CAPITOLO PRIMO

LA METAMORFOSI DEI TECNICI

Nell’autunno del 1995 – ossia al punto in cui ci siamo congedati dai lettori ne L’Italia di Berlusconi – il governo di Lamberto Dini era impegnato a completare i quattro punti programmatici dallo stesso Dini indicati nel discorso d’investitura di meno d’un anno prima. Con il compimento di questa missione sarebbe finita – almeno stando a ripetute e solenni dichiarazioni – la ragion d’essere dell’esecutivo «tecnico» e la politica avrebbe ripreso il sopravvento. I punti programmatici erano: 1) l’approvazione della legge elettorale regionale; 2) una par condicio aggiornata, ossia una serie di norme che alle formazioni politiche garantisse appunto parità di condizioni nelle prove elettorali; 3) il varo della manovra finanziaria; 4) la riforma pensionistica. Il modo in cui Dini riusciva ad onorare le sue promesse era tutt’altro che entusiasmante, benché in complesso i mercati finanziari se ne mostrassero soddisfatti: ma era anche, con tutta probabilità, il meglio che si potesse fare in una situazione così anomala. La riforma pensionistica era stata assai più blanda di quanto gli esperti italiani e stranieri ritenessero necessario (e questo in flagrante contraddizione con le tesi sostenute da Dini come Ministro del Tesoro di Berlusconi); la finanziaria procedeva tra manovre e manovrine, rattoppi e ripensamenti. Ma non esisteva altra via che il governo potesse percorrere. Non esisteva per vezzi e vizi parlamentari consolidati: e non esisteva per l’esigenza che Dini aveva – se voleva raggiungere il traguardo – di tenersi buone le forze di sinistra che lo sostenevano, e dunque di tenersi buoni i sindacati; e per di più di tenersi buona la Lega. La maggioranza non aveva i numeri per essere tale senza l’apporto di Bossi: che appariva sì molto ammansito in confronto alla litigiosità di quand’era socio del Cavaliere, ma rimaneva pur sempre, per chiunque lo imbarcasse, un ammutinato tendenziale.

Il governo tecnico aveva bisogno d’una maggioranza, e questo ne faceva, al di là delle apparenze, delle assicurazioni, e magari delle intenzioni e delle azioni di alcuni suoi Ministri, un governo già nella sostanza politico. Tecnici erano gli uomini – quelli che lo erano davvero – politica era la maggioranza. Per convalidare la neutralità rigorosa sua e del governo, Dini aveva rifiutato il paragone con Andreotti, di cui era stato gratificato da qualche commentatore. Nel raffronto non c’era nulla di volutamente negativo, anche se l’atmosfera da cui Andreotti era circondato e le disavventure giudiziarie in cui era incappato potevano far sospettare il contrario. Dini era considerato un discepolo del divo Giulio per le sue doti d’equilibrista e per la disinvoltura con cui metteva la sordina a questioni incandescenti e aggirava con agilità ostacoli in apparenza insormontabili. Facendo professione d’umiltà Dini s’era però sottratto a un parallelismo per più d’un motivo imbarazzante. «Non sono» aveva dichiarato «il nuovo Andreotti. Come si può paragonare un tecnico, un traghettatore, una persona con un orizzonte limitato d’attività di governo a un grande uomo di Stato che ha servito l’Italia per quarant’anni? Non lavoro alla costruzione d’un ipotetico grande centro politico. Non ho programmi, non ho ambizioni, non ho trame.»

Le affermazioni che abbiamo citato, e che risalgono ai primi d’ottobre del 1995, erano categoriche ma non convincenti. Il politologo (ormai usa dire così) Angelo Panebianco riassunse i dubbi di tanti, in un articolo sul «Corriere della Sera», scrivendo che il governo Dini aveva una maschera di governo dei tecnici super partes e un volto di governo politico di centrosinistra, sostenuto e garantito dal Quirinale. L’accusa, mossa dalle pagine del più diffuso e più autorevole quotidiano italiano, era così diretta e precisa da non poter restare senza risposta. È vero che alcuni giornalisti erano, per Dini, «cacadubbi». Ma i dubbi di Panebianco non potevano essere liquidati con troppa sbrigatività. Replicò infatti, con una lettera al direttore del «Corriere» paolo Mieli, il sottosegretario alla presidenza del Consiglio Guglielmo Negri. Docente universitario e grand commis dello Stato, Negri avvolse la polemica in un linguaggio morbido, mantenendo tuttavia ferma la divergenza di fondo. «Il governo Dini» sostenne «è nato non soltanto per impulso del Presidente della Repubblica, ma per un tacito accordo destra-sinistra, per creare e gestire una tregua tra le forze politiche dopo la ridislocazione dei gruppi parlamentari della Lega Nord.» Quel «ridislocazione», in luogo del comune e ruvido «ribaltone», è un capolavoro di raffinato «burocratese». E tuttavia Negri non aveva torto quando rammentava che il nome di Dini per Palazzo Chigi era stato fatto proprio da Berlusconi. Insistendo nella sua difesa dell’equidistanza governativa il professor Negri aggiungeva: «vi sono due schieramenti attraversati da forti tensioni perché ancora disomogenei al loro interno. Nonostante la loro autoqualificazione a destra e a sinistra, vi sono nelle tematiche di governo continue convergenze al centro, ove finora ha operato un esecutivo preoccupato esclusivamente di tutelare gli interessi generali e ottenere risultati di convergenza parlamentare su cose concrete e non su fumisterie ideologiche o fughe in avanti».

Non c’è motivo di dubitare della buona fede di Guglielmo Negri che forse, seguendo troppo da vicino la quotidianità della macchina governativa e lasciandosi fuorviare dalle disomogeneità e dalle autoqualificazioni, non vedeva in prospettiva ciò che a molti appariva di lampante evidenza: vale a dire che Lamberto Dini, e sopra a lui Oscar Luigi Scalfaro, e attorno a lui qualche suo Ministro, avevano un definito disegno politico, premessa a scelte squisitamente politiche. Nulla di disdicevole in questo, e nulla di strano nel fatto che smentisse alcune enunciazioni ufficiali. La vita pubblica include, e sarebbe ipocrita scandalizzarsene, reticenze e bugie strumentali. Ma solo tenendone conto risultano chiari alcuni successivi sviluppi degli avvenimenti. Risulta soprattutto chiaro che con le dimissioni del suo governo – avvenute, nel più ineccepibile rispetto degli impegni, alla fine del 1995 – Dini non intendeva affatto suggellare la sua zigzagante avventura politica. È ormai un luogo comune la battuta di Andreotti – non per niente Dini ne è ammiratore – secondo cui il potere logora chi non ce l’ha. Possiamo completarla, la battuta, aggiungendo che il potere stanca e annoia solo chi non l’ha mai sperimentato e ne parla per sentito dire. Il banchiere prestato alla politica aveva assaggiato il frutto offertogli proprio da Berlusconi, e l’aveva trovato di suo gusto.

La politicità sostanziale del governo emerse anche nel caso di Filippo Mancuso, autorevole ex magistrato un tempo amico di Scalfaro che Dini aveva incluso nel suo governo come Guardasigilli, e che nel governo era diventato, per i suoi atteggiamenti puntigliosi, una mina vagante. Mancuso era un tignoso formalista, cui non potevano andare a genio le esuberanze del pool di Mani pulite e d’altre procure: per di più era un conservatore tutto d’un pezzo, e l’abbozzata deriva a sinistra di Dini l’irritava. Mancuso fiondò a Milano gli ispettori ministeriali, perché riferissero se nel pool avvenissero irregolarità: era una mossa maldestra e inutile. Ogni eventuale rilievo a carico di Borrelli e dei suoi sostituti sarebbe approdato al Consiglio superiore della magistratura, dove l’avrebbero infallibilmente bocciato: e la Procura di Milano ne sarebbe uscita non solo assolta, ma aureolata di martirio. Della «sfiducia individuale» – ossia un voto negativo del parlamento riguardante un singolo Ministro, nell’occasione non difeso dai suoi colleghi – che estromise Mancuso dal governo ci siamo già occupati ne L’Italia di Berlusconi. Qui vogliamo solo tornare su un aspetto della vicenda.

Tra le tante accuse e invettive che in scomposti discorsi pubblici e interviste Mancuso scagliò contro Dini «errabondo e penoso» ve ne fu una che apparteneva al rancoroso folklore siciliano del Ministro – o ex Ministro – ma meritava una qualche riflessione. Mancuso sosteneva in sostanza d’avere sollevato, durante un Consiglio dei Ministri, il problema – giudiziario oltre che politico – di Bossi e dei suoi appelli alla secessione. Il senatur s’è infatti prodotto, dopo la nascita del governo Prodi, in proclami distruttivi per l’unità nazionale: ma non è che in precedenza se ne fosse guardato. Mancuso diceva dunque d’aver sollecitato Dini e i Ministri ad occuparsi della questione Bossi, e d’essersi sentito rispondere che era meglio non dibatterla e che comunque il tema doveva essere «secretato»: nel senso che non dovesse essercene traccia nei comunicati e nei documenti consegnati al parlamento o ai mezzi d’informazione. Perché tanta cautela? La risposta era, sia per Mancuso sia per il centrodestra, d’una chiarezza lampante. La maggioranza parlamentare che aveva consentito al governo Dini di reggersi includeva la Lega: che avrebbe potuto disertare se proprio il governo cui andavano i suoi voti l’avesse indicata come eversiva, esponendola a travagli penali. Ossia, in conclusione, Lamberto Dini sacrificava l’interesse del paese e il rispetto della legge alla ragion politica.

Poiché Mancuso martellava senza requie su questo argomento, il governo diramò, il 14 dicembre 1995, un comunicato che intendeva troncare le illazioni «su presunti misteri contenuti nei verbali governativi». «Nel corso della riunione del Consiglio dei Ministri del 4 agosto 1995» era scritto nel comunicato «il Ministro Guardasigilli fece riferimento al discorso tenuto dall’onorevole Umberto Bossi a Mantova il 24 luglio precedente nel quale erano esplicitati programmi e proponimenti di azione, a detta del Ministro, scissionistica... In relazione a tale discorso il Ministro espresse l’avviso che il governo non potesse, né politicamente né giuridicamente, disinteressarsene... E propose al Consiglio di denunciare collegialmente l’onorevole Bossi per il reato di attentato contro l’integrità e l’indipendenza dello Stato (art. 241 del codice penale)... Il Presidente del Consiglio ritenne necessario un approfondimento e propose, con il consenso di tutti i presenti, che venissero acquisiti ulteriori elementi per poterne discutere nella successiva riunione del Consiglio dei Ministri. Per evidenti ragioni di opportunità, il presidente chiese ai Ministri di attenersi alla massima riservatezza e dispose, con il consenso del Consiglio, che il verbale venisse custodito quale atto riservato.»

Abbiamo riportato solo i passaggi essenziali del lungo documento che avendo l’aria di smentire le asserzioni di Mancuso, finiva invece in buona sostanza per avallarle. Il punto sta nell’interpretazione da dare alle «evidenti ragioni di opportunità» che avrebbero suggerito la «secretazione». Se anziché «ragioni di opportunità» fosse stato scritto «ragioni politiche» tutto sarebbe diventato più chiaro. In un Paese dove le indiscrezioni e le intercettazioni mettono in piazza anche faccende di letto strettamente private, cosa avevano di tanto delicato e scottante le informazioni sull’intervento di Mancuso – successivo a un discorso di Bossi che più pubblico non avrebbe potuto essere – da dover rimanere nello stretto ambito dei Ministri? in fin dei conti lo stesso Scalfaro aveva stigmatizzato le intemperanze del senatur, a causa delle quali s’era mossa qualche procura. In realtà l’argomento era delicato – e comportava il rischio di deflagrazioni nella maggioranza – perché poneva in piena luce la faccia inquietante della Lega: che però di faccia ne aveva anche un’altra, quella dell’alleata indispensabile alla durata del governo. Finché lo sdegno era espresso da Scalfaro, Bossi poteva fingere di non sentire o ribattere alla sua maniera brutale. Ma una deplorazione ufficiale del governo avrebbe costretto il leader leghista a dissociarsi dal governo stesso, e sarebbe stato uno sconquasso. I tecnici erano bravi anche nelle tecniche di sopravvivenza: tranne il kamikaze Mancuso.

Gli ultimi mesi del 1995 furono dal governo dedicati soprattutto alla messa a punto e all’approvazione della legge finanziaria: e dal Palazzo dedicati soprattutto a una serie d’interrogativi cui venivano date risposte contrastanti. La finanziaria non si discostò, nelle sue linee generali, dalle finanziarie che l’avevano immediatamente preceduta e da quella che le sarebbe seguita. Erano stati promessi vigorosi tagli alla spesa e impercettibili aumenti della pressione fiscale: ma la ribellione delle corporazioni che i tagli avrebbero danneggiato e l’esigenza di avere, per i conti dello Stato, l’assenso della sinistra e dunque dei sindacati, ebbero l’effetto consueto. I tagli furono blandi e l’aggravio delle tasse notevole. Con rassegnata franchezza il presidente della Confindustria, Luigi Abete, osservò: «i provvedimenti, nella loro prevedibile ritualità, confermano come la struttura dei conti pubblici sia ormai ingessata e quindi immodificabile». Il fatiscente fortilizio dell’amministrazione statale dava prova di sorprendente robustezza quando si tentava di porre rimedio alle sue storture. Su cinquantamila titolari di pensioni d’invalidità che si sospettava fossero invalidi finti solo uno era stato denunciato. Molti mesi più tardi il PM Piercamillo Davigo del pool di Milano sottolineerà con indignazione che di ottantaquattro funzionari statali condannati per corruzione – con sentenza passata in giudicato – solo uno era stato rimosso dai suoi incarichi. Gli altri erano rimasti sulle loro poltrone. Dini non aveva dunque grandi colpe per le timidezze della sua finanziaria. Quando Berlusconi (e Dini come Ministro del Tesoro) avevano ventilato una riforma radicale del sistema pensionistico – che è il più generoso del mondo occidentale, e non può più reggere – gli si erano messi contro milioni di dimostranti in piazza. Dini Presidente del Consiglio ha evitato questo tipo di scontro, ma è stato costretto allo sconto: ossia a moderare il suo slancio per il risanamento dei conti pubblici. Per fortuna c’è l’Unione europea, ci sono i traguardi di Maastricht – a Dini riconfermati, dai partner della Comunità, in un vertice a Valencia – e quindi una evoluzione «virtuosa» della strategia governativa era e rimane obbligatoria. La virtuosità italiana è a rimorchio di quella europea – il rilievo vale per Berlusconi come per Dini come per Prodi – le nostre spensieratezze sono invece strettamente nazionali.

La finanziaria giungeva così in porto, e intanto gli interrogativi politici cui abbiamo fatto cenno s’affollavano. Era scontato che Dini rassegnasse le dimissioni, a fine anno. Ma sarebbero state dimissioni sul serio, o dimissioni presto corrette da un reincarico a scadenza più o meno lunga? E ancora: quale data sarebbe stata scelta per le elezioni politiche: febbraio, come chiedeva imperioso Gianfranco Fini – sulla cui scia a volte si metteva e a volte no lo svogliato Berlusconi – o a maggio, come più d’uno proponeva nell’Ulivo, o dopo il semestre di presidenza europea dell’Italia (1˚ gennaio – 30 giugno), il che significava in pratica l’autunno, o più avanti, magari al termine fisiologico della legislatura (primavera del 1999)? Guai se uno s’incaponisce a seguire, per capirci qualcosa, ciò che nelle sale della politica, o negli scantinati ove avvengono alcuni conciliaboli, veniva detto. Le direttrici indicate da personaggi di primo piano somigliavano alla strada che porta al passo dello stelvio, tutta curve e tornanti. A voler semplificare – ferme restando le diversità dei due grandi schieramenti contrapposti – si può dire che i fautori delle elezioni al più presto erano nel Polo Gianfranco Fini e nell’Ulivo Romano Prodi (con Veltroni al suo fianco). Disponibili al rinvio, invece, Silvio Berlusconi e Massimo D’Alema (oltre che Lamberto Dini, interessato in prima persona, e capace di commuoversi fino alle lagrime, di fronte a Enzo Biagi, in un amarcord della sua esperienza a Palazzo Chigi).

Silvio Berlusconi era, tra i protagonisti, il più travagliato. I fulgori della vittoria elettorale d’appena un anno e mezzo prima erano stati abbuiati dalla pesante diffidenza di Scalfaro, dal «ribaltone» di Bossi, dagli allarmi di piccole ma inequivocabili consultazioni amministrative, da un mitragliamento implacabile d’«avvisi di garanzia». I mezzi d’informazione – in particolare la grande stampa – lo avversavano, e comunque bastavano le informazioni o le indiscrezioni trapelanti dai «palazzacci» per garantirgli uno stillicidio quotidiano di titoloni negativi. Forza italia, che era un movimento «personale», e come partito rimaneva allo stato gassoso, non aveva né strutture né radici capaci di resistere, nelle condizioni in cui erano, a un lungo calvario d’opposizione. Il cavaliere stesso era, per temperamento, un attaccante, non un difensore. Di fronte alla nuova situazione aveva infatti accennato alla possibilità di fare «un passo indietro», rinunciando a candidarsi per la Presidenza del Consiglio. Avrebbe visto con favore a Palazzo Chigi l’eterno candidato a tutto, ossia l’ex Capo dello Stato Francesco Cossiga. Fini, convinto che nel Polo di centrodestra gli equilibri si modificassero in favore di Alleanza nazionale, alitava sul collo di Berlusconi invocando senza tregua il giudizio di Dio o del popolo, ossia il ritorno alle urne. Aggiungete a questo i patemi del Cavaliere per le sorti dell’azienda che rimaneva la sua azienda – quali che fossero i mutamenti societari – e avrete il ritratto d’un uomo in ambasce, afflitto – e per lui era un inedito – da mille incertezze. Chi è in quello stato d’animo accetta l’idea d’un rinvio – che è anche un compromesso – come un dono del cielo. I motivi per preferire l’indugio alle elezioni a tambur battente esistevano, ed erano validi. L’Italia aveva bisogno di riforme istituzionali, la legge elettorale semimaggioritaria – il cosiddetto mattarellum – aveva dato cattiva prova, i due maggiori schieramenti potevano accettare una tregua durante la quale fossero elaborate nuove e migliori regole per la vita pubblica.

Massimo D’Alema non aveva gli assilli di Berlusconi. Era in grado di giuocare tranquillamente le sue carte su due tavoli diversi. Ma preferiva un tempo d’attesa. La prospettiva del semestre di presidenza europea sconsigliava, secondo molti, elezioni italiane in quel periodo. In effetti un Paese che ospita i conclavi comunitari, ma che a capotavola pone cammin facendo due facce diverse, può creare qualche disorientamento nei convocati. Una situazione siffatta s’era tuttavia già verificata in altri Paesi, senza particolari inconvenienti. Non era questa la vera preoccupazione di D’Alema: era piuttosto l’eterogeneità dell’Ulivo (con i «popolari» che risfoderavano De Mita, non proprio un debuttante ingenuo sulla scena politica); era la fragile autorità d’un generale senza truppa come Romano Prodi; era la lontananza dell’Ulivo dal progetto di grande partito laburista (tutta la sinistra in un unico contenitore) che D’Alema perseguiva: era la critica assillante di Rifondazione comunista; era infine la consapevolezza che un governo dell’Ulivo, se l’Ulivo avesse vinto, avrebbe dovuto chiedere agli italiani lagrime e sangue, inducendoli forse a rimpiangere i governi precedenti. D’Alema era perciò disposto a sostenere un governo delle regole, con maggioranza molto ampia.

L’idea che piaceva a Berlusconi e a D’Alema era per altri uno spauracchio. Lo era per Fini, che temeva d’essere degradato dal ruolo di alleato indispensabile di Forza Italia al ruolo di comprimario, appendice minore d’un patto a due Berlusconi-D’Alema. Ogni intreccio tra i due poli declassava Alleanza nazionale. L’incubo, per findus Fini, era il cosiddetto inciucio, ossia un accordo pasticciato tra polo e ulivo. Qualcuno accredita ad Alessandra Mussolini il merito – discutibile – d’avere introdotto nel linguaggio politico il termine dialettale inciucio. Ma il suo lancio, e il suo impetuoso dilagare in cronache, articoli e dibattiti fu opera di Massimo D’Alema. Questi parlava continuamente d’inciucio per deplorarlo, per negare cioè che i suoi propositi d’intesa con il Cavaliere avessero un carattere deteriore, e alludessero a «giravolte tattiche, complotti, trame segrete». Ma quanto più D’Alema e Berlusconi smentivano, tanto più Fini temeva. Il leader di AN agiva inoltre in forza d’una convinzione che divenne la sua debolezza: la convinzione cioè che il suo partito, erede del solido MSI da decenni fortemente radicato nel territorio, potesse in una prova elettorale avere una impetuosa crescita e magari attuare il sorpasso in danno di Forza italia. Il comportamento di Fini fu condizionato da questo errore di calcolo e si rivelò perdente.

All’estremo opposto le tesi di Bertinotti collimavano, almeno per quanto concerneva le elezioni, con le tesi di Fini. Il comunista non pentito faceva affidamento – e a lui i fatti diedero ragione – sui progressi di Rifondazione, e temeva che una legge elettorale più spiccatamente maggioritaria potesse pregiudicarne l’ascesa.

Ma tra i nemici del rinvio l’arcinemico era Romano Prodi. Nell’ottica del professore ciò che Berlusconi e D’Alema prefiguravano era la sua eliminazione dalla scena politica. «Larghe intese per due anni, accordo tra i partiti sulla nuova Costituzione, rigorosa manovra finanziaria, giustizia, politica europea»: così il cavaliere aveva sintetizzato i compiti del governissimo. Alla cui guida potevano aspirare in tanti, ma non Prodi che sarebbe rimasto in panchina, nello stato d’animo di quei giuocatori che il mister non manda mai in campo. Per crearsi un’immagine e acquisire popolarità Prodi aveva compiuto uno sforzo immane, si era assoggettato a stremanti gite in bicicletta, aveva percorso la penisola con un pullman attrezzato per le esigenze propagandistiche. Non si può negare che, sia pure nel suo stile alla Balanzone, avesse ottenuto buoni risultati. Ma alle sue spalle non c’era un partito di straordinaria tenuta e capacità di recupero come il PDS e nemmeno un movimento piuttosto informe ma collaudato vittoriosamente come Forza italia. L’Ulivo era un contenitore, più che un vero schieramento, i popolari in cui Prodi ideologicamente si riconosceva erano un partito minore cui la discendenza diretta dalla Dc di sinistra non dava un gran titolo di nobiltà. Nell’èra d’un governissimo il personaggio Prodi avrebbe portato sulla scena politica, come certi simpatici caratteristi, un tocco di bonomia emiliana, ma poco d’altro. Per di più, come moderato disponibile per un’esperienza interlocutoria, Dini era più sperimentato di Prodi, tecnico quanto Prodi, meno boiardo di Prodi. Inoltre il suo accento era yankee, non bolognese. L’Ulivo di Prodi era in grado di affrontare la prova delle urne, e di superarla vittoriosamente, se alle urne si andava presto: un’armata composita si decompone, se resta troppo a lungo nei bivacchi.

Alle vicende politiche s’accompagnavano in un intreccio spesso indistinguibile le vicende giudiziarie, che ci perseguiteranno durante tutto il tragitto temporale di questo libro: vicende nelle quali spiccavano i nomi di Silvio Berlusconi (leggi anche Paolo Berlusconi e Fininvest poi Mediaset) e di Antonio Di Pietro (leggi anche pool di Mani pulite). Di Pietro era contemporaneamente indagato e parte lesa nell’inchiesta condotta a Brescia dai PM salamone e Bonfigli: che il 20 dicembre 1995 chiesero il parallelo rinvio a giudizio dell’ex star di Mani pulite per «concussione e abuso d’ufficio» (si trattava in particolare delle note frequentazioni di Di Pietro con il bancarottiere Gorrini e con il capo dei vigili urbani milanesi Eleuterio Rea); e di Paolo Berlusconi, Cesare Previti, Ugo Dinacci (magistrato e ispettore ministeriale inviato in missione a Milano) per avere ordito un complotto contro Di Pietro, costringendolo ad abbandonare la magistratura. Anticipiamo le conclusioni di questa inchiesta parallela. Le accuse a Di Pietro si areneranno per il no dei GIP bresciani: i quali riconosceranno che all’ex PM non era addebitabile alcun reato. Tutt’al più avrebbe potuto rispondere, come magistrato e in sede disciplinare, di alcune sue accertate sventatezze. Ma poiché magistrato non era più, come cittadino ogni questione penale era chiusa (ogni questione penale, va precisato, che lo vedesse imputato: perché Di Pietro ha riversato su politici e giornalisti una caterva di querele per diffamazione). Seguiranno invece per qualche tempo il loro corso le accuse ai suoi presunti persecutori. Fabio salamone sarà estromesso da questo processo, con deliberazione della Procura generale di Brescia, per la sua «palese inimicizia» nei riguardi di Di Pietro: la cui attività investigativa era stata esercitata anche contro un fratello di Fabio, l’affarista Filippo. Ma l’affaire (tanta apparenza e poca sostanza) finirà per sgonfiarsi del tutto. I giudici bresciani stabiliranno infatti che non c’era stata alcuna congiura per far dimettere Di Pietro, essendo il suo proposito di lasciare la magistratura assai precedente ad ogni possibile manovra del clan berlusconiano. Molta fatica sprecata e molto denaro pubblico speso invano. Vedremo più avanti come l’inutile inchiesta su Di Pietro l’abbia comunque indotto ad abbandonare una poltrona di Ministro, e come un’inchiesta chiusa non lo sia mai definitivamente, in italia.

Intanto proseguivano le ricerche della magistratura sugli illeciti attribuiti alla Fininvest, e sui fondi neri che tramite conti bancari svizzeri sarebbero stati passati dalla holding berlusconiana al PSI craxiano. Di suo Paolo Berlusconi subiva in tribunale una condanna a un anno e quattro mesi in primo grado per tangenti – riguardanti concessioni edilizie – ad amministratori locali del PSI, del PCI e della DC: sentenza poi annullata dalla Corte d’Appello che ha poi derubricato e dichiarato prescritto il reato. Cominciava ad affiorare, senza che gli si attribuisse grande rilievo, il nome di Pierfrancesco Pacini Battaglia, e Stefania Ariosto aveva già snocciolato al PM di Mani pulite alcune rivelazioni – quelle che porteranno tra l’altro all’arresto del capo dei GIP romani Renato Squillante – ma rimaneva nell’ombra, o in una luce per il momento solo mondana, con il suo inesauribile archivio fotografico, e a braccetto di Vittorio Dotti: uno dei due avvocati – l’altro era Cesare previti – che erano sempre rimasti nella scia del Cavaliere, e che da lui avevano avuto compensi miliardari e ruoli politici di primo piano quando Forza Italia aveva vinto le elezioni.

Su questo ed altri ammorbanti viluppi politico-giudiziari dovremo tornare a più riprese, per seguirne le contorte e convulse fasi. Diciamo intanto che insieme a Lamberto Dini – ma più di Lamberto Dini che s’era capito ormai dove volesse accasarsi – Di Pietro era sul finire del 1995 la grande incognita della politica italiana. Si sapeva che avrebbe portato in dote, a chi fosse riuscito ad arruolarlo, milioni di voti, e che il Paese aveva, nonostante tutti gli attacchi e tutte le leggerezze venute in luce, granitica fiducia in lui; si sapeva che per ideologia pendeva piuttosto a destra (infatti i «colonnelli» di AN lo sostenevano a spada tratta); si sapeva egualmente che, come crociato an ticorruzione, vedeva in Berlusconi un avversario piuttosto che un alleato. Sui motivi che l’avevano indotto a lasciare la toga Di Pietro manteneva un imperforabile riserbo, avvolto da messaggi sibillini. Da Seul – era continuamente in viaggio, tutti lo cercavano tutti lo volevano – aveva detto: «Mi sono dimesso da magistrato perché avevo scoperto che politici e uomini d’affari tentavano di fare cattivo uso dell’operazione contro Tangentopoli per il proprio interesse personale». Sentenza oracolare, tanto solenne quanto vaga. Sempre durante lo stesso tour aveva dettato dal Giappone dodici punti programmatici per rimettere in sesto l’italia: che includevano il maggioritario a doppio turno, il semipresidenzialismo, robuste norme antitrust e un divieto d’entrare in politica a chi avesse notevoli interessi editoriali o comunque riguardanti il mondo della comunicazione. Ogni riferimento a Berlusconi non appariva casuale.

Gianni Agnelli, che come senatore a vita partecipava probabilmente senza entusiasmo ma con qualche assiduità ai lavori parlamentari, lesinava le prese di posizione sugli avvenimenti politici: e le poche che concedeva erano – secondo il suo stile – scettiche, distanti e prudenti. Eppure il riservato signor FIAT si accaparrò i titoli di testa dei telegiornali e dei quotidiani, a metà dicembre del 1995, con l’annuncio della sua prossima abdicazione. Re non protocollare – ma investito, nella coscienza popolare e nel rispetto deferente che i potenti «ufficiali» e i mezzi d’informazione gli dimostravano, di tutte le prerogative d’un sovrano – Agnelli fece sapere che nel marzo successivo, al compimento dei settantacinque anni, avrebbe ceduto la presidenza effettiva della FIAT a Cesare Romiti (a lui sarebbe rimasta la presidenza onoraria). Dopo trent’anni in cui aveva tenuto il timone del maggior complesso industriale italiano Agnelli «lasciava». All’esercizio effettivo del suo potere dinastico Gianni era arrivato piuttosto tardi. Fino alla quarantina s’era goduta la vita, alternando i piaceri di un miliardario cosmopolita ad un tenace attaccamento per la sua Torino: che voleva dire Mirafiori e voleva anche dire la Juventus. Amministratore delegato della FIAT nel 1963, ne divenne presidente nel 1966 per la rinuncia del leggendario Valletta, ultraottantenne. S’era capito presto che al volante della FIAT c’era stato un cambio di mano. I tempi non erano più gli stessi, e la concezione di Valletta secondo cui la FIAT doveva essere per i dipendenti la mamma, la famiglia e la Patria non reggeva al fuoco delle contestazioni. Ci si avvicinava al ’68 e ai tempestosi rinnovi contrattuali – in un clima quasi rivoluzionario – del 1970. Nella circostanza Agnelli dimostrò veramente d’essere – nel bene e nel male – il signor FIAT. La sua propensione al compromesso e il patto con Luciano Lama sulla scala mobile furono visti da molte imprese meno forti della FIAT e da molti osservatori economici come rese a discrezione al nemico. Le critiche avevano fondamento. La filosofia di Agnelli discendeva dal vecchio slogan vallettiano secondo cui ciò che è bene per la FIAT è bene per l’italia. Ma forse anche grazie a queste cedevolezze la FIAT è riuscita a superare molte bufere.

Non però quella giudiziaria che da tempo infuriava attorno alla FIAT non meno che attorno alla Fininvest, e che aveva minor risonanza solo perché Gianni Agnelli si teneva fuori dalla politica militante. Quella bufera – anche qui anticipiamo la cronologia per uno sforzo di sintesi – ha scaricato i suoi fulmini su corso Marconi il 9 aprile 1997: quando Cesare Romiti è stato condannato a un anno e sei mesi di reclusione e Francesco Paolo Mattioli, direttore centrale finanziario della holding, a un anno e quattro mesi: entrambi riconosciuti colpevoli, almeno in primo grado, dei reati classici di Tangentopoli: falso in bilancio, finanziamento pubblico dei partiti, frode fiscale. Cesare Romiti era entrato in FIAT nel 1974 ed aveva affermato con crescente vigore la sua autorità: tanto da esigere e ottenere che Carlo De Benedetti, penetrato come socio nell’impero, ne fosse presto estromesso. S’era supposto che Romiti, pur avendo poteri quasi illimitati, non sarebbe mai diventato presidente, e che questa carica sarebbe toccata a Giovanni Alberto Agnelli, figlio di Umberto e presidente della Piaggio per eredità materna. Ma poi era venuto, appunto, l’annuncio a sorpresa: Romiti sarebbe stato il futuro presidente (il secondo non della famiglia nella storia della FIAT) e avrebbe mantenuto la poltrona fino al compimento dei settantacinque anni, nel giugno del 1998. L’incombere dell’inchiesta che la Procura di Torino aveva svolto con grande puntiglio non dissuase Gianni Agnelli dal ribadire l’investitura. Dopo la condanna – che non aveva effetti pratici, per la sospensione condizionale e per il meccanismo degli appelli, anche se inibiva ai condannati le cariche sociali – egli confermò la sua fiducia nella correttezza di Romiti e di Mattioli. Quarantacinque personaggi di primissimo piano della finanza e dell’imprenditoria italiana sottoscrissero, nella circostanza, una lettera di solidarietà a Romiti. Un nome, tra i quarantacinque, fece sensazione: quello di Enrico Cuccia, l’anziano, discreto, segreto grande vecchio di Mediobanca, che era conosciuto per la riluttanza ad esprimersi pubblicamente, foss’anche per dire che ora è, e che invece scendeva spavaldamente in campo.

Il «caso» FIAT ha riproposto gli interrogativi di Tangentopoli, pur senza l’infuriare delle polemiche scatenate dalla impetuosa scalata politica di Berlusconi. Un dato è certo: vigeva nell’Italia che conta un sistema marcio: tutte le aziende d’una qualche importanza erano sottoposte a una tassazione impropria in favore dei partiti – le tangenti – e per poter elargire i fondi in nero che i partiti pretendevano dovevano falsificare i bilanci. Tutto questo era contro la legge. Così come contro la legge, e agevolato da falsi in bilancio, è il pagamento del pizzo agli estorsori mafiosi (anche quelle somme non figurano di certo nei registri dei ricattati). Gli imprenditori potevano sottrarsi alle pretese dei partiti o alle richieste di una dirigenza politica e di un’amministrazione bacata, erano insomma corrotti (e corruttori) o concussi? E poi: si pagava solo per ottenere favori illeciti, o si pagava anche per avere ciò che spettava di diritto? Le risposte dipendono dall’opinione personale e magari dalla collocazione ideologica. Ma v’era, nel sistema, un elemento di perversa doppiezza sul quale non si riflette abbastanza: i partiti erano anche il governo, e il governo manovra la macchina amministrativa. Un’azienda che rifiutasse gli oboli miliardari ai partiti poteva essere assoggettata, per ordine dei Ministri che in quei partiti militavano, a devastanti ispezioni della Finanza. Gli industriali, che non sono angeli, incorrono spesso e volentieri in marachelle. Ma la congerie e confusione legislativa è tale che gli accertamenti, solo che lo si voglia, portano dovunque alla scoperta d’irregolarità. Nella stravagante Italia gli organizzatori del racket tangentizio – nutrito di fondi neri – erano anche i firmatari delle circolari moralistiche sulla correttezza fiscale delle aziende. I magistrati, suppongo, non possono tener conto di questo sottofondo paradossale: che però è di un’evidenza inquietante, e genera dubbi in chi guardi il fenomeno Tangentopoli con distacco scettico, o se preferite cinico.

«E che dovevamo fare, un colpo di stato?» è sbottato un giorno Romiti, durante un’intervista. Volendo con questo affermare che nemmeno la potente FIAT era in grado di sottrarsi, nelle sue innumerevoli ramificazioni, agli automatismi implacabili del sistema, o che comunque i costi della resistenza le parevano maggiori dei rischi d’una capitolazione. Sono, in buona sostanza, le tesi di Berlusconi (ma senza la pretesa del Cavaliere d’essere l’alfiere d’una rinascita morale del Paese). Si può da queste tesi dissentire, e magari i magistrati devono dissentire: ma non si può sottovalutarle.