Nel maggio del 1994 una troupe televisiva americana della rete ABC, capeggiata dal «conduttore» e reporter sam Donaldson, piombò a san carlos de Bariloche in cerca di ex gerarchi ed ex scherani del nazismo: si voleva imbastire una trasmissione su di loro, sui loro trascorsi, e sul loro esilio. Bariloche è in Argentina, ai piedi delle Ande, e dista quasi duemila chilometri da Buenos Aires. Molti Tedeschi coinvolti nelle atrocità del regime hitleriano avevano, decenni or sono, cercato rifugio in sud America, e i più prudenti s’erano rintanati in località remote, come appunto Bariloche: che è, vista dall’Europa, all’altro angolo del mondo, ma ha fama internazionale come stazione sciistica. Aria buona, dunque, e paesaggio di straordinaria bellezza.
Un nazista Donaldson lo scovò presto, nella persona d’un certo Reinhardt Kops che aveva aiutato alcuni «camerati» a raggiungere l’Argentina, e che là s’era sistemato. Ma Kops, che prevedeva quali guai potessero capitargli se la sua faccia fosse apparsa nel documentario, sventò la minaccia indirizzando gli Americani verso un personaggio che, sottolineò, era di ben maggiore rilievo. Quel personaggio era Erich priebke che, capitano delle ss nel comando romano del colonnello Kappler, per ordine dello stesso Kappler aveva partecipato alla strage delle Fosse Ardeatine, e abbattuto personalmente, a colpi di pistola, due ostaggi (il 23 marzo 1944, in via Rasella a Roma, trentatré soldati d’un battaglione di «territoriali» altoatesini della Wehrmacht erano stati uccisi da un ordigno esplosivo collocato da militanti della Resistenza, e l’indomani le ss avevano trucidato alle Fosse Ardeatine, nei dintorni di Roma, 335 detenuti «politici» di Regina coeli, tra cui settantacinque ebrei).
Priebke, pensionato ottantenne, non si nascondeva, almeno non si nascondeva più. Era munito d’un regolare passaporto tedesco recante il suo vero nome e cognome: l’uno e l’altro – con la sola correzione di Erich in Erico – comparivano sulla guida telefonica di Bariloche. Con la tecnica incalzante del giornalismo televisivo americano Donaldson tempestò priebke di domande, ed ebbe risposte che anticipavano la tesi difensiva mai più abbandonata, dopo d’allora, dall’ex ufficiale. «Quelli erano i nostri ordini. Lei lo sa che in guerra quel tipo di cose accade.» «perché non si rifiutò dicendo “non lo faccio, non sparo ai civili”?» «Lei vive al giorno d’oggi, ma noi vivevamo nel 1933 e l’intera Germania partecipava. Ora non se ne vuol parlare, ma la maggior parte della Germania era nazista.» «Lei era un nazista?» «Ero giovane. Ero nazista ed ero giovane.»
Un «boia» della croce uncinata era stato così riportato, dalla penombra in cui era per tanto tempo rimasto, sotto la luce dei riflettori: una luce che per impulso delle organizzazioni internazionali dedite alla cattura di criminali nazisti divenne abbacinante. Da ogni dove grandinarono sul governo italiano esortazioni perché chiedesse agli Argentini la consegna di priebke, e lo processasse. Una laboriosa procedura d’estradizione fu avviata, e conclusa nel novembre del 1995 con la consegna dell’ex capitano alle autorità italiane, che lo rinchiusero a Forte Boccea. Competente a giudicarlo era infatti il tribunale militare, sulle cui caratteristiche è necessario non fare confusione. Da tempo ormai nei tribunali militari solo uno tra i giudici è un vero militare: gli altri due – così come il rappresentante dell’accusa – sono magistrati di carriera, entrati per concorso nella giustizia militare anziché in quella ordinaria. Tra il priebke che alle Fosse Ardeatine metteva a morte gli ostaggi e il priebke pensionato che Donaldson aveva stanato in Argentina c’era un buco di mezzo secolo. Come l’aveva riempito, quel mezzo secolo, l’uomo di Kappler?
Sconfitta la Germania, priebke era finito in un affollatissimo campo di prigionieri allestito dagli Alleati in italia, ed aveva anche subìto senza particolari conseguenze un interrogatorio di addetti ai servizi di sicurezza. Dal campo era fuggito insieme a tanti altri la notte di san silvestro (1945-1946) profittando di circostanze che più favorevoli non potevano essere: il personale inglese festeggiava con slancio, e con abbondante consumo d’alcolici, l’inizio del primo anno di pace, e lo squagliamento massiccio dei Tedeschi passò inosservato. Raggiunto l’Alto Adige – dove già aveva soggiornato e manteneva provvidenziali agganci – priebke trascorse un paio d’anni a vipiteno. Quindi attraverso il tam tam degli ex apprese che l’Argentina di perón riserbava buona accoglienza ai residuati del nazismo, e aiutato dalla croce Rossa (nonché, verosimilmente, da chi l’aveva preceduto nel viaggio) s’imbarcò a Genova con la moglie su una nave che salpava per Buenos Aires. Dapprima rimase nella capitale argentina, subito riprendendo la professione che era stata la sua fino alla sanguinaria parentesi della guerra: fu cioè cameriere e maître: le ss lo avevano infatti arruolato come interprete per la sua buona conoscenza dell’italiano, acquisita lavorando in un albergo di Rapallo. A Buenos Aires fu scovato da un corrispondente della rivista «Tempo»: senza dissimulare, anche in questa occasione, la sua vera identità. Non accennò alle Fosse Ardeatine, e raccontò invece per filo e per segno come avesse organizzato il trasferimento in Germania di Galeazzo Ciano e di Edda Mussolini, dopo il 25 luglio. Grazie a priebke (si fa per dire) l’incauto Galeazzo si buttò tra le grinfie di Hitler per sottrarsi a quelle di Badoglio. Lo scambio costò a Ciano la morte per fucilazione. Da Buenos Aires priebke si trasferì successivamente a Bariloche, e fu prima inserviente e poi maître in alberghi attigui alle piste di sci. Là visse senza mai trasgredire la legge, rispettato dalla comunità argentina e dalla comunità tedesca. Un paio di volte, nel corso di questa singolare latitanza, venne anche in italia, per periodi di vacanza, sempre con passaporto. E mai una noia.
Per strano che sembri, priebke restò, dal punto di vista giudiziario, ai margini del processo celebrato nel 1948, davanti al Tribunale militare di Roma, proprio contro i responsabili della rappresaglia per l’attentato di via Rasel-la. Era stato citato come testimone, ma a lui si rinunciò perché risultava irreperibile. Non si capisce bene perché sia stato escluso dal gruppo degli accusati: aveva una posizione che non differiva da quella dei cinque suoi «camerati» che, insieme a Herbert Kappler, furono imputati di strage. Il diverso trattamento appare a prima vista inspiegabile, e fu probabilmente dovuto ad una grande confusione e all’essere tutti gli occhi puntati, allora, su Kappler: unico condannato – all’ergastolo – dalla sentenza del tribunale, confermata in appello e in cassazione. I subordinati di Kappler furono prosciolti per avere obbedito a ordini superiori. La conclusione del drammatico dibattimento – trentaquattro udienze – non sollevò proteste Nel darne notizia in una sobria cronaca in pagina interna con titolo su due colonne, il «Corriere della sera» annotava: «La sentenza è stata pronunciata alle 23,15 (del 20 luglio 1948) ed è stata accolta con grida di approvazione dai familiari dei caduti». I giudici – che allora erano tutti militari «veri» – fissarono nelle loro motivazioni alcuni punti fermi: la rappresaglia – 10 ostaggi da sacrificare per ogni soldato tedesco ucciso – era stata feroce ma non estranea alle leggi di guerra; Kappler e i suoi ufficiali erano però diventati assassini comuni quando avevano incluso nella tragica lista cinque ostaggi in più di quelli previsti dal crudele diktat del quartier generale hitleriano (335 erano stati i martiri delle ardeatine, 33 i soldati della Wehrmacht straziati dalla bomba di Rosario Bentivegna). C’era stato un errore nella macabra contabilità, e i carnefici dovevano risponderne.
Tuttavia, lo si è accennato, il crimine venne addebitato a Kappler e non ai suoi sottoposti. È ragionevole supporre che priebke, qualora fosse stato tradotto in giudizio nel 1948, se la sarebbe cavata come gli altri esecutori dello sterminio: non è risultato, né nel processo del 1948 – che addirittura lo ha ignorato nella sentenza – né in quello del 1996 che priebke fosse un vice di Kappler; lui sostiene anzi che nella scala gerarchica una decina d’ufficiali stava sopra a lui. Per una qualche misteriosa inerzia giudiziaria il nome di priebke riaffiorò dalle scartoffie nei primi anni sessanta, ma il giudice militare Giovanni Di Blasi deliberò l’archiviazione «essendo risultate negative le possibili indagini dirette alla identificazione e al rintraccio degli imputati». C’è chi si è scandalizzato per lo scarso zelo con cui ci si dedicò, in quella occasione, alla ricerca di priebke. Se scandalo esiste, riguarda anzitutto un altro nome iscritto nella lista degli imputati irreperibili: è il nome dell’ex maggiore Karl Hass che come priebke sparò a due ostaggi delle Ardeatine, che è sempre vissuto non in Argentina ma in italia, che aveva collaborato con i servizi segreti, che era ben noto sia alla polizia sia alla procura militare, e che è stato portato a Roma dal PM intelisano come testimone, perché accusasse priebke (poi l’ha scagionato e s’è messo nei guai con un tentativo di fuga, ma questa è una delle tante strane appendici dell’affaire).
L’arrivo in Italia di priebke, e la prospettiva d’una inchiesta e d’un processo che rievocassero una delle più fosche pagine dell’occupazione nazista, provocò una tempesta emotiva la cui intensità era direttamente proporzionale alla lontananza dal fatto. Uno spietato macello come quello delle Ardeatine resta scritto in lettere di sangue nella storia d’un paese: non stupisce minimamente, dunque, che i familiari delle vittime – figli, nipoti – abbiano subito invocato la condanna di priebke, e che l’abbiano invocata gli esponenti della comunità ebraica, sia pure con accenti diversi e con le espressioni umane del rabbino toaff: che voleva la condanna alla massima pena seguita però da un atto di clemenza per l’età dell’imputato. L’orrore specifico della strage – in questo collegata all’olocausto – sta proprio nella massiccia presenza, tra i designati alla morte, di ebrei cui null’altro poteva essere addebitato che l’essere ebrei. E neppure stupisce, ma un po’ sconforta per la sua ritualità, lo zelo accusatorio con cui i mezzi d’informazione s’occuparono fin dall’inizio del «caso» priebke, attingendo a piene mani a un lessico truculento e dando per scontato che fosse accettabile un solo esito della vicenda giudiziaria: l’ergastolo a un ultra-ottantenne. Le poche voci che dubitavano sia dell’opportunità dell’estradizione – le valutazioni sui fatti, sugli uomini e anche sui crimini della seconda guerra mondiale spettano ormai, si osservava, agli storici – sia della sensatezza d’un processo in ritardo d’oltre cinquant’anni, ossia al di là del termine di prescrizione previsto da ogni codice del mondo – furono soffocate da un coro indignato. Venne precisato che l’accusa di genocidio in base alla quale priebke era stato portato in Italia – in realtà il reato di genocidio è una creazione del 1967, ma non sono le sottigliezze giuridiche l’aspetto rilevante del «caso» – non è prescrivibile, e che prescrivibili non sono i crimini contro l’umanità: ai quali appartiene, in primis, la persecuzione degli ebrei. Dunque priebke era perseguibile, incarcerabile – unico detenuto di quell’età in una prigione italiana – e condannabile. I congiunti dei trucidati alle Ardeatine ottennero di potersi costituire parte civile – per decisione della corte costituzionale, e benché il codice penale militare non lo prevedesse – e quando il dibattimento ebbe inizio affollarono l’aula spesso inveendo contro l’impassibile imputato: la cui impassibilità divenne, come è regola nelle cronache col cuore in mano, sinonimo di insensibilità. Nello scatenarsi della furia mediatica contro priebke ritrovò piena comprensione – e da parte di alcuni anche incondizionata ammirazione – l’attentato di via rasella, benché non avesse accelerato neppure di un’ora l’arrivo degli Alleati e benché non ne fosse derivato alcun conato insurrezionale. Nella ritrovata ispirazione resistenziale furono trascurati i civili morti a causa della bomba: tra loro un ragazzino di tredici anni, decapitato, ed escluso da commemorazioni intrise di pathos. L’Italia si riscoprì virtuosa nel dare addosso al vecchio priebke, dimenticando che qualche rappresaglia l’avevano perpetrata, in Jugoslavia, anche i reparti del regio esercito, e che terroristi truci, i cui misfatti risalgono a venti o dieci anni fa, sono in libertà o in semilibertà. Ma una dimenticanza ancora più rilevante, dal punto di vista giudiziario, condizionò il processo. Si gridò all’esigenza di conoscere la verità sulle Fosse Ardeatine quasi che la verità non fosse stata cercata, i fatti sviscerati, le responsabilità soppesate nel processo del 1948. Parve che per la prima volta uno dei «carnefici» dovesse render conto del suo crimine, e che per la prima volta i testimoni fossero in grado di raccontare la tragedia. L’appendice tardiva d’un grande e agghiacciante processo sembrò essere essa stessa, in quest’ottica, il grande processo, e priebke non fu più, come gli altri subordinati di Kappler assolti nel 1948, un comprimario – e, intendiamoci, un fosco comprimario – divenne protagonista. A questa logica s’adeguò il PM intelisano che non denunciò come un imperdonabile errore la sentenza di mezzo secolo prima, ma scelse un’altra strada: quella di provare che priebke non era stato un subalterno come gli altri, ma un alter ego di Kappler.
La prova non fu ottenuta, ed era impensabile che potesse esserlo. Se davvero la figura di priebke avesse avuto particolare spicco i giudici del 1948 – che attingevano a informazioni fresche e genuine – non l’avrebbero lasciato ai margini, addirittura scordandosi d’includerlo tra gli accusati. In definitiva l’essenza del processo si ridusse all’interrogativo che già aveva dominato quello di tanto tempo prima: i «boia» aggiunti delle Ardeatine potevano sottrarsi agli ordini di Kappler? Nel 1948 il quesito era stato risolto: no, non potevano perché avrebbero pagato con la vita la loro disobbedienza. È vero che il maggiore Dobbrick, comandante del battaglione Bozen (Bolzano) colpito dall’attentato di via Rasella, aveva rifiutato, per sé e per i suoi uomini, il compito della rappresaglia. Ma era un ufficiale della Wehrmacht, non delle ss. Su questo tema il processo tornò più volte, senza portare certezze, che sono impossibili. Un ufficiale delle forze armate tedesche esibì una lista d’ufficiali che non avevano eseguito gli ordini, e s’erano salvati, dal che si può desumere o che non temessero conseguenze per la loro ribellione, o che avessero tempra d’eroi. Karl Hass dichiarò: «Kappler ci disse che ci avrebbe fatto fucilare» (se non avessimo partecipato all’eccidio). Questo maggiore Hass che era radicato, come s’è accennato, in italia, e che s’era fratturato una gamba in un tentativo di fuga dall’albergo in cui il dottor intelisano lo ospitava in attesa della testimonianza, ha detto senza ambiguità d’avere anche lui sparato a due ostaggi: il che lo ha posto sullo stesso piano di priebke; ma è singolare che la cosa non abbia fatto scalpore né suscitato invocazioni di «ergastolo, ergastolo». Per misteriosi motivi di psicologia collettiva interessava solo priebke.
Il P? intelisano e gli avvocati di parte civile lamentarono a più riprese che il ritmo del dibattimento fosse troppo sbrigativo. Il presidente era animato, si può supporre, dal desiderio di non ripercorrere sterilmente itinerari di prova già battuti – e con ben altra possibilità di trovare tracce attendibili – nel 1948, l’accusa voleva invece una replica accanita anche su episodi – ad esempio le brutalità che priebke avrebbe compiuto in via Tasso, dov’era il comando romano delle ss – che nel 1948 erano ancora reati punibili, e che non lo erano più nel 1996. Furono avanzate istanze di ricusazione del tribunale perché due dei giudici avevano anticipato in conversazioni private, secondo intelisano e secondo gli avvocati di parte civile, il loro punto di vista, e le anticipazioni annunciavano un’assoluzione. Le ricusazioni furono respinte: ma il presidente Agostino Quistelli, il giudice Bruno Rocchi e il capitano medico sabatino De Macis arrivarono al momento della sentenza con un marchio di sospetto se non d’infamia. Si temeva – e gli addetti ai lavori lo davano per certo – che priebke sarebbe stato con un qualche espediente legale rimesso in libertà. Il cronista Dino Martirano aveva scritto sul «Corriere della sera» che «Il tribunale potrebbe scegliere (tra assoluzione ed ergastolo) una terza via che manterrebbe la condanna ma allo stesso tempo consentirebbe la scarcerazione di priebke». Analoghe considerazioni erano state fatte da tutti gli altri quotidiani: il che appanna la genuinità del grido di dolore con cui, letta la sentenza, si lamentò la sconvolgente sorpresa.
Nel pomeriggio del 1˚ agosto 1996 Quistelli lesse il dispositivo della sentenza (uno dei giudici aveva fatto verbalizzare, in camera di consiglio, il suo dissenso). Priebke veniva riconosciuto colpevole di omicidio plurimo, ma le aggravanti erano considerate equivalenti alle attenuanti, il che escludeva la condanna all’ergastolo, faceva scattare i termini della prescrizione e apriva all’ex capitano delle ss le porte del carcere. Ciò che seguì fu indegno d’un paese civile. La folla tumultuante – d’ebrei e di non ebrei – assiepata nell’aula e nei corridoi strinse d’assedio sia priebke sia i giudici sia i carabinieri di servizio. Quistelli, Rocchi e De Macis furono costretti a rimanere chiusi per lunghe ore in un locale, e a servirsi di bottiglie per dar sfogo a qualche bisogno fisiologico. Mentre infuriava la canea contro il bieco Quistelli cominciavano a mobilitarsi i politici, ansiosi d’esprimere il loro sdegno, e il sindaco di Roma Rutelli accorse per annunciare che avrebbe fatto spegnere, in segno di lutto, le luci dei monumenti. Nessuna autorità si preoccupò della dignità e dell’incolumità dei giudici d’un tribunale accerchiati e insultati dalla folla, nessuna autorità dichiarò che la sentenza doveva essere rispettata. Silenzio totale, quel giorno e i successivi, anche da parte del consiglio superiore della magistratura. Anzi da più parti sarà chiesta l’abolizione dei «giudici con le stellette», ritenuti secondo ogni evidenza inaffidabili. Giuliano vassalli, che in via Tasso era stato detenuto, osservava in controtendenza che il tribunale militare del 1996 era stato più severo di quanto fosse stato il tribunale militare del 1948.
Abbiamo lasciato i giudici accerchiati, e una folla di dimostranti risoluta a non desistere dall’assedio. Nella notte il ministro della Giustizia Flick raggiunse la sede del tribunale: non per portare con sé un consistente nucleo di forza pubblica e per liberare Quistelli e gli altri; disinteressandosi invece di loro si limitò ad incontrare il PM intelisano. Dopodiché, sudato e impacciato, annunciò alla folla («per rasserenare gli animi») che la polizia aveva emesso contro priebke un nuovo ordine di custodia cautelare essendo pendente a suo carico una richiesta d’estradizione della Germania. Vi fu un boato di soddisfazione, la sentenza era stata vanificata, dunque giustizia era fatta.
Questa volta la gherminella politica che compiaceva gli umori popolari era di grana così grossa – tanto più che l’aveva escogitata un esperto di diritto – che anche a sinistra molti ne furono turbati. Il presidente della commissione giustizia della camera Giuliano pisapia (Rifondazione comunista) dichiarò senza mezzi termini che «anche se quella sentenza ha trovato unanimi nella critica le forze politiche l’operatore del diritto non deve mai accettare decisioni che derivano dall’esigenza di soddisfare l’opinione pubblica». L’avvocato pietro Nicotera, patrono di parte civile nel nome d’alcuni congiunti di vittime delle Ardeatine, era scosso anche lui: «Abbiamo sistemi più dignitosi per poter fare effettivamente giustizia ed il più limpido è quello dell’appello avverso la sentenza». Giovanni Maria Flick s’era piegato al clamore delle proteste, e il difensore di priebke, avvocato velio Di Rezze, annunciava una denuncia contro di lui per «sequestro di persona».
Le dichiarazioni con cui Flick volle replicare alle critiche erano tutto fuorché convincenti. Egli negò che nelle ore in cui il tribunale era stretto d’assedio, vi fossero stati contatti febbrili con la Germania e l’Argentina per rendere operante l’ingranaggio dell’estradizione, e così legittimare il riarresto voluto a furor di popolo. «La polizia giudiziaria» dichiarò «mi aveva sottoposto preventivamente il problema di impedire la fuga di priebke in caso di scarcerazione. Io ero talmente convinto dell’esistenza di questo pericolo che l’indomani mattina, all’apertura della corte d’appello, sarei andato a chiedere che si procedesse per evitarlo, trovandoci in presenza di una richiesta d’estradizione.» Gli autori di questo libro che non sono, diversamente dal professor Flick, dei giuristi, vedono in questa tesi clamorose incongruenze. Punto primo (che non è sostanziale, ma ha la sua importanza): in un sistema giuridico che si vanta d’offrire all’imputato ogni garanzia, è possibile che né l’imputato stesso né il suo difensore sappiano che un’assoluzione non porterebbe alla liberazione, e che tutti i mezzi d’informazione lo ignorino egualmente, cosicché a sentenza pronunciata la scarcerazione di priebke era considerata sicura? Non dovrebbe essere dato, all’imputato e al suo difensore, un qualche avviso? Flick citò addirittura, a sostegno della sua tesi, i preparativi che l’avvocato Di Rezze aveva fatto per il trasferimento di priebke una volta uscito dal carcere, quasi che fossero illegali. Punto secondo (e questo è sostanziale): nonostante tutte le arrampicate sugli specchi tentate dai tifosi di Flick, risulta chiaro che la richiesta d’estradizione riguarda la strage delle Ardeatine. Ebbene: è anche remotamente pensabile che la giustizia d’un paese sovrano ammetta di consegnare alla giustizia d’un altro paese un imputato sul quale si è già pronunciata, e per i reati su cui si è pronunciata, assolvendo? punto terzo: quand’anche si volesse seguire questo criterio stravagante, non sarebbe equo lasciare che la propria giustizia confermasse o modificasse, in appello e in cassazione, la sentenza di primo grado? purtroppo proclami e anatemi politici, a cominciare da quello di scalfaro, hanno dato via libera a una giustizia di piazza, in soccorso della quale sarebbero poi stati sfoderati tutti i cavilli in cui i dottori sottili sono maestri. E allora la cassazione, cui si era chiesto di pronunciarsi sul garbuglio di Flick, se l’è cavata passando la patata bollente alla corte costituzionale; c’è stato un palleggiamento del caso tra magistratura ordinaria e magistratura militare, ha vinto – o perso – la magistratura militare che s’è ritrovato priebke tra i piedi. Così dopo tanti zig zag giudiziari, e dopo che a priebke erano stati concessi gli arresti domiciliari – da trascorrere nella pace d’un convento – si arrivò al processo bis: con nuovi giudici, un nuovo difensore (l’onnipresente professor carlo Taormina), un imputato aggiunto (Karl Hass) e lo stesso PM, Antonino intelisano. L’atmosfera del dibattimento, pressoché ignorato dall’opinione pubblica, era meno tesa. Priebke ripeté in una lunga dichiarazione – 24 giugno 1997 – che non poteva sottrarsi all’ordine di strage («Kappler fu irremovibile, l’ordine veniva direttamente da Hitler, chi si rifiutava sarebbe stato mandato al Tribunale delle ss»); ripeté inoltre che in mezzo secolo non aveva mai nascosto la sua identità. «Nel 1993» disse «cenai con gli eurodeputati Gerardo Gaibisso e carlo casini nella sala dell’Associazione italiana di Bariloche.» priebke, rispettato notabile della località, era tra i promotori dell’incontro. «scambiai con lui poche parole di circostanza» ha ammesso carlo casini «ma non sapevo chi fosse.»
Il 22 luglio 1997 la replica processuale giunse a conclusione con una sentenza che era anche un capolavoro d’alchimie cavillose. Sia priebke sia Hass venivano condannati per omicidio plurimo, quindici anni al primo, dieci al secondo: per priebke l’entità della pena era inferiore a quella decisa da Quistelli (ventiquattro anni). Senonché Quistelli aveva ritenuto che scattasse, in favore dell’imputato, la prescrizione. Luigi Maria Flamini (il nuovo presidente) e gli altri giudici del secondo processo hanno stabilito invece che la strage delle Ardeatine era un crimine contro l’umanità, come tale imprescrittibile. A entrambi gli imputati sono stati condonati dieci anni, il che equivaleva per Hass all’immediata liberazione, e per priebke a una liberazione ritardata quel tanto che bastava per salvare la faccia. I difensori lamentarono che la prescrizione fosse stata negata in base a norme successive al reato, con violazione palese d’un pilastro del diritto. Priebke annunciò – ultima nota infausta – che avrebbe scritto un libro autobiografico: né è difficile immaginare la presenza e le insistenze, dietro di lui, d’un volonteroso ghost writer.
Proprio il giorno (27 giugno 1997) in cui intelisano chiese per la seconda volta la condanna all’ergastolo di priebke (ventiquattro anni per Hass) via Rasella era tornata anche per altra via agli onori (dubbi) delle cronache. I familiari di chi, italiano, era stato straziato dalla bomba avevano chiesto l’incriminazione degli attentatori: che non erano stati mossi, si sosteneva, né da motivazioni patriottiche né da serie esigenze militari; che sapevano quanto terribile sarebbe stata la reazione di Hitler. E forse speravano che la rappresaglia falcidiasse – come in effetti avvenne – il gruppo clandestino di Bandiera rossa, eretico e concorrente dei GAP comunisti. Per il PM vincenzo Roselli la denuncia mancava di solide basi, e l’attentato rientrava comunque tra gli episodi coperti mezzo secolo prima da amnistia. A conforto di Roselli stava il fatto che gli attentatori erano stati scagionati già in precedenti e remoti processi. Ma il Gip Maurizio pacioni è stato di diverso avviso, ed ha deciso di approfondire l’ipotesi che Rosario Bentivegna, carla capponi e i loro compagni avessero compiuto un illegittimo atto di guerra, e fossero stati essi stessi «Illegittimi belligeranti». Furibonde le reazioni nell’universo partigiano e in tutta la sinistra. Siamo contrari – lo ribadiremo nel sèguito di questo capitolo – a questa chirurgia giudiziaria esercitata, con accanimento necrofiliaco, su tombe coperte dalla polvere del tempo. Senza dubbio gli italiani morti per la bomba non hanno meritato né attenzione né cordoglio né le medaglie al valore concesse a Bentivegna e alla capponi: anzi s’è negato a lungo che vittime civili ce ne fossero state. Il che non costituisce tuttavia ragione sufficiente per aprire fascicoli processuali inutili: come questo per via Rasella, come quello di priebke. La parola è passata alla storia, e nella prospettiva storica il «revisionismo» – termine cui s’è voluto dare un significato deteriore – è non solo lecito ma doveroso. Il resto è strumentalizzazione politica.
Di tale strumentalizzazione s’era avuta una prova lampante quando sulla scia del «caso priebke», e con un intento commemorativo che ai crimini del nazismo era strettamente connesso, un consigliere comunale pidiessino di Roma, victor Magiar, aveva avanzato la proposta d’un «luogo della memoria di coloro che, nel corso di questi duemila anni, sono caduti sotto i colpi delle violenze religiose, etniche, ideologiche e sociali». All’iniziativa di Magiar si associò, in una lettera aperta indirizzata al sindaco Rutelli, una quarantina di intellettuali e politici della sinistra. L’idea, riconobbero in molti, era nobile, ma occorreva precisare quali stermini meritassero, per le loro dimensioni e le loro caratteristiche, d’essere ricordati nel museo: e su questo tema fu imbastito un dibattito acceso e disordinato, durante il quale Magiar sentenziò che insieme alle vittime del nazismo potevano figurare nel «luogo della memoria» «tutte le culture minori fatte sparire da quelle egemoni, dagli indiani d’America agli ugonotti»; Luca zevi della comunità ebraica romana si dichiarò disposto a includervi «Il genocidio degli Armeni e quello dei curdi»; Roberto vacca si chiese perché non ci si occupasse allora dei Tasmaniani, «popolazione molto poco interessante, sterminata alla fine del secolo scorso, che non ha lasciato nessuna traccia di civiltà, vestiva con pelli di canguro e non conosceva neppure i cibi cotti, ma solo affumicati». Ma queste erano divagazioni sofisticate fino alla stravaganza. In buona sostanza la polemica si ridusse a un solo quesito: gli orrori delle foibe potevano o no essere associati – per la loro efferatezza – a quelli dell’olocausto, e gli stermini del comunismo erano paragonabili agli stermini del nazismo?
Le foibe – dal latino fovea (fossa) – sono depressioni profonde anche decine di metri, e a forma di imbuto, che la natura ha creato nei terreni carsici del confine orientale italiano. Le foibe divennero, tra la fine del 1943 e tutto il 1945, le tombe di sventurati che i partigiani di Tito, a volte con la volonterosa collaborazione di partigiani comunisti italiani, misero a morte perché fascisti, o perché sospetti di fascismo, o semplicemente perché italiani. È impossibile accertare il numero delle vittime, ma di sicuro furono nell’ordine delle decine di migliaia. Solo di rado esse venivano prima fucilate e poi infoibate. Spesso le vittime finivano nell’abisso quando respiravano ancora. La furia dei persecutori era feroce: vi furono uomini evirati e accecati, donne stuprate. Qualcuno venne legato ai cadaveri d’altri «giustiziati» con filo spinato, e gettato vivo nei crepacci. Un PM romano, Giuseppe pititto, aveva avviato qualche anno fa un’inchiesta su questi scempi, e identificato due presunti responsabili, ivan Matika (un giudice titino che avrebbe mandato a morte migliaia d’italiani) e oskar piskulic, già capo della polizia segreta di Tito a Fiume. Pititto aveva chiesto che a carico dei due fosse emesso un ordine di cattura internazionale, e di conseguenza iniziata una procedura d’estradizione. Il Gip Angelo Macchia non fu tuttavia d’accordo, per due motivi. Il primo è che l’eccidio avvenne in territori che non appartengono più allo stato italiano (ma non è in corso un’inchiesta giudiziaria promossa dalla procura di Roma contro i colpevoli della morte di desaparecidos con passaporto italiano in Argentina, ossia piuttosto lontano, e senza dubbio fuori dai confini nazionali?); il secondo è che gli indagati erano entrambi al di là degli ottant’anni e il codice prevede l’arresto degli ultrasettantenni solo se lo richiedono circostanze «di particolare rilevanza». Nelle carte di pititto figurava anche il nome del partigiano comunista Mario Toffanin («capitan Giacca») che era stato condannato all’ergastolo per aver fatto uccidere ventidue partigiani «bianchi» della brigata osoppo, e che, graziato da pertini nel ’78, vive ora in slovenia e percepisce, al pari di tanti altri «titini», una pensione mensile dell’INPS.
Quando la faccenda del museo s’incentrò sul parallelo tra le Fosse e le Foibe – la «nevrosi comparativista» che non piace a Gad Lerner – fu chiaro che quasi nessuno aveva l’animo sgombro da preconcetti. Non lo aveva ste-fano Rodotà il quale sottolineava che gli italiani avevano compiuto atti di guerra anche atroci in Jugoslavia (il che secondo lui legittimava in qualche modo così la spaventosa risposta delle foibe) e poi aggiungeva: «ci sono differenze enormi tra uno sterminio e un altro. Nell’olocausto c’era un programma scientifico di sterminio d’un popolo e d’una razza. Le foibe sono state orribili, è vero, ma sono manifestazioni di brutalità di tipo militare, come ne abbiamo avute tante nella storia. Sono sbalordito dal fatto che negli ultimi tempi, per motivi polemici di tipo culturale, si metta tutto sullo stesso piano, tutto sotto un’unica etichetta. In questo modo c’è il rischio che non si possa più condannare o assolvere nessuno». In realtà la logica di Rodotà porta a una deduzione obbligata: scartato uno sterminio perché era brutalità militare, scartato un altro perché non mirava all’eliminazione d’un popolo e d’una razza, l’unico sterminio che valga veramente la pena di condannare è l’olocausto: semmai aggiungendoci l’eliminazione degli indiani d’America. Si può convenire con Rodotà sulla connotazione unica – per la sua implacabile e mostruosa coerenza – dell’antisemitismo nazista. Riconosciuto questo, vien fatto peraltro di chiedersi se ne vengano riabilitati stalin, pol pot, e i massacratori delle foibe. La voglia di sangue di stalin – a volte sistematica e a volte erratica, ma appagata da milioni di morti – ha attenuanti? Ne ha la furia sterminatrice di pol pot, che non dava la caccia agli ebrei ma faceva ammazzare chi portasse gli occhiali, perché borghese e nemico del popolo? Queste osservazioni riguardano i leader dell’orrore. Se poi ci si riferisce agli esecutori e in generale agli assassini «politici» la tesi di Rodotà e di chi ragiona come lui diventa ancora più fragile. L’ideologia nazista si tradusse, non c’è dubbio, in crimini contro l’umanità. Ma lo stesso può dirsi per gli atti compiuti da ogni subordinato dell’immane macchina hitleriana di guerra e di repressione? priebke, che partecipò a una rappresaglia impostagli, fu più disumano degli infoibatori e anche, per essere chiari, dei terroristi che in tempo di pace, non per ritorsione a un attentato né per obbedienza agli ordini ma per obbedienza ad un fanatismo cieco feroce e sciocco abbatterono i cinque uomini della scorta di Moro e poi abbatterono lo stesso Moro? sono domande inquietanti, alle quali la sinistra aveva voluto rispondere durante il processo priebke con una verità assoluta (da corroborare allestendo il museo degli stermini): e la verità per la sinistra è che il nazismo fu il male assoluto, e il comunismo fu una speranza benintenzionata anche se fallimentare, con qualche episodio di «brutalità». Per le foibe c’è stato chi nel PDS, a Roma e a Trieste, ha fatto una leale e onesta autocritica (in particolare Luciano violante); e ammesso che era stata operata una tenace «rimozione» di quelle pagine (così come della mattanza di fascisti o pseudo fascisti o non fascisti che seguì la Liberazione, e che fece più di diecimila vittime, secondo calcoli prudenti). Ma altri esponenti della sinistra hanno mantenuto una posizione intransigente, o reticente, e demonizzato come «revisionismo» oltraggioso (ma cosa significa?) ogni opinione dissenziente. Ad essi è stata rivolta la critica di Ernesto Galli della Loggia sul «Corriere della sera»: «La memoria cancellata delle foibe» ha scritto Galli della Loggia «è la prova che la sinistra italiana fino ad oggi non è stata capace di misurarsi con la morte politica di massa somministrata in questo secolo dal comunismo... Se le Fosse Ardeatine – come è stato scritto – sono un tassello dell’olocausto, di cosa sono state un tassello le fosse di Katyn? i quindicimila ufficiali polacchi prigionieri freddati con un colpo alla nuca dalla polizia sovietica che portata storica hanno? La loro morte possiede un qualche significato ai fini di una valutazione storica e ideologica del comunismo, o invece essa è da addebitare solo al misterioso capriccio omicida d’un tiranno?».
Con i suoi addentellati e i suoi strascichi il processo priebke ha avuto l’imprevedibile effetto di evocare una folla di fantasmi, le vittime di stermini diversi ma eguali nell’atrocità: con l’incombere di tanti testimoni muti è rimasto un minor margine per ipocrisie e dimenticanze. L’Italia s’è trovata a dover fare i conti con i passaggi più tragici della sua storia di questo secolo, e li ha dovuti fare, alla fin fine, senza la protezione delle verità di comodo, e senza più le gerarchie ufficiali dei morti di prima classe e dei morti di seconda. Forse, tutto sommato, a qualcosa quel processo assurdo e inutile è servito.