Premessa

Dopo le dimissioni del governo Berlusconi, agli inizi del 1995, era possibile sperare nell’inizio di una fase «creativa». Le crisi e gli scandali degli anni precedenti avevano avuto il merito di rendere visibili tutti i mali della Repubblica: la degenerazione della partitocrazia, l’invecchiamento della Costituzione, gli appalti lottizzati, i finanziamenti illeciti, la corruzione diffusa, le infiltrazioni mafiose nella società non soltanto meridionale, la nascita di un potere nuovo (la magistratura inquirente) a cui non era possibile delegare permanentemente la supervisione della politica nazionale. Il fallimento del primo esperimento Berlusconi dimostrava che l’adozione di una nuova legge elettorale non bastava a cambiare l’Italia e segnalava implicitamente l’esigenza di modifiche più radicali. In altre circostanze e in un altro Paese i migliori rappresentanti della classe politica si sarebbero accordati per decidere insieme quali lezioni trarre dalla lunga turbolenza degli anni precedenti.

È accaduto esattamente il contrario. Vi erano uomini nuovi o semi-nuovi pronti ad affacciarsi sulla scena politica per sostituire quelli che erano stati maggiormente colpiti dal disfacimento della Prima Repubblica. Ma in tutti, persino nei migliori, prevalsero calcoli di breve respiro e di pronto vantaggio: lo scioglimento delle Camere, nuove elezioni, un cambiamento di governo a palazzo Chigi, la speranza di eliminare l’avversario con un voto o con un atto giudiziario. Forse la vicenda più significativa di questo periodo è il fallimento della terza Commissione bicamerale, l’organismo che avrebbe dovuto riformare la Costituzione e che sembrò per qualche tempo vicino all’obiettivo che si era prefisso.

Non è sorprendente, quindi, che questo ultimo volume della storia d’Italia, scritto a caldo in una delle fasi più inconcludenti della vita del Paese, non possa dare al lettore il sentimento di un percorso lineare indirizzato verso traguardi risolutivi. Montanelli e Cervi devono a limitarsi a disegnare i ritratti dei protagonisti, a raccontare rigurgiti di storia passato come il processo Priebke, a segnalare l’ingresso in politica di un uomo che era stato protagonista di Mani pulite (Antonio Di Pietro), a descrivere altri scandali, la risicata vittoria dell’Ulivo nelle elezioni del 1996, i sussulti del governo Prodi sin dai primi mesi della sua esistenza.

Se l’opera si fosse protratta sino alla fine del secolo, Montanelli e Cervi avrebbero potuto dire ai loro elettori che questa Italia, così male governata e così incapace di riformarsi, poteva ancora, con un soprassalto di volontà e di buon senso, adottare la muova moneta europea ed entrare nel club dell’euro. Ma il principale autore non resistette alla tentazione di spiegare in un poscritto che il suo congedo dall’opera era anche un congedo dal Paese di cui aveva raccontato la storia. Il suo giudizio sull’Italia, nelle ultime pagine del libro, è tra i più amari e severi mai pronunciati su questo Paese nel corso della sua lunga vita. Non credo che lo abbia modificato nei quattro anni che lo separavano dalla morte. Il curatore di questo libro continua a sperare che i fatti gli daranno torto e sa che Montanelli sarebbe il primo a esserne felice.

Sergio Romano