani abbaiavano furiosamente. Ci furono urla e richiami: avevano trovato il corpo di Rockhold. Faoud prese il sentiero, si buttò di nuovo nel bosco e si mise a correre furtivamente tra gli ulivi. Alla fine abbandonò la borsa; tenne solo un fucile e una pistola. Scorse un’altra casa, con una piscina che scintillava sotto il sole. C’era una donna distesa accanto e in un attimo lo vide. Aveva alzato la testa, aveva aperto la bocca ed emesso un breve grido. Faoud balzò sul pendio di sopra, vagamente consapevole dei cani che lo inseguivano tra gli alberi. Gli fecero tornare la paura. Uno apparve proprio dietro di lui; Faoud si voltò e sparò col fucile, lo mancò e riprese a correre. Ma il branco lo raggiunse al margine di un altro boschetto; li affrontò con la pistola e sparò tre colpi che dispersero i cani e gli diedero il tempo di rifugiarsi dietro un albero per caricare il fucile. A mezzogiorno la polizia teneva sotto controllo l’area, l’aveva circondata e aveva cominciato a parlargli con il megafono. Ma Faoud aveva già deciso di non scherzare con il proprio onore.

Attesero che calasse il buio per stringerglisi intorno. Durante il pomeriggio nei campi regnò la pace; stormi di uccelli imperversarono sulle viti e sulle foglie degli olivi dal dorso argenteo e Faoud rimase disteso su un fianco ripensando alla tomba di Ibn Taymiyya, che aveva visitato da bambino in un parcheggio a Damasco. Il suo sì che era coraggio, a pensarci bene. Il teologo che uscì da Damasco nel 1301 per affrontare l’invasore mongolo Ghazan Khan e accusarlo di essere un cattivo musulmano perché aveva voluto fare guerra ad altri musulmani. Affrontare un conquistatore con le parole e le rimostranze. Chi è convinto di quel che dice può affrontare tutto un impero. La morte non era nemmeno lontanamente la cosa peggiore che poteva colpirti. Essere schiavo era peggio ed essere un eretico più terribile ancora. E ricordando questo puntò il fucile con calma determinazione, mentre le figure blu si avvicinavano cautamente fra i vitigni. Si chiese quanto tempo ci avrebbero impiegato a ucciderlo, quei molli tutori della legge europea che probabilmente non avevano mai sparato una volta in vita loro. Forse sarebbe andata avanti fino a notte fonda, e tutto a suo vantaggio. In sostanza, tenevano alla loro vita: era uno svantaggio tremendo, forse fatale.