Già all’indomani dell’insediamento Romano Prodi, che ostenta un ottimismo di chiara ispirazione democristiana – basta pensare, volendo spulciare due nomi a caso dal Gotha dello scudo crociato, ai detti di Rumor e di Forlani – diede assicurazioni sulla durata e sulla solidità del suo governo. Non parlava a vanvera, se si guardava alla composizione del parlamento. La maggioranza era più che rassicurante, e i sostenitori dell’Ulivo – incluso il monello Bertinotti – gli giuravano fedeltà nel segno della vittoria su Berlusconi, e della lotta a una possibile rivincita del Polo. Finché si ragionava del contro, ossia della necessità di fermare la destra, l’accordo funzionava a meraviglia. Funzionava invece meno bene, o non funzionava affatto– lo si capì già dal debutto – quando si ragionava del cosa fare, ossia dei programmi.
Gli obiettivi che il governo s’era proposti – o che piuttosto gli erano imposti dalla situazione del Paese e dagli impegni internazionali – apparivano d’una chiarezza abbagliante. L’Italia doveva intanto adeguarsi, entro il 1998, ai parametri di Maastricht: ossia alle regole in mancanza delle quali le sarebbe stato negato l’ingresso nel club dell’euro, la moneta unica europea. Da questo punto di vista l’Italia stava, nel 1996, non solo peggio della Germania e della Francia ma anche peggio della Spagna. Guardiamo i dati. Maastricht vuole un’inflazione al 2,6 per cento e l’Italia era al 4,7, sia pure con un andamento in rapida discesa (la Germania all’1,3, la Francia al 2,1, la spagna al 3,8). Maastricht vuole che il deficit statale rappresenti il 3 per cento del prodotto interno lordo, e l’Italia era al 6,6 (la Germania e la Francia al 4, la spagna al 4,4). Infine – ed è per l’Italia il punto più dolente – Maastricht vuole che il debito pubblico sia al massimo il 60 per cento del prodotto interno lordo, e in Italia era il 123 per cento (in Germania il 60,8, in Francia il 56,4, in spa-gna il 67,8). Lo stato italiano porta un immane fardello di debito pubblico per effetto di trascorse spensieratezze, inefficienze e insensatezze: e deve rapidamente redimersi, con una condotta virtuosa. La parola d’ordine per Prodi (così come per Amato, per ciampi presidente del consiglio, per Berlusconi) è risanare. Già, ma come riuscirci?
Rifondazione comunista, e alcuni sindacalisti, e gli esponenti dell’assistenzialismo cattolico, hanno una formula semplice. Basta far pagare le tasse a chi le evade, senza che si debba togliere nulla a nessuno. Le cifre che vengono al riguardo sfornate sono impressionanti: duecentomila o trecentomila miliardi di mancato gettito in un solo anno, quanto basterebbe per far fronte ad ogni esigenza, Maastricht compresa. Si può dubitare della possibilità di spremere ancor più, con il fisco, un paese dove le aliquote sono tra le più alte del mondo occidentale. L’evasione resta un dato certo, con un’infinità di casi scandalosi, ma le aliquote d’imposta vertiginose la favoriscono. C’è chi evade perché ha la vocazione dell’evasore, e c’è chi evade perché se pagasse ciò che il fisco gl’impone fallirebbe. Gli appartenenti a questa seconda categoria potrebbero essere indotti a maggiore correttezza con un’imposizione ragionevole. Per estirpare l’evasione, o almeno ridurla ai livelli dei paesi bene gestiti, occorre comunque rifare da capo a piedi l’amministrazione finanziaria, anzi tutta la pubblica amministrazione, e nessuno c’è riuscito in decine d’anni. Maastricht però è dietro l’angolo. Le soluzioni taumaturgiche – che possono anche diventare, a lunga distanza, traguardi raggiungibili – restano per il momento nell’ambito della demagogia. Allora la soluzione è obbligata: lo stato deve rimettere in sesto il suo bilancio, e lo può ottenere in due modi. O inasprendo le tasse – e già s’è detto quale sia il loro peso per coloro che debbono pagarle scrupolosamente – o riducendo le spese.
Ridurre le spese vuol dire soprattutto incidere sul costo dell’amministrazione, immenso stipendificio dalla produttività bassissima, e smantellare almeno in parte una struttura pensionistica e previdenziale che, per la sua generosità, non ha rivali nel mondo sviluppato. In Italia si va in pensione in età più giovane che altrove: con lo scandalo delle pensioni-baby grazie alle quali vigorosi insegnanti non ancora quarantenni si assicuravano vita natural durante, senza lavorare, un modesto ma sicuro reddito mensile. Il numero degli invalidi fa a pugni con ogni sensato calcolo. Amato aveva calato qualche colpo d’accetta nella giungla pensionistica, Berlusconi – con dini suo Ministro del Tesoro – aveva tentato di procedere ad una riforma dura e organica ma era stato subito bloccato, come s’è già detto, da multitudinarie mobilitazioni di piazza. Purtroppo l’intervento chirurgico diventava tanto più necessario quanto più veniva procrastinato perché l’organismo del malato – il sistema previdenziale e l’economia del paese – stava andando in cancrena.
Insieme a quello delle tasse veniva opposto a chi insisteva per una riforma rigorosa un altro argomento suggestivo: Tangentopoli ha dissanguato l’italia, se finirà Tangentopoli recupereremo risorse pressoché inesauribili. Argomento valido, ma entro precisi limiti. Il tributo chiesto agli italiani per Tangentopoli, ossia per foraggiare i partiti e i corrotti, è stato ingente: ed era un tributo illegale e infame. Ancor più ingenti sono state tuttavia altre dilapidazioni: queste legali, approvate dai governi e dai parlamenti, e salutate con esultanza, per la loro «socialità», dai sindacati. I Ministri che hanno gonFIATo a dismisura gli organici degli insegnanti – il rapporto tra docenti e studenti è in Italia di uno a dieci, anziché di uno a venti come nel resto dell’Europa sviluppata – o gli organici dei postelegrafonici o gli organici dei ferrovieri hanno assestato alla finanza pubblica colpi peggiori d’ogni Tangentopoli. Quelli che abbiamo indicato sono i grandi settori di spesa su cui bisogna incidere. Il resto – i tagli alle auto blu e agli innumerevoli privilegi degli alti burocrati e dei boiardi – è giusto e necessario per la sua valenza simbolica. Ma sul piano quantitativo serve poco.
Di fronte a questo primo dilemma – dove risparmiare? – Prodi s’è immediatamente scontrato con le diverse anime (ma anime ingombranti quando non paralizzanti) della sua alleanza. Per il superministro dell’Economia, carlo Azeglio ciampi, che sa il fatto suo e gode d’un invidiabile prestigio internazionale, la strada giusta era quella suggerita dall’ortodossia economica, dai tecnocrati di Bruxelles, dal Fondo monetario internazionale: abbassare la spesa, non alzare la tassazione. Dello stesso parere erano i riformatori di Dini ed era – anche se non poteva gridarlo ai quattro venti – Massimo D’Alema. Il partito trasversale di coloro che col linguaggio d’un tempo sarebbero stati definiti cattocomunisti e di coloro che con linguaggio attuale sono definiti neocomunisti – la sinistra cattolica e Rifondazione – accettava sì il rigore, e anche i tagli alla spesa, purché non si tagliasse niente: tranne appunto le auto blu e altre stravaganti regalie di stato ai potenti e alle corporazioni. Guai a chi volesse toccare lo stato sociale, nel quale rientra la dispendiosissima e insoddisfacente sanità: ma rientra soprattutto un sistema pensionistico di straordinaria generosità non tanto nel livello delle pensioni – molte delle quali sono da fame – quanto nella loro «precocità». Inoltre in Italia vige l’istituto della liquidazione – in termini burocratici TFR, trattamento di fine rapporto – altrove sconosciuto. I sindacati confederali erano disposti a discutere dello stato sociale (ma non lo stato sociale), i COBAS e altre organizzazioni contestatarie di lavoratori erano sulle posizioni di Rifondazione comunista e oltre. La crociata di Bertinotti perché nessuna pensione fosse toccata ha avuto un seguito di commenti acidi allorché s’è saputo che la moglie del Rifondatore era anche lei una miracolata delle pensioni-baby. A cinquant’anni, e dopo una trentina trascorsi in impieghi pubblici, s’era messa a riposo.
Purtroppo è proprio lo stato sociale che deve essere toccato: a meno che si ripieghi sui soliti aumenti della benzina, su espedienti contabili, e sui miliardi del «gratta e vinci» e d’altre forme d’azzardo di stato. E così Prodi e lo stesso riluttante ciampi, dopo essersi solennemente impegnati a operare sulla spesa, si trovavano – come i loro predecessori – nell’impossibilità di rispettare gli impegni: e nella necessità di racimolare i quattrini necessari alle varie manovre e manovrine raschiando il barile fiscale e rinviando le riforme vere a un momento prossimo venturo. I governi a breve durata, come sono stati di norma quelli della prima Repubblica, potevano esercitarsi nell’arte della dilazione sapendo che una crisi prossima ventura li avrebbe tolti d’impaccio: perché un altro governo, anche se pressoché identico – negli uomini – al precedente, fingeva sempre di cominciare da capo. Un governo che aspira ad essere di legislatura quando rinvia, rinvia a suo danno: i nodi verranno al suo pettine, ancora più ingarbugliati. Già per l’economia, dunque, la coalizione dell’ulivo entrava facilmente in confusione: e non si esagera definendo miracoloso ciò che, nella confusione, fu poi realizzato.
Idem come sopra per la riforma – bisognerebbe chiamarla rifondazione, senza con questo voler alludere a Bertinotti – dell’apparato statale. Forse è vero che i quasi quattro milioni di dipendenti – diretti e indiretti – dello stato non sono uno sproposito. È invece vero senza ombra di dubbio che la gigantesca macchina funziona male, in tempi lunghissimi, e in base a una legislazione di mostruose dimensioni e di ineguagliabile farraginosità. Gli addetti all’amministrazione che la vorrebbero migliore – sono tanti – lamentano il caos legislativo. Hanno ragione. Senonché la massima parte delle «leggine» incoerenti o assurde (oltre che d’incomprensibile stesura) è elaborata proprio da alti burocrati – il governo e il parlamento ci passano poi lo spolverino, spesso senza sapere cosa approvano – i quali avevano in mente non le esigenze dei cittadini, ma le esigenze della propria e d’altre corporazioni.
La burocrazia legifera in favore della burocrazia attenendosi a criteri semplici: niente mobilità e niente meritocrazia. Ogni settore pubblico è un comparto stagno. Se la provincia di palermo ha bisogno d’un certo numero di assistenti sociali non le passa nemmeno per l’anticamera del cervello l’idea di attingere agli insegnanti che non hanno nulla da fare (siano essi precari o di ruolo). Indice invece un concorso con migliaia di candidati e complicate procedure per la nomina dei vincitori. Ci sono uffici che lamentano l’incompletezza degli organici e altri che non sanno dove far sedere gli impiegati, ma ogni passaggio dall’uno all’altro ufficio, anche se hanno compiti analoghi o almeno compatibili, è impresa titanica. Il male è aggravato dal fatto che gli statali sono in larga prevalenza d’origine meridionale, e ambiscono ad essere trasferiti in sedi vicine alle località da cui provengono. Nelle grandi città del Nord v’è cronica carenza di personale, al sud sovraffollamento. Negli ultimi decenni l’unica vera ragione d’avanzamento per merito che l’amministrazione abbia conosciuta era una ragione di demerito: ossia la protezione politica. Ai posti di vertici della burocrazia – comprese le Forze armate – andavano sovente uomini che erano riusciti ad agganciarsi al carro di qualche potente. Per il resto dominava l’anzianità, con promozioni automatiche e con una folla di dirigenti – l’amministrazione ne conta in numero superiore ad ogni altra europea – di cui solo pochi dirigevano davvero, e dirigevano – stando ai risultati – molto male. L’idea del licenziamento di statali in esubero o di statali incapaci era ed è estranea al Moloch burocratico. Niente ricambi, niente selezione. E soprattutto nessuno snellimento. La burocrazia ha – in comune con alcune specie animali inferiori – la straordinaria facoltà di ricreare le parti che le vengono amputate: non solo con la resurrezione di Ministeri soppressi – esemplare il caso del Ministero dell’Agricoltura – ma anche con fenomeni Prodigiosi di perpetuazione degli organici.
Se ne ebbe una prova vistosa quando, in seguito a una legge del 1977, molte importanti competenze dei Ministeri, appunto dell’Agricoltura, dei Lavori pubblici, della sanità furono trasferite alle Regioni. Contestualmente lo stato cedette alle Regioni stesse circa quindicimila dipendenti. Per un breve periodo il numero degli addetti ai Ministeri sottoposti al salasso ebbe una riduzione: ma – con la sola eccezione del Ministero dei Lavori pubblici – la burocrazia centrale riportò i suoi organici, con espedienti di sopraffina ingegnosità, al livello di prima dell’emorragia, anzi li superò. Il decentramento era così diventato duplicazione, la semplificazione era diventata raddoppio dei passaggi cartacei. Se la burocrazia esercitasse la stessa abilità attestata in queste marachelle corporative nel servire invece i cittadini sarebbe la migliore del mondo.
Il sistema è vigilato e protetto da una serie di corazze pressoché imperforabili. I pretori del lavoro che reintegrano nei loro incarichi funzionari ladri e inservienti scolastici che favoriscono lo spaccio di droga perché, in mancanza d’una sentenza passata in giudicato, sono presunti innocenti; i TAR che bloccano i trasferimenti e le punizioni. Sopra i TAR, se per caso si sono concessa qualche apertura al buon senso, sta il consiglio di stato. E quando proprio appaia necessario interviene la corte costituzionale composta in maggioranza da personaggi che hanno una matrice burocratica e formalistica, e che si comportano in coerenza con questo loro pedigree. Le pronunce bizzarre – ma d’una bizzarria mirata – di questi protettori della peggiore burocrazia sono per lo più accettate come un flagello naturale. Fatti d’ordinaria amministrazione, non «casi». «caso» è invece diventato – perché connesso alle inchieste di Mani pulite – quello di Aldo Lattanzi; un maggiore della Finanza che, patteggiata una condanna per corruzione, e scontata una blanda sanzione disciplinare, era stato riammesso in servizio, con provvedimento firmato dal ministro delle Finanze visco. Di fronte allo sconcerto dei cittadini lo stesso visco spiegò che secondo i soloni della giurisprudenza il patteggiamento non equivale a una condanna, e che di conseguenza l’incensurato (si fa per dire) Lattanzi – dopo un amorevole buffetto dell’amministrazione per le sue disinvolture – aveva pieno diritto di ricominciare, proprio lui, a fare le pulci ai contribuenti. Visco chiarì inoltre che si sarebbe provveduto, con una modifica di legge, a sanare l’incongruenza. Ma i marpioni del labirinto amministrativo riusciranno, siatene certi, a modificare la modifica.
Qualche Ministro di Prodi ha dichiarato guerra verbale – con le migliori intenzioni di far sul serio – alla semiparalisi amministrativa, e messo in cantiere progetti di profonda ristrutturazione: ad esempio la possibilità della cassa d’integrazione o del licenziamento per gli statali. Ma in tanti, nell’ulivo o attorno all’ulivo, sono, per motivi diversi, di parere contrario. Bertinotti – rieccolo – non vuol nemmeno sentir parlare di licenziamenti, per lui la distribuzione di posti cui non corrisponde nessun vero lavoro è socialità: togliete ai ricchi, predica, anziché accanirvi sulle povere mezze maniche. È l’ottica in base alla quale fu salutato come una conquista l’aver portato i dipendenti delle Ferrovie alla cifra esorbitante di 220.000 unità, poi ridotta gradualmente per un ritorno di ragionevolezza. Nei sindacati confederali la CGIL, che fonda la sua forza sugli operai e sui pensionati, può anche accettare che siano sfrondati, nell’amministrazione, i rami secchi, ma la CISL e l’UIL, tra i cui iscritti i «pubblici» sono molti, fanno quadrato per difenderli. E la CISL è molto vicina al ppi. Alle proposte radicali si risponde con la solita argomentazione: non è con queste misure che saranno risolte le difficoltà, il problema è a monte. Ma è difficile capire dove sia il monte. E dunque il governo progressista sapeva di dover mettere in riga la pubblica amministrazione: ma ascoltando le tante campane della sua chiesa – e non può esimersi dall’ascoltarle – rischiava di limitarsi ai soliti interventi cosmetici.
Il terzo obiettivo è la lotta alla disoccupazione: che in Italia – e in tutto il mondo sviluppato – è una disoccupazione selettiva. Non lasciamoci fuorviare dalle piazze che invocano lavoro (e che pure esprimono, intendiamoci, sofferenze vere). Gli italiani, come i Francesi o i Tedeschi, lasciano ormai agli extracomunitari i lavori pesanti e sgradevoli, anche se pagati come da contratto. Decine di migliaia di candidati sgomitano per qualche posto pubblico, ma le scuole dei mestieri manuali, dove s’impara a essere falegnami o idraulici o elettricisti o carpentieri mancano d’allievi: e bisogna cercare i saldatori o i tornitori in croa-zia o altrove, comunque fuori dai confini. Chiunque abbia un titolo di studio non ritiene che quel pezzo di carta attesti una determinata preparazione culturale o professionale: ritiene che quel pezzo di carta – avente valore legale – gli dia diritto a un posto che al pezzo di carta sia adeguato. Il fumoso pressappochista Bertinotti ha lanciato l’idea dello studio obbligatorio fino al titolo di scuola media superiore. Se compatibile con le risorse, è un’ottima idea: a patto però che i diplomati – e tutti lo sarebbero – non esigano un’occupazione da diplomato, ossia impiegatizia. In tal caso chi lavorerebbe in fabbrica o sul trattore? il risultato del todos empleados sarebbe piuttosto singolare per l’apostolo del proletariato. Le idee veterocomuniste di Bertinotti sono tutte o quasi di questo stampo. Lo slogan «lavorare meno, lavorare tutti», che è suo ma purtroppo anche di vasti settori sindacali e della sinistra cattolica, presuppone un’economia autarchica, come piaceva al fascismo e al «socialismo reale»: un’economia cioè che non ha preoccupazioni di competitività internazionale.
Le cifre della disoccupazione italiana ben superiore – ufficialmente – ai due milioni di unità, anzi vicina ai tre milioni, devono dunque essere interpretate. Risulta da sondaggi che di quei due milioni e rotti solo meno di duecentomila sono disposti ad accettare un posto qualsiasi, anche trasferendosi. Senonché nessuno cancella dagli elenchi dei disoccupati chi abbia ripetutamente rifiutato il lavoro che gli veniva offerto. La piaga, intendiamoci, resta grave e dopo anni in cui nel settentrione d’Italia – anche se nessuno lo ammetteva – esisteva la piena occupazione e le aziende si contendevano gli operai è venuto un periodo di vacche magre. I sindacati e i politici suggeriscono, per lenire la disoccupazione, i soliti incentivi come stanziamenti di fondi, lavori pubblici di dubbia utilità, salari ai giovani (misura quest’ultima attuata in sicilia, e divenuta una fonte di parassitismo garantito). Ma ciam-pi e Dini sanno che il rimedio vero alla disoccupazione si chiama mobilità. In Italia – ma anche nel resto d’Europa, con l’eccezione vistosa della Gran Bretagna – non si assume perché è difficile quando non impossibile licenziare. Il liberismo che gli stati uniti praticano ha spietatezze e ingiustizie: ma grazie ad esso l’America ha creato tra il ’91 e il ’96 quasi venti milioni di posti di lavoro, la disoccupazione era del 5 per cento (in Italia il 12), l’inflazione meno del due per cento, il tasso di crescita del 4,7, l’espansione economica impetuosa. In linea con la strategia americana, la Gran Bretagna dei conservatori aveva anch’essa un numero di disoccupati che era, in percentuale, la metà dell’italiano o del tedesco. Il laburista Tony Blair s’è ben guardato, vinte le elezioni e insediato al numero 10 di Downing street, dall’alterare la linea liberista, ha agito da thatcheriano di sinistra. Quei modelli non sono probabilmente mutuabili in paesi – particolarmente l’Italia – che alla competitività spietata della libera iniziativa sono refrattari e abituati all’assistenzialismo sprecone. Ma i vincoli devono essere fortemente allentati. Prodi era d’accordo, se lo lasciavano fare. Sapeva però che non l’avrebbero lasciato. Un’altra strada in salita, per il governo che si proponeva di portare l’Italia in Europa. Non sono ormai in discussione – tranne che per l’internazionale neocomunista – i traguardi da raggiungere ma il modo in cui raggiungerli.
Incombevano su Prodi e sulla sua maggioranza anche altre questioni spinose: di fronte alle quali la maggioranza stessa si presentava – come per l’economia – divisa. Anzitutto le riforme istituzionali. Gli italiani s’erano pronunciati con slancio per il sistema maggioritario, poi annacquato dal mattarellum, ossia dal compromesso che aveva mantenuto nella legge elettorale una quota proporzionale del 25 per cento. Buono o cattivo che fosse nei propositi di chi l’ha voluto, il mattarellum non ha ottenuto il suo obiettivo, che era quello di realizzare in Italia il bipolari-smo all’inglese, con l’alternanza di due grandi schieramenti. Il bipolarismo non ha funzionato per Berlusconi, e si sarebbe visto presto che funziona male per Prodi. Questo per il semplice motivo che i grandi schieramenti sono in realtà un’assemblaggio di partiti e di uomini che trovano una sufficiente concordia quando si tratta di vincere le elezioni, ma presto si dividono al confronto con le decisioni del giorno per giorno. Sull’esigenza di un aggiornamento e di un perfezionamento non solo della legge elettorale, ma di parti della costituzione ormai anacronistiche o obsolete tutti si dichiaravano d’accordo. Ma c’era chi voleva che se ne discutesse in una costituente eletta ad hoc e c’era chi voleva che se ne discutesse in una commissione bicamerale del parlamento (quella che a suo tempo era stata presieduta dall’onorevole Bozzi aveva ammassato montagne di proposte, senza nulla concludere). E poi c’era chi – all’interno dell’ulivo come all’interno del polo – voleva un maggioritario integrale (ma a uno o a due turni? altro dilemma), e c’era chi voleva più proporzionale. Se D’Alema doveva vedersela con il ppi e con Rifondazione – che di maggioritario «puro» non intendevano sentir parlare – Berlusconi doveva vedersela con gli ex democristiani del CCD e del CDU.
La questione giustizia affiorava quotidianamente dalle cronache, e poi dalle polemiche infervorate e spesso avvelenate che ne derivavano. L’attivismo e il presenzialismo delle procure «eccellenti» – Milano e palermo in particolare – davano la sensazione che i magistrati potessero, con i loro procedimenti e con i loro interventi pubblici, orientare o imporre i comportamenti politici. La sinistra – con qualche eccezione di garantisti a tutta prova – s’era associata, nel segno di tangentopoli e in omaggio al pool di Mani pulite, al «partito dei giudici»: che aveva peraltro qualche ramificazione in Alleanza nazionale. Le proteste contro l’invadenza della magistratura, forte d’un vasto consenso e molto risoluta nell’utilizzarlo, erano lasciate a Forza italia: ostile ai giudici, si diceva, non per motivi di principio ma perché silvio Berlusconi era nel loro mirino. A un certo punto, tuttavia, la solidarietà ai magistrati e l’unanimità dei magistrati avevano perso compattezza. Magistrati di chiara fama dichiaravano la loro preoccupazione per sconfinamenti che portavano la categoria ad assumere un ruolo improprio: e risuonavano con frequenza anche a sinistra i moniti ai magistrati «divi», abilissimi nel propagandare la loro immagine, instancabili in un’attività presenzialista che ne faceva dei conferenzieri, autori di libri, interlocutori di dibattiti, collaboratori di quotidiani, assidui del piccolo schermo. Anche a sinistra furono deplorati gli eccessi d’un presenzialismo che sconfinava nell’esibizionismo. Ci fu chi – in parallelo con i sospetti sul garantismo berlusconiano – attribuì questo mutamento di rotta alle incursioni che la magistratura andava facendo nella gestione finanziaria del pci e poi del PDS, e nella contabilità delle «cooperative rosse». Ma la maggior causa del mugugno di sinistra per gli sconfinamenti delle toghe stava nella rivendicazione d’un non rinunciabile primato della politica. Un uomo come Massimo D’Alema, che nella chiesa comunista s’è formato, e ha una concezione precisa delle gerarchie sacerdotali, non poteva ammettere a lungo che i politici diventassero vassalli dei burocrati, e che gli eletti fossero posposti ai vincitori d’un concorso. Ma anche su un tema così scottante la maggioranza era disarticolata, e se da un lato D’Alema, e il senatore Giovanni pellegrino, e il battitore libero Emanuele Macaluso davano ai giudici un sostegno con riserva, molti altri erano sempre e comunque dalla parte delle procure. Il «partito dei giudici» – che era piuttosto il partito dei PM – poteva contare su un vasto consenso degli intellettuali e dei mezzi d’informazione. «MicroMega», la pubblicazione di paolo Flores D’Arcais i cui contenuti sono ripresi con larghezza dai quotidiani, si distingueva per l’impeto con cui spalleggiava i Grandi Accusatori.
I nodi della giustizia erano intricati e delicati per la sinistra – erede d’una tradizione antirepressiva ma tentata da posizioni «forcaiole» –, intricatissimi e delicatissimi per il centrodestra. La composizione del CSM e la separazione delle carriere in magistratura costituivano i temi di più acceso scontro. Forza Italia avrebbe voluto che l’elezione del CSM, e il rapporto – in seno ad esso – tra i togati e i «laici» espressi dal parlamento (attualmente venti i primi, dieci i secondi) fossero modificati: lo voleva, sostenevano i magistrati, allo scopo di «politicizzare» l’organo da cui dipendono gli incarichi e i provvedimenti disciplinari, e di subordinarlo ai politici. I timori dei magistrati non erano campati in aria, ma la loro scontata opposizione al progetto non era del tutto persuasiva per un motivo molto semplice. Pareva, nella polemica dei magistrati, che il CSM fosse politico nella parte laica, professionale nella parte togata: in realtà era tutto intriso di politica, perché la magistratura attivista è divisa in correnti, le correnti fanno riferimento – in modo più o meno dichiarato – a partiti o aree politiche, i candidati sono presentati dalle correnti, e dunque la politica impera sia tra i laici sia tra i professionali. Detto questo, bisogna tuttavia aggiungere che la soluzione prevista dal centrodestra per la nomina del CSM non sanava affatto questa distorsione: dovuta a eccessive tolleranze del passato per prese di posizione (e dichiarazioni d’appartenenza) dei magistrati che erano senza dubbio alcuno politiche. Il difetto stava, ben più che nelle procedure e nelle alchimie elettorali, negli scambi indebiti tra giustizia e politica (attestati da migrazioni massicce di magistrati verso i lidi parlamentari). Va aggiunto che le controversie sull’impegno politico dei magistrati – traducibile in una perdita d’imparzialità – riguardano solo una loro minoranza: la cui «visibilità», sia che derivi dal merito sia che derivi dal rumore ch’essi suscitano, è tuttavia inversamente proporzionale al numero.
La disputa sulla separazione delle carriere potrà determinare, assai più di quella sul CSM, i destini della giustizia. In Italia la carriera è unica. Chi ha superato il concorso per entrare in magistratura – che esamina, quando ci riesce, la preparazione «tecnica» dei concorrenti, ma non verifica né il loro equilibrio né la loro imparzialità né la loro correttezza – viene avviato a una carriera nel corso della quale potrà essere volta a volta PM o giudice. Tangentopoli, e il fenomeno Di Pietro, hanno aureolato i magistrati, anche giovanissimi e, si suppone, inesperti, d’un prestigio e d’una autorità straordinari. Eppure sono «arruolati» allo stesso modo degli altri appartenenti alla burocrazia, hanno lo stesso retroterra ambientale e culturale. Ma gli italiani, che disistimano la burocrazia in generale e la ritengono inefficiente e poco preparata, fanno credito di grandi qualità ai magistrati, e approvano l’autonomia decisionale e l’indipendenza di cui sono dalla costituzione gratificati. Il nuovo codice di procedura penale e le vicende della lotta alla corruzione e alla criminalità organizzata hanno molto accresciuto il potere dei PM, le cui proposte vengono tuttavia sempre vagliate da un giudice «terzo»: cui spetta d’autorizzare, o no, il rinvio a giudizio (è l’ormai famoso Gip). Ma è davvero «terzo» quel giudice, tratta cioè allo stesso modo le tesi del PM e le tesi dei difensori? A questa domanda gli avvocati rispondono no. Il PM e il Gip – e questo vale per ogni altro grado di giudizio – sono colleghi. A volte accade che nella procura vi siano magistrati il cui potere sostanziale e la cui autorevolezza superano di gran lunga quelli del Gip, e magari quelli del Tribunale. Ve l’immaginate – spiegano gli avvocati – un Gip palermitano che avesse liquidato come aria fritta l’immane montagna di carte raccolta dal dottor caselli e dai suoi sostituti in anni di indagini su Giulio Andreotti e sulla sua affiliazione alla mafia? sarebbe crollato il mondo, quel Gip sarebbe stato lapidato.
Il centrodestra ha perciò sostenuto – sulla genuinità dei motivi per cui vuole il cambiamento è possibile, intendiamoci, ogni sospetto – che le carriere devono essere separate. I giudici sono giudici, sempre, gli accusatori sono accusatori, sempre: e se un cambiamento avviene equivale al normale passaggio da un lavoro all’altro (Di Pietro, tanto per citare un esempio, è stato prima commissario di polizia e poi magistrato). Come nei paesi anglosassoni, come in Germania. In Francia la carriera è invece unica, ma i PM hanno una dipendenza gerarchica precisa dai loro superiori e in definitiva dall’esecutivo (va precisato che a un PM francese può essere chiesto dall’alto di promuovere un procedimento, ma non di rinunciare a promuoverlo). La «terzietà» del giudice inglese è leggendaria, ve ne fu uno che deplorò come indecoroso il comportamento d’un collega che accettava di salire in ascensore insieme a un avvocato o a un prosecutor. Senza arrivare a tanto, con la separazione delle carriere si otterrebbe, secondo chi ne è fautore, il risultato di meglio equilibrare il rapporto tra accusa e difesa, sbilanciato a favore della prima.
Tutto questo è ipocrisia mirata, ribattono i PM. Quello italiano è il miglior assetto che si possa immaginare per la magistratura, chi pretende di modificarlo ha come obiettivo l’asservimento delle procure. La contesa, che tra momenti di stanca e soprassalti virulenti è endemica in italia, ha il difetto di fondarsi su quelle vicende giudiziarie che hanno un sottofondo politico, e sulle quali sono puntati i riflettori dell’informazione e l’interesse dell’opinione pubblica: ignora invece l’oscura giustizia quotidiana, che vessa il cittadino non per interferenze torbide, ma per i suoi ritardi intollerabili, la sua cavillosità, la sua inadeguatezza alle esigenze d’una società moderna. È importante definire i poteri e la collocazione dei PM; molto più importante è far sì che i processi non durino dieci anni. Nei paesi dove la magistratura non ha gli ordinamenti italiani, dai PM esaltati come degni d’incondizionata ammirazione, la giustizia quotidiana funziona di gran lunga meglio: il che svaluta alquanto i contenuti d’una polemica nutrita d’alti principi ideali e di sospetti corporativi. Ma anche da questa polemica la maggioranza di Prodi è stata investita: e l’ha affrontata in ordine sparso.
I temi che ci siamo sforzati d’inquadrare in questo capitolo torneranno nelle successive pagine: e già sono stati toccati, del resto, nelle pagine precedenti. La giustizia continuerà poi a farla da padrona, con i processi di mafia, con i processi per corruzione, perfino con i processi per i «provini a luci rosse»: e con il processo – anzi i processi – contro Erich priebke, di cui ci occuperemo nel capitolo seguente.