Il 30 dicembre 1995 un Lamberto Dini puntualissimo nell’onorare la tabella di marcia che s’era imposta rassegnò le dimissioni nelle mani di Scalfaro: che tuttavia le respinse rinviando il governo dei tecnici alle Camere, perché le Camere stesse ne decidessero la sorte. Il comportamento di Scalfaro, pur costituzionalmente ineccepibile, attestava la sua propensione ad una proroga dell’esperienza Dini. Il rituale messaggio di fine d’anno del Capo dello Stato fu, al riguardo, abbastanza esplicito. Egli esortò i partiti a trovare un accordo per realizzare quel governo di larghe intese, impegnato nell’elaborazione di nuove e migliori regole, cui già pensavano tra esitazioni e cautele Berlusconi e D’Alema. L’intervento di Scalfaro ebbe consensi e critiche. Storace, un duro di AN il cui linguaggio non eccelle per finezza ma si distingue per rude chiarezza, lo liquidò così: «per dire le cose che ha detto non c’era bisogno del Capo dello Stato, bastava Funari».
Se il Polo faceva la faccia feroce perché Dini se ne andasse subito – ma al suo interno, lo si è accennato, le perplessità erano palpabili – anche nell’Ulivo c’era chi deprecava «Il pasticcio di ambiguità del governissimo». La Lega era disposta – e sotto sotto favorevole – ad una proroga, a patto che fosse accompagnata dalla garanzia d’una Costituente in senso radicalmente federalista: garanzia che non si capiva in che modo potesse essere offerta, e da chi. I colloqui che Dini avviò per sondare gli umori dei partiti, e verificarne la disponibilità per una ulteriore durata del governo tecnico, ebbero tutto sommato esito negativo. Anche tra gli ostili a elezioni ravvicinate pochi si sarebbero battuti per salvare un esecutivo che insisteva nel proclamarsi neutrale, ma che si colorava sempre più di politica benché i suoi esponenti fossero privi d’un mandato popolare. Se la politica doveva riprendere il suo posto, tanto valeva – secondo i più – che lo facesse senza infingimenti. Giovedì 11 gennaio 1996, il Presidente del Consiglio, che aveva raccolto espressioni di fiducia e di stima non traducibili in voti parlamentari, reiterò le dimissioni con un discorso tacitiano, quattro minuti. Non vale la pena d’indugiare sulle consultazioni che, in ossequio al copione protocollare, Scalfaro avviò. La vera partita si giuocava fuori da questa liturgia risaputa, e consisteva nella possibilità – o non possibilità – di varare un governo delle regole. Ossia un governo con larga base parlamentare – e lontanissimo per questo dalla logica del bipolarismo – che realizzasse poche e precise cose. Tra esse soprattutto la ristrutturazione dei poteri e l’aggiornamento delle norme che li alimentano e li limitano.
Il compito d’esplorare la fattibilità di quest’opera d’alta ingegneria costituzionale fu affidato in somma segretezza – ma era una segretezza all’italiana, tutta spifferi – a un gruppo di autorevoli esperti: che erano Domenico Fisichella di AN, Giuliano Urbani di Forza italia, Franco Bassanini (aiutato da Cesare Salvi) del PDS. Costoro erano – anche i rappresentanti della sinistra – dei moderati: nel senso che non si lasciavano del tutto condizionare dalle logiche di schieramento, e che avvertivano l’urgenza di mettere in sesto uno Stato sgangherato al cui interno erano frequenti le scorrerie di predatori spregiudicati.
Fu elaborata, con sorprendente convergenza, una bozza di accordo che prevedeva in sintesi questi punti: 1) il 90 per cento dei deputati sarebbe stato eletto con il meccanismo vigente per i senatori, il restante 10 per cento sarebbe stato attribuito alla maggioranza per renderla più robusta e porla al riparo da colpi di mano (il congegno elettorale era, nella sua stesura completa, assai più sofisticato e intricato di come l’abbiamo riassunto, ma non vogliamo frastornare i lettori); 2) niente elezione diretta del Capo dello Stato (come avrebbe voluto il Polo), anzi la sua figura sarebbe diventata ancor più incolore e notarile di quanto sia, almeno sulla carta, oggi. Compiti di garanzia, di vigilanza, di autenticazione, ma non iù di questo. All’inquilino del Quirinale sarebbe stato sottratto anche il più significativo tra gli attuali poteri, ossia la nomina del Presidente del Consiglio; 3) nemmeno elezione diretta, in senso stretto, del Primo Ministro, ma ogni lista sarebbe stata aperta dal nome del candidato a Palazzo Chigi di quel partito o di quella coalizione, e il suo insediamento sarebbe divenuto, in caso di vittoria, automatico; 4) un voto di sfiducia al Presidente del Consiglio avrebbe comportato la caduta del governo; 5) veniva accettato, con riserve del Polo, il sistema elettorale a doppio turno.
Sulla bozza – che l’opinione pubblica considerò, con buone ragioni, un progetto pressoché definitivo – si avventarono i dubbiosi e i dissenzienti. Non vi mancavano i punti deboli: ad esempio era previsto che con le dimissioni del premier il governo non cadesse, ma che la maggioranza potesse sostituirlo senza nuove elezioni: veniva così offerta un’arma – e il Palazzo non avrebbe mancato d’impugnarla – per agguati, ricatti, patteggiamenti, ribellioni, ribaltoni. Ma la vera vulnerabilità del documento non stava in questo: stava nell’ostilità di quanti – a cominciare da Fini, da Prodi e da cespugli vari – ringhiavano all’idea d’un governo interlocutorio che sarebbe stato, in buona sostanza, un governo a due. Infatti Fini sconfessò nel più plateale dei modi il povero Fisichella, che avendo materialmente provveduto alla stesura della bozza si sentì umiliato, annunciò il ritiro da AN e s’appartò imbronciato. Salvo ripensarci dopo le pressanti sollecitazioni di Fini, accompagnate da chiarimenti che non chiarivano nulla. Gli abbracci d’obbligo tra Fini e Fisichella seppellirono l’incidente e insieme ad esso la bozza. Con la quale defunse prima di nascere – secondo la diagnosi di parecchi osservatori – l’ipotizzato governo delle regole. In effetti lo schiaffo di Fini al professor Fisichella era stato anche uno schiaffo – e più cocente, se possibile – all’alleato Berlusconi.
Ma le agonie politiche italiane somigliano a quelle del caudillo Franco e del maresciallo Tito: sono lunghe, penose e, per chi ne aspetta con ansia la conclusione, estenuanti. La trama interrotta fu riannodata proprio da Scalfaro che affidò un nuovo tentativo per la formazione del governo ad Antonio Maccanico. L’uomo era particolarmente adatto alla missione. Già segretario generale della Camera, già segretario generale del Quirinale con il vulcanico Pertini, già presidente di Mediobanca – e amico del potente Cuccia – Maccanico aveva la vocazione del mediatore. Anche l’appartenenza politica – era stato repubblicano dopo un giovanile periodo comunista – lo collocava naturaliter al centro. Non faceva pesare né i suoi tenui riferimenti ideologici né i suoi legami con l’universo dell’alta finanza. L’arte in cui eccelleva era quella d’una soave ricerca dei punti d’incontro tra posizioni diverse, e magari opposte. L’arrampicata cui s’accinse era un sesto grado. Gli si chiedeva di formare un esecutivo non più tecnico in senso stretto, ma che di preferenza non includesse parlamentari per scongiurare risse di Palazzo; gli si chiedeva inoltre di essere sganciato dai partiti, ma tenendo nel dovuto conto le pretese dei partiti stessi; gli si chiedeva infine di avere un comportamento che per Prodi non fosse un affronto, anche se quell’incarico era per Prodi una mezza tragedia. Che sarebbe diventata tragedia intera qualora Maccanico fosse riuscito a conquistare Palazzo Chigi, sloggiandone il Professore.
Con pazienza e abilità consumate Maccanico si adoperò per dare al governo in fieri una base accettabile non solo da D’Alema e da Berlusconi – entrambi ben disposti – ma dai loro scalpitanti e vociferanti soci. Già correvano insistenti, a Roma, i nomi dei futuri probabili Ministri. Maccanico aveva trovato un posto anche per il boiardo Lorenzo Necci, che qualche mese dopo ne avrebbe invece avuto uno meno invidiabile in carcere. In una decina di giorni il Presidente incaricato mise a punto una dichiarazione d’intenti che nei suoi passaggi essenziali prevedeva il semipresidenzialismo e il maggioritario a doppio turno. Ma la zattera con cui Maccanico voleva salvare le larghe intese andò ad infrangersi contro due scogli: il Polo esigeva che nella dichiarazione ufficiale di Maccanico fosse citato il «semipresidenzialismo alla francese», fosse cioè esplicito il riferimento, che oltretutto Scalfaro non gradiva, ad un modello estero; l’Ulivo premeva perché l’impegno semipresidenzialistico fosse attenuato dalla frase «nel rispetto della tradizione parlamentare italiana». Il che avrebbe consentito di mettere parecchia acqua nel vino gollista fino a farlo diventare una bevanda assai diversa, e per alcuni indigesta o inutile. È tuttavia opportuno sottolineare che gli scogli accennati non sarebbero bastati a mandare a picco la zattera di Maccanico senza il contributo di numerosi e agguerriti sabotatori delle «larghe intese», Fini e Prodi in prima linea, i popolari e altri cespugli a dare man forte. Tra l’altro Prodi aveva snobbato l’offerta di una vicepresidenza del Consiglio (ormai assuefatto all’idea d’essere premier, l’essere vicepremier non lo soddisfaceva più) e andava ripetendo che un accordo tra i Poli significava mancanza d’alternanze e dunque compromesso torbido e corruzione.
D’Alema s’era Prodigato perché Maccanico riuscisse, ed aveva perfino scritto una lettera in cui riconosceva che il semipresidenzialismo in discussione doveva essere proprio quello «alla francese». Berlusconi fu tutto pro-intesa, invano. Nel recente volume De prima re publica Andreotti ha avanzato, con prosa non proprio limpida, un’ipotesi aggiuntiva per spiegare l’insuccesso di Maccanico. «Altri riferivano» questo il passaggio che c’interessa «di una telefonata nella quale si era risolta negativamente la convinzione che del pacchetto della non belligeranza facesse parte anche il proposito – enunciato per primo dal dottor Di Pietro – di una soluzione della intricata matassa di Tangentopoli.» in chiaro questo sembra significare che nel contenzioso politico era stata introdotta la questione del «colpo di spugna» sui reati di corruzione, e che non se n’era venuto a capo.
Il 14 febbraio 1996 uno stremato e stizzito Maccanico si arrese, e arrendendosi attribuì le maggiori responsabilità del fallimento al Polo (sottintendendo che nel Polo il vero vilain era stato Gianfranco Fini). Il giorno successivo Scalfaro sciolse «con vivissimo rammarico» le Camere, e fissò le elezioni per il 21 aprile. A quel traguardo l’Italia sarebbe arrivata con il governo di Lamberto Dini, sia pure confinato nell’ambito dell’ordinaria amministrazione: al che il centrodestra s’era opposto sempre con foga, ma la foga divenne furore dopo che Dini ebbe annunciato, a fine febbraio, la decisione d’entrare in politica e d’entrarvi con un suo partito, Rinnovamento italiano, d’impronta liberaldemocratica e riformista. Nelle settimane che mancavano all’appuntamento con le urne l’Italia sarebbe stata affidata – strillava il Polo – non ad un arbitro neutrale e imparziale ma ad un partecipante alla gara. All’ira del Polo le sinistre opposero un argomento forte, nella sua linearità. In quasi tutti i Paesi democratici, esse osservarono, si va alle elezioni con il governo in carica. Ci si era andati di norma anche in italia. Il Polo insisteva peraltro su una non trascurabile differenza. Il governo Dini era nato come «tecnico», e in quanto tale era stato accettato: salvo cambiar volto d’improvviso – nel Presidente del Consiglio e in alcuni Ministri – nell’imminenza delle elezioni. Alcuni provvedimenti che Dini adottò nell’ultima fase del soggiorno a Palazzo Chigi – e che furono da lui definiti «atti dovuti» – vennero letti dall’opposizione in chiave maliziosa: furono cioè letti come regalie e favori a questa o quella categoria e corporazione, per catturare consensi. Le lamentele del Polo, quale che fosse il loro fondamento, avevano una connotazione profetica. Dopo una sfingea esitazione, e dopo un appassionato corteggiamento dei due schieramenti, Dini – con il suo Rinnovamento – decise di entrare nella Grande Armée dell’ulivo: e il suo apporto fu senza dubbio decisivo per l’esito della contesa.
Assai più opinabile è l’influenza del «caso Squillante» – che potrebbe anche essere definito «caso Ariosto» – sul responso elettorale degli italiani. Ma da anni a questa parte – abbiamo avuto occasione molte volte di rilevarlo – politica e giustizia sono tutt’uno, o danno l’impressione d’esserlo. La giustizia irrompe nelle vicende del Palazzo – malfamato per aver dato ospitalità a troppi scostumati profittatori – e avanza a carico di questo o di quello sospetti che sono marchi d’infamia. Il potere politico dei magistrati è, da questo punto di vista, immenso e preoccupante: un contrappasso eccessivo ma comprensibile alla stagione in cui immensa e devastante era stata la sfrontatezza di politici e «boiardi». Il 12 marzo 1996, quando mancava poco più d’un mese alle elezioni, il pool di Mani pulite ordinò l’arresto a Roma di Renato squillante, settantenne capo dei GIP (i giudici per le indagini preliminari) romani, magistrato legato da una fitta rete di conoscenze – alcune delle quali si traducevano, secondo gli inquirenti, in favori – a gente della cosiddetta «Roma bene» (che spesso e volentieri è «Roma male»). La cattura e la «traduzione» dell’anziano giudice da Roma a Milano avvennero con l’apparato scenografico che in queste operazioni, sempreché si svolgano sotto gli occhi delle telecamere, non manca mai. Gli italiani videro in televisione un carosello di auto rombanti e un nugolo di uomini in divisa, mentre sarebbe bastato un agente, e un viaggio (seppur non privo d’incognite alla luce d’un successivo disastro ferroviario) con il Pendolino. Ma al di là dell’enfasi spettacolare, l’arresto era sensazionale. Un alto magistrato finiva in galera con l’accusa d’aver ricevuto mazzette e d’essersi adoperato per sviare e adulterare il corso della giustizia a vantaggio di chi lo foraggiava. Con lui finì dentro l’avvocato Attilio Pacifico, complice, secondo Borrelli e i suoi sostituti, nella grande abbuffata. Ben presto si seppe che la «gola profonda» delle rivelazioni che avevano portato a Squillante era una teste – designata in codice come Omega – che per l’anagrafe si chiamava Stefania Ariosto, bionda signora quarantaseienne, assai nota nella «Milano bene» (qui vale la stessa osservazione fatta a proposito della «Roma bene») per il suo fascino elegante, per le sue frequentazioni importanti, per le sue irrequietezze, per i suoi molti debiti e per l’affettuosa amicizia – tutti sappiamo cosa s’intende con questo – che la legava all’avvocato vittorio Dotti.
Stefania Ariosto, intelligente e intraprendente, è figlia d’un collaudatore d’armi e apparecchi di precisione per il Ministero della Difesa. S’era sposata diciassettenne, e dal primo marito, Enrico pierri, aveva avuto due figli morti poco dopo la nascita per fibrosi cistica. Il secondo marito fu un architetto, Mario Margheritis, ma anche questo matrimonio, rattristato dalla morte d’una bambina che visse solo quattro mesi, non durò. L’ingresso di Stefania Ariosto nel «generone» politico-affaristico dell’Italia craxiana fu opera di Giorgio casoli, un massone che era stato magistrato e Presidente di corte d’Assise a Milano (aveva giudicato tra gli altri i terroristi Curcio e Franceschini) e che successivamente s’era buttato nell’arena elettorale: sindaco di Perugia nel 1980, senatore socialista nel 1987. Sorretta e spinta dal premuroso Casoli la Ariosto entrò, a Roma, nel giro di Cesare previti, quindi si legò a vittorio Dotti e ne fu la «compagna» per otto anni.
Gli innumerevoli biografi della Ariosto – e lei stessa in un libro molto reclamizzato – hanno arricchito questa scheda di episodi romanzeschi, drammatici, galanti, salottieri e bancarottieri a non finire. Tutto è stato descritto: le attività di Stefania come addetta alle pubbliche relazioni in Guinea, le sue iniziative imprenditoriali in genere non coronate da successo, il negozio d’antiquariato in via Montenapoleone a Milano (gestito assieme al fratello Carlo), la passione divorante per il giuoco che la portò infinite volte nei casinò dove dilapidava grosse somme di denaro, la persecuzione degli strozzini, la ridda di vertenze in cui era impelagata: e in parallelo con questa esistenza convulsa e travagliata i fasti della mondanità più esclusiva, la partecipazione ai pranzi con caviale e champagne nei salotti o sulle terrazze romane e milanesi, le vacanze nelle «barche» dei miliardari o di coloro che fingevano d’esserlo, i viaggi. D’ogni avvenimento Stefania Ariosto, maniaca dell’istantanea, conservava una documentazione fotografica che ha fatto la felicità della Procura di Milano e dei settimanali: e inoltre agende gremite di nomi.
Una donna senza dubbio notevole: che secondo i punti di vista – derivanti da interessi precisi – può essere presentata come una creatura maltrattata dalla sorte o come una cortigiana furba, o come una convitata dell’abbuffata tangentizia redenta per un soprassalto di moralità, o come una «pentita» ansiosa d’avere la protezione della giustizia per risolvere al meglio le sue grane legali.
Incontestabile è il ruolo che la Ariosto ha avuto nel fare puntare i riflettori delle inchieste anche sulla magistratura: non la incontaminata torre d’avorio che i suoi mitizzatori descrivevano, ma una branca pubblica inquinata quanto le altre. I sostenitori del pool milanese di Mani pulite prendono di mira, non senza ottime ragioni, il Palazzo di Giustizia romano: un «porto delle nebbie», sostengono, dove tutte le inchieste delicate che coinvolgessero i potenti si arenavano su secche infide, come la Vittorio Veneto davanti a Valona. Stefania Ariosto è stata battezzata il «cigno biondo», con evidente richiamo alla testimone-chiave del «caso Montesi», Annamaria Moneta Caglio, che fu, nei primi anni Cinquanta, il «cigno nero». Nessuno è autorizzato a stabilire fin d’ora se il cigno biondo abbia detto la verità, tutta la verità, nient’altro che la verità. Di sicuro – ci sono carte e confessioni a dimostrarlo – non ha detto solo bugie.
Alla teste Omega il pool di Milano era arrivato nel più banale dei modi: ossia spulciando i nomi delle persone cui erano finiti i quattrini che Silvio Berlusconi elargiva con generosità a familiari e collaboratori, e che passavano di mano con libretti al portatore. Uno dei libretti – seicento milioni – era toccato a Vittorio Dotti che come avvocato di Berlusconi – per il quale aveva condotto e concluso trattative molto delicate – presentava le sue parcelle a fine anno: ma che trovandosi nell’urgente necessità d’avere a disposizione una forte somma, s’era rivolto al protettore, e il protettore non s’era tirato indietro. Parte di quel denaro era poi finito sul conto dell’Ariosto. Seguendo quel sostanzioso rivolo di denaro i PM milanesi si trovarono perciò, il 21 luglio 1995, faccia a faccia con Stefania Ariosto, e capirono presto d’avere fatto bingo. Riluttante dapprima, la signora fu convinta quattro giorni dopo a rilassarsi e a spifferare quanto sapeva. Lo fece dopo aver ottenuto l’esitante e tormentata autorizzazione di Dotti, cui peraltro sarebbe tanto piaciuto di chiamarsi fuori da questa faccenda. Non era ottimista al punto da ignorare che poteva esserne – come ne fu – stritolato.
Da quel luglio del ’95 in poi la Procura di Milano lavorò sulle rivelazioni della teste Omega: che venne munita d’una scorta, incaricata di proteggerla o da eventuali e improbabili sicari, o da se stessa. Nessuna cautela era eccessiva, agli occhi dei PM di Mani pulite, per salvaguardare la fonte di così ghiotte informazioni. Il distratto Dotti incontrava, insieme alla compagna, anche le robuste guardie del corpo che non la mollavano mai, senza per questo mostrare sorpresa, e apprensione. Un uomo poco curioso.
Ridotte all’essenziale, le confidenze di Stefania Ariosto delineavano un sistema di corruzione e di favori reciproci che coinvolgeva magistrati romani in vista – foraggiati perché «accomodassero» processi – e gli avvocati Cesare Previti e Attilio Pacifico, pagatori per conto d’altri. Tra gli altri cui si dava la caccia era Silvio Berlusconi. Secondo Stefania, Vittorio Dotti era, per il Cavaliere, l’avvocato delle cause pulite, e previti l’avvocato delle cause sporche (e vinte grazie alle mazzette). L’inchiesta aveva, come la più parte delle inchieste di Tangentopoli, uno sfondo politico. Basta pensare alla connotazione craxiana di certa mondanità arrogante ed esibizionista: e basta pensare che Dotti era il capogruppo di Forza Italia alla Camera, e Cesare Previti era stato Ministro della Difesa nel governo Berlusconi (il Cavaliere aveva tentato, per fortuna senza riuscirvi, d’assegnargli il Ministero della Giustizia).
Avuta l’imbeccata, i PM di Milano ordinarono agli uomini della Polizia giudiziaria di scovare riscontri alle dichiarazioni di Stefania: e autorizzarono intercettazioni telefoniche in gran numero. L’operazione rischiò d’andare in fumo – consentite lo scherzo – per un posacenere. Una microspia era stata collocata appunto nel doppiofondo d’un posacenere su un tavolino del bar Tombini di Roma, frequentato da molti magistrati, e fu scoperta per caso. Quando la microspia venne trovata, sedevano al tavolino Renato Squillante, il GIP Augusta iannini – moglie del noto conduttore televisivo Bruno Vespa – e Vittorio Virga: quest’ultimo avvocato di Cesare Previti e Paolo Berlusconi nel processo bresciano per il presunto complotto mirante a ottenere le dimissioni di Antonio Di Pietro dalla magistratura (nel codice degli inquirenti la collocazione della microspia era stata battezzata, senza troppa fantasia, no smoking). Vi fu emozione, al Palazzo di Giustizia, per la «cimice» di paternità ancora ignota: e perciò attribuita da qualcuno ai soliti servizi segreti deviati. Era invece una cimice legittima e per la verità in alcuni momenti topici non funzionante: tanto che per rimediare al guasto un poliziotto seduto accanto ai sospettati annotava furtivo e febbrile, su foglietti di carta, il contenuto delle loro conversazioni.
Squillante sapeva, per molti sintomi, d’essere nel mirino dei PM milanesi, e aveva confidato le sue angosce a due colleghi ed amici, il procuratore capo di Roma Michele coiro e il PM Francesco Misiani: entrambi affiliati a Magistratura democratica, la corrente di sinistra dell’Associazione magistrati, e lodati dalla sinistra come risanatori e redentori del «palazzaccio» romano. I due, sollecitati da Squillante, avevano cercato di sapere dalla Procura milanese, dove contavano molti amici, cosa stesse bollendo in pentola, ottenendo risposte evasive, e proprio per la loro evasività allarmanti. Di quest’interessamento Coiro e Misiani saranno poi chiamati a rispondere. Il ministro Flick, giurista di multiforme ingegno, nominerà Coiro direttore generale delle carceri per sottrarlo alla competenza del CSM ed evitargli una umiliante sanzione disciplinare. Misiani subirà invece dal CSM (dopo una discussione animata e una decisione non unanime) la punizione del trasferimento d’imperio ad altra sede.
Il romanzone balzachiano che Stefania Ariosto andava ricostruendo a beneficio degli inquirenti – e che sosteneva di conoscere a fondo proprio per essere stata partecipe di quella società smargiassa – aveva, lo si è accennato, una cornice dorata e una sostanza da codice penale. Ai pranzi con aragoste, alle parate di belle donne che sfoggiavano le toilettes di famosi e costosi stilisti – chiamarli sarti è ormai offensivo – alle prime della Scala, alle nottate di roulette e baccarat s’intrecciavano conciliaboli loschi, maneggi affaristici spregiudicati e soprattutto «dazioni», tante «dazioni»: termine, quest’ultimo, con cui il burocratese definisce quelle che in linguaggio più volgare abbiamo già chiamate mazzette. Quest’universo di lustrini e reati aveva per nume tutelare negli ultimi anni Ottanta, lo si è già accennato, Bettino craxi. Infatti nel 1988 parecchi vip – un buon numero dei quali Stefania Ariosto coinvolgerà nelle sue accuse dopo averli immortalati con l’obiettivo – erano volati a New York per assistere alla cerimonia con cui la Niaf, potente organizzazione degli italoamericani, voleva onorare Craxi (nel 1996 lo stesso riconoscimento sarà attribuito a Romano Prodi). Il pellegrinaggio cortigiano includeva un folto gruppo di magistrati – tra essi Squillante – le cui spese di viaggio si vuole siano state pagate da Cesare Previti.
In questo contesto carico di ombre per magistrati e boiardi di Stato – impegnati dalle loro funzioni all’imparzialità e alla difesa del pubblico interesse e dediti invece alla parzialità più smaccata e più privata – la teste Omega inserì due specifici episodi: nel circolo Canottieri Lazio aveva visto Previti consegnare a Squillante una busta gonfia di denaro con l’amichevole avvertimento «A Renà, ti sei dimenticato questa»; in casa Previti aveva visto lo stesso Previti, l’avvocato Pacifico e Squillante, che davanti a un tavolo disseminato di banconote avvolte da fascette (dunque una somma ingente) procedevano ad una spartizione. Per questi racconti Stefania Ariosto fu sottoposta a fine maggio del ’96 a un pesante «Incidente probatorio», ossia a una testimonianza resa in presenza di avvocati degli inquisiti, e sotto il fuoco di fila delle loro contestazioni. Stefania Ariosto ammise d’aver fatto confusione su date e circostanze, e martellata da domande incalzanti ebbe anche uno svenimento. Fu tuttavia ferma nel ribadire, al di là di errori marginali, l’esattezza del quadro che aveva delineato: pacifico e Previti pagavano Squillante e Squillante smistava a colleghi complici le mazzette, ovviamente dopo aver trattenuto la sua.
Cesare Previti – che ha denunciato la Ariosto per calunnia – la smentisce su ogni punto. Non è vero che lui si sia assunte le spese della famigerata trasferta di gruppo a New York; non è vero che alla Canottieri Lazio potesse accadere ciò che la Ariosto pretende vi sia accaduto; è impossibile che siano state spartite mazzette nella casa indicata come sua – con profusione di particolari – dalla Ariosto perché al tempo in cui il fattaccio sarebbe avvenuto lui abitava altrove. Infine Previti sottolinea che la Ariosto, così attenta non solo alle conversazioni ma anche ai sussurri, è stata vaga su un punto fondamentale: quali erano i processi che dovevano essere addomesticati? Questo Stefania non lo sapeva: ma sapeva che Previti corrompeva per conto di Berlusconi. L’andava dicendo, il Previti, a chiunque volesse dargli retta, e aggiungeva di avere «fondi infiniti a disposizione». In proposito Bruno Vespa si è posto – e ne ha scritto nel suo libro La svolta – una domanda precisa: «Fondi per comprare quali processi, per corrompere quali magistrati? Alla fine degli anni Ottanta, ai quali si riferisce la testimonianza della Ariosto, Berlusconi non aveva problemi giudiziari in genere e in particolare a Roma». La risposta della teste Omega è molto semplice: «Il mio interesse non era così attento a capire di quali processi si trattasse».
I PM di Mani pulite – secondo i quali Stefania Ariosto è ormai poco rilevante come teste essendo sopravvenute conferme documentali delle sue accuse – hanno posto gli occhi su due megacause civili che da sole potevano spiegare le «dazioni». La prima – Berlusconi non c’entrava – riguardava il contenzioso per qualcosa come mille miliardi tra l’avventuroso magnate della chimica Nino Rovelli e l’Istituto mobiliare italiano (IMI). Il Rovelli, seducente e convincente clark Gable della Brianza, aveva promosso, con l’entusiastico appoggio di politici nazionali e locali, un progetto di straordinaria espansione dell’industria chimica riguardante in particolare la Sardegna. Nell’immane fornace chimica era stata incenerita una montagna di denaro dei contribuenti: ma Rovelli – cui veniva mosso l’addebito d’essersi arricchito a spese degli Italiani, illudendo e ingannando una classe dirigente leggera e scorretta che all’illusione e all’inganno era disposta – non si sentiva per niente in debito verso la collettività o verso altri: anzi, vantava addirittura un credito gigantesco verso l’IMI, ossia verso chi l’aveva con scarsa cautela finanziato. Dopo un lungo e tortuoso tragitto giudiziario che impegnò molti magistrati a vari livelli, la Cassazione stabilì definitivamente e incredibilmente – confermando una sentenza d’appello – che Rovelli aveva ragione e che gli spettava un migliaio di miliardi. Senza entrare nel merito, la Suprema Corte aveva rigettato il ricorso dell’IMI perché la procura speciale dell’Istituto ai suoi rappresentanti legali era misteriosamente sparita dal fascicolo. Dedotte le tasse, un tesoro di 678 miliardi spettava così agli eredi del finanziere, nel frattempo defunto: e i miliardi furono versati con singolare docilità. Ebbene, un quindici per cento del malloppo era finito agli avvocati: 35 miliardi a Mario Are e Angelo Giorgianni, che avevano sostenuto nelle varie istanze le ragioni del Rovelli; e poi 33 miliardi a Pacifico, 21 a Previti, 13 a Giovanni Acampora per una non ben precisata opera d’assistenza e d’intermediazione. Previti non nega d’aver incassato la somma, in favore suo e in favore di terze persone. Ma sostiene che non un centesimo è andato a uno o più magistrati, o comunque a pubblici ufficiali.
La seconda megacausa era quella in cui Silvio Berlusconi e Carlo De Benedetti avevano duellato, durante un decennio, per assicurarsi il controllo del colosso editoriale Mondadori. Anche questa vertenza, come quella Rovelli-IMI, ebbe un andamento erratico. In base alle successive e discordanti pronunce della magistratura il cavaliere s’insediava a Segrate come dominus dell’azienda e poi, degradato ad intruso, doveva sloggiare. Nel gennaio del 1991 una delle tante decisioni dei giudici aveva dato la vittoria a Berlusconi, e un trionfante Previti aveva convocato nella sua casa, per festeggiare l’evento, lo stato maggiore del Cavaliere (Dotti era della partita). Ma la vittoria era stata effimera: e da ultimo Berlusconi e De Benedetti avevano ripiegato su un compromesso: al primo veniva assegnato il complesso editoriale di Segrate, con la corazzata «Panorama», il secondo si teneva «la Repubblica» e «L’Espresso». Itinerari giudiziari di tanta lunghezza e di tanta rilevanza economica fanno la felicità degli avvocati e coinvolgono – tra primo grado, appello, Cassazione e possibili deviazioni cammin facendo – decine e decine di magistrati. Quanti e quali tra loro ricevettero – se ricevettero – mance, e per quali specifici favori? il punto rimane, per quanto ne sappiamo, abbastanza oscuro. Si ha l’impressione che il pool di Milano conosca – o ritenga di conoscere – i passaggi e i destinatari delle «dazioni» assai meglio di quanto conosca i momenti in cui certe cause furono «accomodate». Sul modo in cui squillante smistava e collocava all’estero il malguadagnato i magistrati hanno una convinzione: il giudice fu aiutato da due dei suoi figli, entrambi giornalisti, o almeno si servì di loro. Mariano Squillante era corrispondente della RAi da Londra, Fabio corrispondente della «Stampa» da Bruxelles: sia l’uno che l’altro avevano il diritto di tenere in perfetta legalità conti esteri, sui quali appunto il padre avrebbe versato ingenti somme. La Procura milanese chiederà infatti l’arresto di Mariano e di Fabio Squillante, nonché della moglie russa di Fabio, Olga Savtchenko: per i PM tutti coinvolti in questa sorta di riciclaggio.
Nell’occhio del ciclone Ariosto era Vittorio Dotti: un italo Amleto o un Tristano della Padania, o un Jean Buridan. Filosofo francese, quest’ultimo, il cui nome è stato italianizzato in Buridano, e il cui pensiero è stato riassunto nella favola dell’asino che, incapace di scegliere tra due mucchi di fieno uguali, moriva di fame. Dotti non voleva smentire Stefania né mettersi contro la Procura di Milano, ma nemmeno voleva rinunciare alle sue ambizioni politiche. Rivendicava in Forza Italia il ruolo di colomba centrista: rimanendo assegnato a Previti quello di «falco». La riluttanza di Berlusconi e dei suoi intimi a ricandidarlo per il Polo era una ennesima stilettata del perfido Cesare. Nel suo candore ingenuo Dotti riteneva che l’irritazione di Berlusconi per la loquacità della teste Omega – e per il modo in cui alla teste omega si era arrivati – fosse eccessiva. Per quanto riguardava Dotti, Berlusconi era in una situazione sgradevole. Se ne avesse bocciato la candidatura si sarebbe attirate ulteriori accuse di dispotismo, e di asservimento della politica ad interessi personali e aziendali; se l’avesse approvata, avrebbe avuto come esponente autorevole di Forza Italia l’amico della sua nemica, poco discreto nel portarsi la compagna fotografa ad ogni festa, discretissimo invece nel non far parola di quanto andava spifferando. Dopo qualche esitazione il Cavaliere silurò Dotti: cui venne offerta a tambur battente una candidatura come indipendente nella lista di Rinnovamento italiano, la formazione di Lamberto Dini. Dopo una breve riflessione Dotti accettò: non accettarono invece, e furono saggi, Romano Prodi e Massimo D’Alema. L’avvocato del diavolo (se vogliamo definire diavolo Silvio Berlusconi) rimase al palo: come onorevole e come legale della Fininvest. Anche Stefania Ariosto, discussa ma molto popolare, era stata lì lì per candidarsi con l’UDS di Bordon e Ayala: ma poi un ripensamento generale aveva fatto fallire la balzana idea. Pur senza due attrazioni di rilievo, prendeva il via lo spettacolo elettorale.