La campagna elettorale fu accanita e monotona. L’Ulivo e il Polo enunciavano programmi analoghi fingendo tuttavia di volere cose diversissime. Tutti erano, almeno a parole, per il rigore dei conti pubblici, tutti erano per il mercato, tutti erano con slancio implacabile contro la corruzione. E tutti guardavano con occhio affettuoso alle esigenze delle classi lavoratrici, alle aspettative dei ceti medi, ai travagli dei giovani, alle pene dei pensionati. Il Polo accusava Prodi e i suoi – stretti da un patto elettorale a Rifondazione comunista – d’avere una duplice nostalgia: quella per i consociativismi, per gli immobilismi, per l’assistenzialismo e le dilapidazioni della Prima Repubblica; e quella per il marxismo e il collettivismo, sconfitti dalla storia ma riabilitati dal fascino sottile dell’utopia. L’Ulivo imputava al Polo il proposito di riproporre gli errori del governo Berlusconi, e di voler arricchire ancor più i ricchi impoverendo ancor più i poveri. In questo schema rozzo gli elettori del Polo diventavano capitalisti da caricatura di Grosz, e gli elettori dell’Ulivo lodatori di Stalin o del pauperismo dei La Pira e dei Dossetti. Termini come comunismo e fascismo – o postcomunismo e postfascismo – erano utilizzati come etichette polemiche. Sotto sotto nessuno credeva sul serio a questi annunci d’Apocalisse: perché nessuno era sprovveduto e ingenuo al punto da credere che Lamberto Dini e Gerardo Bianco vagheggiassero per l’Italia un futuro da repubblica popolare del disintegrato Est, e che i ragazzi delle borgate romane ai quali piace Gianfranco Fini fossero strenui sostenitori del capitalismo prevaricatore. Chiunque avesse un minimo di buon senso capiva quanto di vacuo e di parolaio vi fosse negli opposti annunci di cambiamento profondo del Paese. In Italia le grandi riforme sono sempre alla porta ma fuori dalla porta rimangono perché l’esistente, ossia la rete degli interessi consolidati e la struttura pubblica con i suoi vizi, è un macigno pressoché inamovibile.
Lo scetticismo era con ogni probabilità il sentimento prevalente tra gli elettori (lo attesterà l’alta percentuale delle astensioni, il 17,3 con un netto aumento rispetto alle politiche precedenti). Tuttavia Prodi, aiutato con abile discrezione da Massimo D’Alema, riuscì ad accreditare in molti italiani moderati – quelli che in un sistema maggioritario o semimaggioritario fanno la differenza, e decidono l’esito delle elezioni – l’immagine di un Ulivo saggio e insieme compassionevole, attento al bilancio dello Stato ma solidale e progressista. Cattolico osservante, pellegrino al santuario di Compostela, democristiano da sempre, Prodi era una smentita vivente a Berlusconi e Fini quando denunciavano la minaccia della sinistra atea ai valori religiosi e alla scuola libera. L’ingombrante compagnia di Bertinotti e Cossutta era giustificata con una spiegazione contorta, che alla prova delle urne risultò persuasiva. Rifondazione era estranea all’Ulivo, non ne condivideva il programma, innalzava orgogliosa il vessillo lacero del comunismo. Ma all’Ulivo l’avvicinava la volontà di sconfiggere il pericoloso Cavaliere e i suoi alleati, e dunque era la benvenuta nell’ora della battaglia. Prodi prometteva insomma di vincere con Bertinotti – simpatico ai salotti per l’erre moscia alla Gianni Agnelli – senza lasciarsene poi condizionare. Per chi aveva buona memoria di politica europea la strategia di Prodi o meglio ancora di D’Alema riecheggiava quella di Mitterrand quando aveva conquistato la sua prima presidenza: e s’era servito dei voti comunisti per poi scaricare Marchais e i suoi alla prima occasione. Il banchiere Dini e una folla di ex democristiani che per decenni avevano fatto dell’anticomunismo la loro bandiera erano lì a garantire che la liaison dangereuse con Rifondazione non sarebbe mai diventata un matrimonio. Le candidature dell’Ulivo erano in generale rassicuranti e di buon livello: ad esse – anche quando non fossero di pieno gradimento per la sinistra – l’elettorato pidiessino assicurava fedeltà. I maggiori quotidiani italiani e l’intellighenzia contribuirono a dissipare le apprensioni. Pochi professori e pochi opinionisti – benché autorevoli – si erano schierati con Forza italia. Una volta di più si vide quanta fosse la debolezza della destra nelle sedi – giornalistiche e culturali – che hanno influenza politica. Proprio nell’imminenza del voto Eugenio scalfari, alfiere dell’antiberlusconismo e dell’appoggio all’ulivo, aveva rinunciato alla direzione di «Repubblica». Lasciava il timone del quotidiano a Ezio Mauro – ma senza lasciare la penna – nel momento in cui la sua missione era compiuta. Creatore d’un miracolo editoriale – in termini di diffusione e in termini di prestigio – Scalfari aveva centrato durante vent’anni tutte le scelte giornalistiche e fallito tutte le scelte politiche. La realtà s’incaricava puntualmente di contraddire le sue diagnosi. Ci voleva l’Ulivo per dargli finalmente ragione.
Il meccanismo astuto, e in prospettiva rischioso, grazie al quale l’Ulivo e Rifondazione si proponevano – e raggiunsero l’obiettivo – di unire le loro forze senza sconfessare i loro diversi ideali si chiamava desistenza. Per la quota elettorale maggioritaria l’Ulivo si impegnava, in un certo numero di collegi, a non presentare suoi candidati e a votare quelli di Rifondazione, e in cambio Rifondazione prometteva di convogliare i voti dei suoi militanti sull’Ulivo, nel resto dei collegi. Era lo stesso meccanismo di cui Berlusconi s’era servito per avere, nelle politiche del 1994, l’appoggio della Lega. La formazione più debole veniva di solito avvantaggiata, in questo do ut des: infatti a Bossi era toccato un numero di deputati eccedente di gran lunga il suo consenso nel Paese. Anche D’Alema s’era rassegnato a fare il donatore di sangue per Rifondazione: ma era persuaso che ne valesse la pena. Ancor più valeva la pena di fare il donatore di sangue – e lo fece – per i cespugli moderati. Ogni voto moderato – l’ha rilevato Andreotti con il suo acume di veterano del Palazzo – «valeva in effetti il doppio, essendo sottratto al Polo».
Berlusconi – pur sottoposto a un incessante tiro a segno giudiziario – rimaneva l’incontestato leader carismatico del centrodestra: ma aveva parecchio piombo nelle ali. Le sue oscillazioni fra intransigenza e arrendevolezza, il sostegno dato al fallito tentativo di Maccanico, le intese cordiali con D’Alema, i poco credibili soprassalti di decisionismo spaccatutto sapevano di vecchia politica: su quel terreno un D’Alema o un De Mita si muovevano mille volte meglio di lui. Poi, avviata la campagna, il Cavaliere brandì la lancia e annunciò la sua sfida al sistema partitocratico, ai residuati della Prima Repubblica, allo statalismo paralizzatore, al fantasma del comunismo, agli sprechi, ad una tassazione oppressiva e iniqua. Questa tematica aveva un difetto grave: era una replica. Si trattava delle stesse denunce e delle stesse promesse che avevano dato a Forza Italia la vittoria del marzo di due anni prima. Berlusconi poteva sostenere che essendogli mancato – nei pochi mesi in cui aveva governato – il tempo di realizzare i suoi obiettivi, ed essendo calata sul Paese la stagnazione dei tecnici diniani, la battaglia non poteva essere che una ripetizione della precedente. Ma le mancava il tocco della novità e dunque l’impulso della speranza. Questo handicap poteva essere di scarsa importanza per partiti stagionati e collaudati, che alle repliche erano abituati, e anzi ci si erano esercitati per decenni senza mai trovarsi a disagio. Dal Polo gli elettori pretendevano dell’altro, e Berlusconi – nonostante i suoi sforzi – sembrava incapace d’offrirlo. Si aggiunga che troppi candidati del Polo non erano di prima scelta.
I ragionamenti sugli errori di Berlusconi e sulla diminuita incisività del suo messaggio sarebbero stati d’importanza solo teorica se Bossi si fosse schierato: come aveva fatto in precedenza due volte, con l’elezione del 1994 e con il ribaltone. I sondaggi davano Bossi in caduta libera, nel favore degli Italiani (e furono sonoramente smentiti). Ma anche se in calo, i voti di Bossi sarebbero bastati per fare la differenza. Tuttavia il senatur preferì questa volta l’isolamento – che se non splendido era sicuramente orgoglioso – alle alleanze del passato. Sapeva che, così decidendo, doveva rassegnarsi ad una riduzione drastica delle sue rappresentanze parlamentari, e proclamava di non esserne impensierito. Oramai Bossi voleva portare la Lega su posizioni radicali – la secessione o il caos – e affettava noncuranza per i riti elettorali «unitari».
I «faccia a faccia» televisivi tra Berlusconi e Prodi si chiusero, tutto sommato, in parità. Il professore bolognese era impacciato – ma con la pratica imparò a esserlo meno – e a volte poco efficace nel ribattere gli argomenti dell’avversario. Ma era anche, nella sua goffaggine, così uomo comune che forse ispirò in molti spettatori tenerezza, o la sensazione di trovarsi di fronte ad uno di loro. In definitiva proprio questa è stata la molla della popolarità di Mike Bongiorno. Di gran lunga più disinvolto e preparato all’esplorazione impietosa delle telecamere, Berlusconi dava per sua sfortuna la sensazione di esserlo troppo: ossia di recitare per obbligo contrattuale un copione stantio. Nel suo ultimo intervento prima della chiamata alle urne egli contrappose «l’Italia che lavora» quella appunto rappresentata da lui «all’Italia che ruba». La frase era impropria: avrebbe dovuto essere assai meglio articolata. Nel suo semplicismo la divisione degli italiani enunciata dal Cavaliere faceva il paio con l’altra cara agli «ulivisti» secondo cui i simpatizzanti del Polo erano tutti miliardari, impellicciati, oziosi e disonesti. Gli italiani – ci riferiamo alla maggioranza – hanno poca fede nella fede altrui, quand’è troppo sbandierata, e molta voglia di centro (l’hanno sempre avuta). Lo scontro era tra due schieramenti, ma la vittoria sarebbe venuta dall’area grigia che sta in mezzo. Questo spiega i segni di sorprendente vitalità che venivano dalle membra sparse del corpaccione democristiano.
L’Ulivo vinse. Di poco o niente in termini di voti: anzi a conti fatti risultò che al Polo era andata una manciata di consensi in più. Ma un sistema maggioritario – o semimaggioritario – ha meccanismi che premiano la qualità oltre che la quantità dei voti. Con i suoi 157 senatori su 315 – cui dovevano essere aggiunti i 2 della Südtiroler Volkspartei e parte dei 10 senatori a vita – l’Ulivo ebbe una maggioranza abbastanza comoda a Palazzo Madama. I 10 senatori di Rifondazione potevano essergli utili in qualche circostanza, ma non erano necessari. Altro discorso per la Camera. I deputati dell’Ulivo erano 284 sui 630 dell’assemblea. La maggioranza poteva essere raggiunta solo con l’apporto dei 35 di Rifondazione comunista. Bertinotti promise il suo appoggio a un governo Prodi, pur riservandosi libertà d’azione quando si fosse trattato d’approvare singoli provvedimenti. Il Polo gridò che l’Ulivo era prigioniero di Rifondazione e che Bertinotti avrebbe dettato la politica del governo. Era un segnale d’allarme enfatico – come si addice all’opposizione – ma non campato in aria. Proprio l’indispensabilità di Rifondazione faceva la differenza – una differenza profonda – tra la situazione del primo Mitterrand – che già abbiamo ricordata – e quella di Prodi. Mitterrand s’era potuto liberare con cinica soddisfazione del PCF perché i deputati socialisti facevano, da soli, la maggioranza assoluta all’Assemblea Nazionale. Prodi era invece costretto a tenersi stretto Bertinotti, senza il quale gli era impossibile governare, ma con il quale governare sarebbe stato un tormento.
Perché il Polo era stato sconfitto? Alle già accennate spiegazioni della svolta elettorale dobbiamo aggiungerne alcune altre. Una sta di certo nell’imprevisto peso della Lega, i cui consensi – quasi tutti collocabili, dal punto di vista sociale, nell’area di centrodestra – erano sottratti in primo luogo al Polo. Bossi s’era preso – su scala nazionale – il 10 per cento dei voti: e i suoi parlamentari – 59 deputati e 27 senatori – erano ben più che marginali a Palazzo Madama e a Montecitorio. Forza Italia aveva peraltro tenuto benissimo, sfiorando il 21 per cento: il PDS ne aveva preso il posto, come primo partito italiano, ma senza umiliarla. Semmai la delusione veniva da AN che s’era dovuta accontentare del 15,7 per cento. Nell’amarezza dell’insuccesso Silvio Berlusconi avrà senz’altro tratto da questo un’acre soddisfazione. I sogni di sorpasso che Fini aveva cullato erano morti in una notte d’aprile. La frustata a Fini era duplice: aveva mancato la pronosticata travolgente avanzata ed era stato logorato dal 2 per cento raccolto, alla sua destra, dai neofascisti di Pino Rauti. Quella percentuale in apparenza trascurabile era stata non solo determinante in alcuni collegi, ma con ogni probabilità decisiva per i risultati nazionali e per la vittoria dell’Ulivo.
I due tronconi ex democristiani del Polo (CCD e CDU) avevano raccolto all’incirca il 6 per cento, non più e non meno di quanto ci si aspettasse. Ma i candidati di area ex democristiana avevano ottenuto buoni risultati, sia nel l’Ulivo sia nel Polo, in confronto al ’94: Andreotti l’ha annotato con soddisfazione. «I sessanta deputati sono divenuti sessantasette, e i trentaquattro senatori sono ora quarantanove.» Tra gli eletti l’inaffondabile Ciriaco De Mita che Prodi, pur essendone stato un poulain, avrebbe volentieri relegato in un ruolo oscuro da Padre Giuseppe, ma che era ben risoluto a presentarsi, sia pure come isolato, ai suoi elettori: i quali gli avevano confermato la loro entusiastica fiducia. Il declino del Polo fu ribadito, un mese dopo le politiche, dalle regionali siciliane. Al centrodestra andò – in sicilia si votava con la proporzionale – la maggioranza assoluta nell’Assemblea (49 seggi su 90) ma i segni di stanchezza emersero con evidenza. In particolare Forza Italia vedeva addirittura dimezzati i suoi voti (dal 32,2 al 17,1 per cento). A compensare questo tracollo avevano in parte provveduto il CCD di Casini e Mastella e il CDU di Buttiglione con quasi il 10 per cento ciascuno. Del resto anche il PDS era arretrato. La tentazione del pentitismo è grande anche in politica, e il canto nostalgico non delle sirene ma della «balena bianca» scudocrociata faceva presa.
Nel campo di Berlusconi la sconfitta delle politiche, sia pure decisa da un fotofinish, lasciò un profondo scoramento. Si ripeteva, nel centrodestra, ciò che era già avvenuto a sinistra due anni prima. Allora Occhetto era stato sommerso dalle critiche ingenerose di chi dimenticava quanto gli si dovesse per aver salvato il grosso delle truppe comuniste – divenute pidiessine – mentre infuriava un devastante terremoto politico e ideologico. Il peggio fu che alla fondatezza di quelle critiche Occhetto sembrava credere. Allo stesso modo non solo gli avversari ma anche gli «amici» se la presero con Berlusconi per il suo dilettantismo, il suo egocentrismo, le sue incertezze: senza tuttavia saper dire chi altro sarebbe riuscito nell’impresa di tenere a galla, alla seconda prova, un partito inesistente. Berlusconi stesso si sentì avvilito come un pugile che nella sua carriera ha vinto tutti gli incontri, e subisce il primo k.o. Motivi di frustrazione il Cavaliere ne aveva in abbondanza. Doveva rassegnarsi ad un ruolo per il quale non era tagliato, quello dell’oppositore (e questo faceva una grossa differenza tra lui e i dirigenti pidiessini nel 1994); prevedeva difficoltà e ostilità crescenti per le sue aziende; sapeva che nei mesi successivi sarebbero venuti al pettine i suoi innumerevoli nodi giudiziari. Di solito la vittoria unisce (in realtà non era avvenuto per il Polo nel ’94 e non avvenne per l’Ulivo nel ’96), la sconfitta divide: e nel Polo non mancavano davvero gli irrequieti, i dubbiosi e i delusi. A un uomo così travagliato l’annuncio della nomina di Antonio Di Pietro – si era ormai ai primi di maggio – a Ministro dei Lavori pubblici dovette sembrare funesto. Dalla presenza del Grande Accusatore nel governo non potevano venirgli che guai.
Con l’invito a Di Pietro perché occupasse, nel governo dell’Ulivo, la poltrona di Ministro dei Lavori pubblici, Prodi aveva giuocato d’anticipo. Dell’attribuzione a Tonino d’un dicastero s’era saputo prima che Scalfaro designasse ufficialmente Prodi come Presidente del Consiglio. Il Quirinale tradì infatti disappunto e imbarazzo: disappunto perché la nomina era, dal punto di vista formale, alquanto spregiudicata; imbarazzo perché l’idea d’un così ingombrante outsider immesso nell’esecutivo – e l’eccezionalità della procedura attestava di per sé sola l’eccezionalità del personaggio – non era fatta per entusiasmare uno Scalfaro, tanto puntiglioso nell’attenersi ai formalismi costituzionali. Si può inoltre sospettare – benché ne manchino, come è logico, le prove – che Scalfaro non gradisse troppo la presenza nel governo d’un Ministro meno uguale degli altri, e rivestito di tale popolarità da poter appannare l’autorità del Capo dello Stato, timoniere degli ultimi sviluppi politici. Nella lettera di accettazione Di Pietro aveva scritto a Prodi: «Mi riconosco nei punti fondamentali del tuo programma, che sono proprio quelli che abbiamo tracciato nell’autunno scorso e resi pubblici con reciproci interventi sulla stampa». Quello che aveva portato Di Pietro al fianco di Prodi sembrava, in un così sobrio riassunto, un percorso lineare: ed era stato invece un percorso travagliato e zigzagante. La circostanza in cui l’ex PM aveva per la prima volta conosciuto Romano Prodi non era favorevole alla nascita d’una intesa. Durante le sue indagini a tutto campo sulla corruzione e sui finanziamenti illeciti ai partiti, Di Pietro aveva convocato anche Romano Prodi. Il sospetto era che il Professore avesse foraggiato, come presidente dell’IRI, la sua area politica di riferimento, quella democristiana, attingendo a fondi «riservati», ossia «neri». Di Pietro aveva aggredito il suo interlocutore con la tecnica inquisitoria che gli era abituale, e che gli aveva procacciato tanti successi. Prodi fu molto turbato dalla veemenza del PM: sapeva che molti prima di lui, avendo opposto negazioni alle accuse, erano finiti in carcere. Fu per lui un sollievo l’uscire dall’ufficio di Di Pietro senza le manette. Ma era, come disse poi, «arrabbiato», e forse voleva dire spaventato.
Dopo d’allora era passata tuttavia molta acqua sotto i ponti. Di Pietro s’era dimesso con clamore dalla magistratura. Molti avevano creduto – e fatto credere – che il suo fosse stato un gesto impulsivo, dettato dall’indignazione per la campagna d’insinuazioni e per i dossier avvelenati con cui s’era voluto colpire e umiliare l’uomo simbolo di Mani pulite. Gli avvenimenti successivi suggeriranno un’interpretazione molto diversa delle mosse di Tonino. Sotto l’apparenza dell’ariete impetuoso il magistrato-contadino era un attento programmatore del suo avvenire. L’abbandono del pool e della magistratura gli frullava nella testa già da mesi prima che l’Italia ne fosse informata, con sgomento. Antonio Di Pietro aveva un disegno politico: quello di assemblare, con il prestigio del suo nome, le forze moderate. Smessa la toga, attese che le inchieste avviate da Salamone e Bonfigli a Brescia finissero in nulla e che la tifoseria dipietrista gridasse al trionfo dell’innocente calunniato. Sappiamo che il trionfo non era stato, per verità, incondizionato. Il GIP Anna Di Martino, pur affermando che Di Pietro non doveva rispondere di nulla dal punto di vista penale, l’aveva bacchettato per le sue esuberanze, per una scelta non oculata delle amicizie, per qualche disinvoltura. Assolto dunque, ma senza lode.
Mentre si liberava dalle pastoie giudiziarie, Di Pietro intesseva una fitta rete di contatti con tutti i protagonisti della politica, a destra e a sinistra. Inclusi dunque Berlusconi e Fini. E incluso Prodi. Tutti gli offrivano candidature, tutti gli offrivano Ministeri, e lui temporeggiava, senza prendere posizione. Alle elezioni non s’era presentato, e si può supporre che sia rimasto fuori dalla mischia non per ritrosia ma per non ritrovarsi con i perdenti. Chi pretendeva d’accaparrarselo veniva fustigato. Capitò anche a Prodi che – ammonì il Grande Enigma – «deve smettere di giuocare con Di Pietro che sta con l’Ulivo. Di Pietro è Di Pietro». Uno scatto d’orgoglio, placato quando l’Ulivo ebbe vinto. Allora Di Pietro si persuase dell’opportunità di collaborare con Prodi. Avrebbe preferito avere una vicepresidenza del Consiglio e il Ministero dell’interno, dovette accontentarsi dei Lavori pubblici: un carrozzone sgangherato – e assai meno operativo di quanto si supponga, perché solo una piccola parte degli appalti dipende dal Ministro, il resto spetta agli Enti locali – dove una mano forte come la sua poteva comunque essere preziosa. Senza entusiasmo D’Alema commentò: «È una scelta che si basa sulla condivisione degli indirizzi programmatici di fondo del nuovo governo e ciò non potrà che rafforzarne l’azione, la politica e il prestigio». Lapidario Bertinotti: «che cattiva notizia». Prima che fosse annunciata, il 17 maggio 1996, la lista dei Ministri le due Camere procedettero all’elezione dei loro Presidenti. Il Polo aveva proposto per il Senato il nome di Francesco Cossiga ma la designazione, pur non rifiutata pregiudizialmente dall’Ulivo, naufragò in un mare di dubbi e di veti. A Palazzo Madama andò Nicola Mancino, democristiano di lungo corso e popolare inaffondabile: a Montecitorio andò Luciano Violante del PDS; ex magistrato delle covate di sinistra che aveva mantenuto legami assidui con le Procure, ma che nella sua nuova veste istituzionale compirà meritori sforzi d’imparzialità e d’apertura. Da lui è venuto il riconoscimento – quasi un inedito su quel versante – della buona fede di molti combattenti di Salò. Venne così ricostituito in quegli incarichi d’alto rilievo formale e di basso rilievo operativo, il tandem parlamentare democristiano-comunista della Prima Repubblica. Era un significativo segno di continuità, se non di restaurazione.
Il Ministero Prodi parve in complesso, per la qualità e la capacità delle persone, d’ottimo livello. Includeva due ex Presidenti del Consiglio, Lamberto Dini e carlo Azeglio ciampi. Al primo furono assegnati gli Esteri, poltrona prestigiosa e defilata. L’abilità negoziatrice, la conoscenza degli ambienti internazionali – oltre che delle lingue – la mondanità un po’ superciliosa, la moglie miliardaria facevano di Dini un perfetto titolare della Farnesina. Per di più, messo agli Esteri, non aveva voce in capitolo – nonostante la lunga esperienza bancaria – per la guida dell’economia italiana: e questo avrebbe evitato conflitti con Ciampi (cui lo legava una stagionata inimicizia) che dell’economia era, come Ministro del Tesoro e del Bilancio, il supervisore e il coordinatore. Un altro esperto d’economia, Beniamino Andreatta, fu dirottato verso la Difesa. La vicepresidenza e il Ministero dei Beni culturali e ambientali (con delega per lo sport e lo spettacolo) furono assegnati a Walter Veltroni, sostenitore incondizionato di Prodi in un PDS dove molti erano, a cominciare dallo stesso D’Alema, i dubbiosi. La Quercia insediò al Viminale – che dopo il Romita del referendum istituzionale e fino al leghista Maroni era stato per quasi mezzo secolo un feudo democristiano – il saggio Giorgio Napolitano. Da lui non si poteva pretendere il pugno di ferro, nemmeno nascosto da un guanto di velluto, ma allo stesso tempo non si poteva temere alcuna sopraffazione. Dai suoi «quadri» o dai suoi professori il PDS attinse personaggi di livello per le Finanze (il fiscalista Vincenzo Visco), per l’Istruzione (il «barone» universitario Luigi Berlinguer), per i Trasporti (claudio Burlando che era stato sindaco di Genova, con qualche incidente giudiziario felicemente superato), per l’Industria (pierluigi Bersani ex presidente della regione Emilia-Romagna), per le Regioni e la Funzione pubblica (Franco Bassanini). Due Ministri, affiliati infatti a Rinnovamento, Prodi li ebbe in eredità dal governo Dini: Augusto Fantozzi, angustiato dal cognome, al commercio estero; e Tiziano Treu al Lavoro. I popolari che insieme ad Andreatta ebbero un dicastero furono Rosy Bindi (sanità) e Michele pinto (Risorse agricole, il Ministero resuscitato dalla bacchetta magica burocratica dopo che un referendum popolare ne aveva decretato la morte).
La Giustizia e le Poste erano, nella «squadra» di Prodi, posti chiave. Da anni ormai le decisioni della magistratura influenzavano e condizionavano la politica, gli esponenti di partito non indagati o indagabili erano l’eccezione piuttosto che la regola. Gli infortuni toccati ai precedenti Guardasigilli erano derivati proprio dall’intreccio tra politica e giustizia. Forse anche per questo Prodi scelse, per la guida d’un Ministero preso nella morsa di magistrati inamovibili, di politici suscettibili e d’un CSM gelosissimo delle sue prerogative, un tecnico. Non che questo fosse garanzia di tranquillità, lo si era ben visto con Mancuso. Ma Giovanni Maria Flick, il designato, amico di Prodi e a lui ideologicamente vicino, non pareva proprio tipo da alzate d’ingegno temerarie. Già magistrato – come tale s’era iscritto all’Unione magistrati che al tempo riuniva l’ala più conservatrice dei giudici, gli «ermellini» della Cassazione in particolare – dalla magistratura era uscito per essere docente universitario e per esercitare la libera professione d’avvocato: presto affermandosi come esponente di spicco del mondo forense. Flick – occhiali, barba e pipa – conosce tutti i meandri del diritto e tutti i meandri della politica. Doveva vedersela con il pool di Mani pulite e con i nemici del pool che nel Palazzo sono tanti, anche a sinistra: e doveva trovare una qualche scorciatoia per uscire da Tangentopoli negando però con risolutezza che di scorciatoia si trattasse, ad evitare la sorte di Conso o di Biondi. Per la bisogna non c’era uomo più adatto, e più adattabile.
Antonio Maccanico era fatto su misura per le poste. Intelligente, amico di tutti, simpatico a tutti; avrebbe avuto il compito di sbrogliare la matassa televisiva; che le sentenze della COrte costituzionale, i referendum, i veti incrociati degli opposti schieramenti, gli anatemi degli antiberlusconiani e i gemiti vittimistici del Cavaliere avevano aggrovigliato come se fosse passata per le mani d’una scimmia impazzita. Maccanico non aveva una qualifica di tecnico, era in forza alla centrista Unione democratica. Ma si poteva essere certi che avrebbe agito da tecnico: non delle poste, delle emittenze e delle frequenze, ma delle manutenzioni di Palazzo: tecnico cioè di quel lavorio paziente e per lo più sotterraneo d’aggiustamenti che in Italia conclude alla meglio – o alla peggio – ogni questione ed ogni controversia negoziabile. I verdi ebbero, come da copione, l’Ambiente: il cui titolare Edo Ronchi, rustico e imprevedibile personaggio, fu presto in rotta di collisione con Di Pietro. A due signore del PDS, Anna Finocchiaro e Livia Turco, toccarono due di quei Ministeri dei buoni propositi che i Presidenti del Consiglio si sentono in obbligo d’escogitare, a dimostrazione del loro interesse per gli umili, i diseredati, i deboli, gli emarginati. La Finocchiaro ebbe le Pari opportunità, che non si sa bene cosa significhi ma lo significa con enfasi, Livia Turco la Solidarietà sociale. Per soddisfare i molti appetiti Prodi fu costretto ad aumentare il numero dei sottosegretari: 49, nella peggior tradizione repubblicana, contro i 42 di Dini e i 39 di Berlusconi. Merita un cenno, a titolo di curiosità, la nomina a viceministro della Difesa di Gianni Rivera, ex calciatore famoso che per la verità s’era distinto, sui campi di giuoco, più come attaccante che come difensore. L’equipaggio di Prodi era così al completo, la nave dell’ulivo poteva prendere il largo portandosi a rimorchio la scialuppa di Rifondazione, inalberante la bandiera rossa e carica d’esplosivo.