CAPITOLO SESTO

COME SISTO V

I conti pubblici e i posti di sottogoverno: questi i primi assilli di Prodi. Erano stati anche i primi assilli di Berlusconi: e l’ulivo seguì il (cattivo) esempio del cavaliere dando la precedenza – non dichiarata s’intende – all’occupazione delle poltrone importanti. Lo spoil system, che assegna i trofei di guerra al vincitore, è una caratteristica delle democrazie in cui vige il bipolarismo, della statunitense in particolare. Se alla casa Bianca un democratico rimpiazza un repubblicano – o viceversa – è scontato, e pacificamente accettato dai cittadini, che un notevole numero d’incarichi ruotanti attorno all’esecutivo passi di mano: inclusi i titolari d’alcune ambasciate di rango. Così si fa, per tacita e consolidata convenzione, e così si dice. In Italia si fa ma non si dice: o meglio si dice d’aver proceduto ai cambiamenti non per conquistare posizioni di potere e lenire le pene di qualche trombato delle elezioni, ma per collocare gli uomini e le donne giusti ai posti giusti. Nella gerarchia dei posti quelli della RAI sono per tradizione pluridecennale i più vigilati dal palazzo. Nel mondo della comunicazione e dell’immagine – che è il mondo in cui viviamo – un conduttore di telegiornale che legge notizie scritte da altri, o un frequentatore assiduo di talk show conta più d’un premio Nobel. La RAI era stata sempre molto desiderata dai partiti – e da alcuni posseduta – durante i decenni dell’egemonia democristiana e poi del consociativismo: in forza del quale le tre reti erano state lottizzate, la prima alla DC, la seconda al psi, la terza al PCI.

L’irruzione sulla scena elettronica dei privati, e poi l’insediamento di Berlusconi a palazzo chigi, avevano rivoluzionato un assetto nel quale dirigenti e giornalisti della televisione di stato, muniti di solide credenziali partitiche, s’erano crogiolati a lungo, i più con scarso o nullo apporto lavorativo all’azienda. Per l’avvento del cavaliere s’erano sprecati i gridi di allarme su una mainmise totalizzante dell’informazione televisiva. Non erano allarmi campati in aria. Se il presidente del consiglio era nel contempo il proprietario dei più importanti «canali» privati si delineava una situazione orwelliana di plagio della pubblica opinione. La designazione del consiglio d’amministrazione della RAI spettava ai presidenti della camera e del senato, non all’esecutivo, ma questo contava poco se – diversamente da quanto era avvenuto nell’ultima fase della prima Repubblica – tutte e due le poltrone venivano assegnate alla maggioranza. Era stato il caso di carlo scognamiglio e di irene pivetti. La sindrome orwelliana risultò meno insidiosa di quanto si potesse temere perché a palazzo chigi Berlusconi rimase pochi mesi, perché gli antichi fortilizi della RAI avevano munite difese sindacali e corporative – gli uomini del centrodestra non riuscirono mai ad aprirvi ampie brecce – e perché una società democratica, se non è travolta dal conformismo, ha in sé validi anticorpi contro una omologazione prepotente. Proprio nella Fininvest – poi Mediaset – s’erano infatti accasati professionisti di vaglia come Maurizio costanzo che non lesinavano le professioni di fede progressista e che non mancavano un convegno dell’ulivo: il che è stato da alcuni lodato come prova di fiera indipendenza e da altri considerato prova di raffinato opportunismo (comunque vadano le cose si è dalla parte vincente).

Con il polo la presidenza del consiglio d’amministrazione era toccata a Letizia Moratti, donna-manager che sapeva far quadrare i bilanci e che li fece quadrare anche alla RAI, dopo una serie di conti in rosso. I suoi avversari l’accusavano d’avere svuotato i magazzini dei programmi – che sono il capitale d’una televisione – per risanare l’azienda. Può essere. Con lei era però cambiata la «filosofia» della gestione. La RAI era un’impresa gratificata del canone che proprio per questo privilegio doveva onorare determinati impegni istituzionali, ma era anche un’impresa che doveva far profitti. È una filosofia che, applicata ad una televisione non monopolistica, ha i suoi inconvenienti. La concorrenza non migliora la qualità, l’abbassa, perché il pubblico – con rare eccezioni – premia la banalità e la volgarità: e penalizza la qualità. Si ha così la tirannia dell’audience, ossia dei contratti pubblicitari. Ma non è colpa della televisione, è colpa di chi la guarda, e sceglie. Le nomine dei direttori di rete e di telegiornali deliberate dal CDA della Moratti furono con ragione criticate. Basterà citare l’estromissione dal vertice del tg1 di Demetrio volcic: non solo una prevaricazione, ma un errore. È curioso che il successore di volcic, carlo Rossella – marchiato come berlusconiano di ferro – abbia poi lasciato il tg1 per passare alla carta stampata, ma non nelle riserve del cavaliere: gli Agnelli gli affidarono la guida della «stampa» lasciata da Ezio Mauro.

Vita nuova alla RAI, dunque: o vita vecchia. Letizia Mo-ratti se n’era andata in anticipo, sbattendo la porta, com’era nel suo carattere, anzi nel suo caratteraccio, e l’interim della presidenza era stato assunto da Giuseppe Morello, anziano giornalista di palazzo. Toccava a Mancino e a violante – e di nuovo si aveva un’accoppiata di maggioranza – d’indicare i componenti del CDA ulivista. Se volevano marcare la differenza tra le due gestioni, i presidenti delle camere ci riuscirono alla perfezione. I cinque saggi di loro scelta furono Enzo siciliano, Fiorenza Mursia della dinastia editoriale, l’imprenditrice Federica olivares, la regista Liliana cavani e il costituzionalista Michele scudiero. L’ex presidente della corte costituzionale Francesco paolo casavola rimpiazzava Giuseppe santaniello come garante del sistema di comunicazione italiano. Secondo qualche malalingua doveva entrare nel CDA non Fiorenza Mursia ma la madre Giancarla, senon-ché per un errore l’invito era stato recapitato alla figlia, che un po’ sorpresa aveva accettato. Fosse vera o no questa diceria, certo è che la rappresentanza femminile era forte, benché orbata della presidenza: che spettò invece a Enzo siciliano, un letterato morbido – anche fisicamente – dopo Letizia, la donna d’affari il cui viso ricordava una scultura (autentica) di Modigliani.

Forse la sola propensione per l’ulivo – con un appello alla «nuova Resistenza» dopo la vittoria di Berlusconi e un brindisi gioioso a Botteghe oscure la notte della rivincita – non sarebbe bastata per procacciare a siciliano il prestigioso incarico. Militava in suo favore un’altra importante circostanza: da sempre siciliano odiava la televisione «attraverso la quale si sta demolendo ogni forma di cultura in italia». L’affermazione di siciliano è più che fondata, e il suo disprezzo per il piccolo schermo trova molti consensi: ma si sarebbe potuto ritenere che queste posizioni severe sconsigliassero di prendere in considerazione il suo nome per la guida della RAI, e inducessero lui a un rifiuto, se la guida gli fosse stata offerta. È andata invece in altro modo. Alle nomine stupefacenti l’ulivo ha del resto preso gusto. Il nemico della televisione alla RAI: e l’insediamento alla presidenza dell’ENEL d’un verde di sinistra come chicco Testa, snobbino e furbo, che delle polemiche contro l’ENEL aveva fatto la sua principale attività. La nomina era, per usare un eufemismo, imprevedibile. Eppure anche quella toccò agli italiani di vedere. La designazione di siciliano – al pari dell’altra di Testa – poteva dunque rientrare nella logica del paradosso, speriamo non ci capiti mai di vedere un Totò Riina redento, e disponibile a essere capo dell’Antimafia. Ma riteniamo che lui non accetterebbe, per coerenza.

Siciliano, sessantatré anni compiuti e portati piuttosto bene, era in realtà romano di nascita. Considerava però questo suo dato anagrafico «del tutto trascurabile da un punto di vista letterario». Non trascurabili erano altri dati della sua biografia. Come scrittore aveva attraversato «I territori del romanzo, del teatro, del cinema, della poesia». Nelle stanze di «Nuovi Argomenti», la rivista da lui diretta e fondata da Alberto Moravia, «ha assistito» ricordava pierluigi Battista sulla «stampa» «al passaggio di almeno tre generazioni di scrittori incarnando il ruolo del più giovane nella prima, del fratello maggiore nella seconda, del padre premuroso nella terza». I suoi numi tutelari furono Moravia e pier paolo pasolini, del leggendario clan moraviano era un fedelissimo, i suoi ricordi sono affollati di nomi citati affettuosamente e colloquialmente senza cognome, Dacia, Laura, Natalia, Elsa (Maraini, Betti, Ginzburg, Morante). Per l’onnipresenza mondana sergio saviane gli aveva affibbiato un perfido «salotto continuo», altri l’aveva annoverato tra gli «Enzi inutili». Ma lui navigava sicuro nel mare delle patrie lettere, otteneva premi e riconoscimenti di rango, come la direzione del fiorentino Gabinetto vieusseux. Tra i suoi bersagli polemici erano gli storici revisionisti e la piccola borghesia: «un ceto ribelle alla grande imprenditoria che considera nemica per invidia sociale, un ceto sprezzante verso i ceti operai». Aveva ed ha di se stesso un’opinione altamente lusinghiera: della televisione esecrata salvava il programma Settimo giorno, andato in onda tra il ’73 e il ’75, che portava la sua firma. Anche nell’universo di sinistra c’era gente che gli stava molto antipatica come Angelo Guglielmi, già direttore della terza rete RAI: «Guglielmi dice con schiettezza notevole quello che pensa: sarebbe assai più lodevole se pensasse talvolta quello che dice». Secondo carmen llera, la vedova di Moravia, «Moravia gli avrebbe consigliato di scappare» (quando venne nominato presidente della RAI).

Siciliano se n’è guardato bene, ed ha resistito con olimpica calma alla caterva di critiche e d’ironie riversatasi su di lui. Non l’ha troppo scosso nemmeno una gaffe dei primi giorni. Essendogli stato citato Michele santoro (il guru delle piazze che meditava una clamorosa fuga dalla RAI, poi realizzata) aveva ribattuto soave: «santoro chi?». Da allora in poi era stato più cauto: e si era trincerato nei buoni propositi dell’intellettuale impegnato, voleva una televisione per il popolo che tuttavia aiutasse il popolo ad elevarsi, un’informazione obiettiva che non dimenticasse gli obiettivi sociali e l’impegno antifascista consacrato dalla costituzione, un tasso ragionevole di divertimento spettacolare che non scadesse nella volgarità. Nei telegiornali non avvenne nessun terremoto: piuttosto una tranquilla normalizzazione. Al Tg1 – dopo una breve parentesi del poco controllabile Rodolfo Brancoli – era andato Marcello sorgi, che di controllo non ha bisogno perché se lo sa imporre da solo, al Tg2 era rimasto clemente Mimun (una concessione a Berlusconi, si disse), al tg3 era finita un’eccellente giornalista che era anche, si scoprì, una bravissima conduttrice, Lucia Annunziata: fisico da casalinga ingrugnata, volontà ferrea, intelligenza viva. Le conversioni dei socialisti che nella RAI erano acquartierati furono – tranne pochi casi che i colleghi giudicavano pietosi per ingenuità e intempestività – massicce e rapide. I caudatari instancabili di Bettino craxi dimenticarono in un batter d’occhio d’averlo conosciuto.

Con l’accennato passaggio di Michele santoro a Mediaset e con la temporanea migrazione di sandro curzi nei possedimenti di cecchi Gori s’era accentuato – o piuttosto era diventato più visibile per l’impatto della televisione – un fenomeno che merita qualche considerazione: ossia la consegna di molti importanti timoni della comunicazione – sia in casa RAI sia in casa Mediaset – a esponenti della sinistra, e il più delle volte della sinistra estrema. Lotta continua e il comunismo ortodosso o eretico avevano allevato i vari Lerner, santoro, Annunziata, curzi, Giuliano Ferrara, perfino il paolo Liguori di Studio Aperto (e nella carta stampata le cose non andavano in modo molto diverso). Le vistose eccezioni – Enzo Bia-gi, Bruno vespa, sergio zavoli – confermavano la regola. Il crollo del comunismo e delle utopie che ne erano derivate sfociava in una straordinaria rivalutazione professionale di chi quell’ideologia e quelle utopie aveva professato e strenuamente propagandato. Non è agevole spiegare perché questo sia avvenuto, ma qualche idea possiamo suggerirla. Va anzitutto riconosciuto che gli affermati e gli emergenti sono di prim’ordine, per creatività e per capacità di lavoro. Ma c’è qualcosa di più generale. La politicizzazione totale di quelle fucine che erano il pci, l’«unità», Lotta continua e le pubblicazioni «rivoluzionarie» addestrava al comizio, alla dialettica, allo scontro di idee, al rapporto con gli interlocutori. Quei giovani di sinistra leggevano e studiavano, sia pure per sostenere delle balordaggini, i giovani di destra s’accontentavano in generale di poche – e poco conta che alcune fossero solide e magari vere – idées reçues. La sinistra attribuiva un ruolo di primo piano ai mezzi d’informazione: aiutata in questo da una fitta rete di docenti «progressisti» nelle scuole superiori e nelle università. Non risfoderiamo volentieri l’annoso argomento dell’egemonia culturale di sinistra, eppure proprio di questo si tratta: per merito della sinistra e per demerito dei moderati. La sinistra che sbagliava tutte le diagnosi creava tuttavia una sua «scuola» intellettuale e culturale che è stata in grado, al momento opportuno, di riciclarsi lestamente in un contesto che invece avrebbe dovuto annientarla. Quanto è avvenuto nei territori della cultura è abbastanza parallelo a quanto è avvenuto nel territorio della politica vera e propria. Per stravagante che sembri, la spavalda sfida della sinistra ai moderati («noi avevamo ragione d’aver torto, e voi avevate torto d’aver ragione») trova scioccanti conferme nella realtà.

La legge sull’emittenza televisiva, approvata definitivamente nel maggio del 1997, sanciva la spartizione dell’etere tra due imperi, quello della RAI e quello berlusconiano, con una fetta per cecchi Gori e modeste interferenze delle televisioni private. All’approvazione delle nuove norme si era arrivati con l’astensione benevola del polo, solo la Lega aveva votato contro: e questo la dice lunga sulla sottigliezza del compromesso elaborato dal ministro maccanico. Si doveva dare definitiva attuazione alla sentenza della corte costituzionale che, nel nome della pluralità e della concorrenza, riteneva eccessivo il possesso di tre reti nazionali da parte della RAI e di Mediaset. Il principio veniva accolto, e la sua applicazione affidata ad una delle authority che sono diventate i giuocattoli prediletti del palazzo, e che hanno consentito un’ennesima distribuzione di poltrone lucrose. Ma l’ipotetica scure dell’authority era frenata da tali e tante cautele che sia i monopolisti di stato sia i monopolisti privati potevano dormire sonni tranquilli. Le verifiche erano rinviate a successivi appuntamenti, in vista dei quali Maccanico non si sarebbe fatto trovare impreparato. Una soluzione che accontentasse tutti la trovava sempre. Quest’universo pacificato – per quanto riguarda le grandi battaglie – e insieme percorso da incessanti risse, somigliava sempre più all’universo calcistico: per lo spazio che ai detti e ai fatti delle star veniva dedicato dai quotidiani, per il saltabeccare delle star stesse da una squadra all’altra, per il turbinio di miliardi, per gli scandali.

I «grandi» dell’intrattenimento – che in altri tempi avrebbero battuto le onorate tavole dell’avanspettacolo, campando alla meno peggio – erano perennemente all’asta, e alcuni «grandi» del teatro vero (ma ne restano pochi) erano in disarmo. Imperavano gli sponsor, ossia le aziende che finanziavano con il loro apporto pubblicitario i programmi. Attorno ai nomi di maggior richiamo ruotavano interessi enormi, con società aventi sede in qualche paradiso fiscale, e proventi in nero. La giustizia – poteva rimanere estranea? – indagò sui favori che alcune vedette elargivano, non disinteressatamente, agli sponsor. Se durante una trasmissione doveva essere reclamizzato un prodotto, la vedette poteva farlo con aria distratta e annoiata o mettendoci, del suo, un sorriso e un ammiccamento complice. Il tutto retribuito sottobanco, ed esentasse. Alcuni tra gli indagati confessarono e patteggiarono. I telespettatori li perdonarono, ci vuol altro ormai per indignarli. Quasi non bastasse s’era avuta anche una inchiesta, promossa dal PM di Biella Alessandro chionna, sui «provini a luci rosse», ossia sui tormenti (molto dubbi) di aspiranti vallette e attricette che per ingraziarsi chi poteva lanciarle s’erano rassegnate a prestazioni sessuali. Tra gli artigli della legge finì un notissimo imitatore e fantasista, Gigi sabani, per qualche tempo incarcerato. Al dottor chionna – che poi avrebbe sposato una ex fidanzata di sabani conosciuta durante l’indagine – andava accreditata la scoperta dell’acqua calda. Non era necessario scomodare abili detective per sapere che nella televisione i rapporti tra la telecamera e la camera da letto sono sempre stati stretti. Prima della televisione era già accaduto nel teatro e nel cinema. Assai più disgustoso di queste – presunte – pratiche era in tutta la televisione italiana lo sciorinamento di fatti privati, dolorosi o pruriginosi, in programmi di successo: dove non è facile dire se ispirassero maggior fastidio i conduttori e le conduttrici finti-emozionati e finti-benefattori o gli sciagurati e le sciagurate che accettavano, a pagamento, di lavare i panni sporchi familiari di fronte a platee immense. Abbiamo la convinzione che per Enzo siciliano e per Fedele confalonieri, uomini di gusto, questo teatrino miserevole sia indigesto.

Al vertice dell’ENEL era stato dunque issato il quarantaquattrenne chicco Testa, lombardo, contestatore, ambientalista, antinuclearista accanito, militante del partito comunista ma antisovietico. Il professor Felice ippolito diceva di lui che era «un radicale romantico con il quale non si può nemmeno cominciare a discutere» e Romano Prodi, fautore convinto del nucleare, lo liquidava come «una graziosa testa calda». Le provocazioni sollecitavano la sua vanità, aveva posato per un fotoromanzo sul giornale delle prostitute «La Lucciola». Difendeva i diritti dei gay, e Francesco Merlo sul «Corriere» ha riportato i mugugni dei comunisti di Treviglio: «Il compagno Testa ci spieghi perché ha riempito il partito e l’Arci di busoni». Ma sotto quelle vesti bizzarre batteva il cuore d’un manager, e il sindaco Francesco Rutelli, altra testa graziosa ma meno calda, ne avvertì il pulsare e nominò Testa presidente dell’ACEA, l’azienda comunale di Roma per l’elettricità e l’acqua: il trampolino che ci voleva per il salto all’ENEL. La designazione di Testa per l’ENEL aveva le connotazioni d’una stravaganza: corretta però dalla contemporanea nomina di Franco Tatò come amministratore delegato dell’ente elettrico, ossia come vero timoniere del colosso. Tatò da Lodi, detto Kaiser Franz per gli studi e le esperienze manageriali in Germania oltre che per il temperamento ruvido, è l’anti-Testa. Non solo per i vent’anni in più, ma per la totale assenza di romanticherie e di utopie in un orizzonte culturale e professionale che pure aveva preso l’avvio da una laurea in filosofia nell’Ateneo pavese. La sua carriera è stata costellata di risanamenti aziendali, di successi, e di scontri con i «padroni», si chiamassero De Benedetti o Berlusconi. Per non perdere l’abitudine Tatò, appena insediato, ha cominciato a litigare con Nerio Nesi, «banchiere» di Rifondazione comunista e presidente della commissione industria a Montecitorio. Difensore accanito delle gestioni aziendali severe fino alla spietatezza, Tatò era uno dei boiardi che dovevano confrontarsi con il grande nodo delle privatizzazioni.

Cambio della guardia anche alla STET (poi Telecom italia) dove è stato dato il benservito sia a Biagio Agnes, monumento vivente, intelligente (e inaffondabile come attesta il suo passaggio alla cecchi Gori communications) della struttura di potere democristiana, sia all’amministratore delegato Ernesto pascale: rimpiazzati rispettivamente da Guido Rossi, un uomo della sinistra da non confondere tuttavia, per la sua statura professionale, con i reggiborsa di partito, e Tomaso Tommasi, un manager «Interno». Alle Ferrovie Giancarlo cimoli ha occupato il posto già tenuto con splendori rinascimentali da Lorenzo Necci, e s’è subito trovato alle prese con una spaventosa voragine di perdite e con un contenzioso aspro per gli «esuberi» (solo in italia, tra i paesi sviluppati, alla guida dei treni sono due macchinisti, anziché uno solo). Questi avvicendamenti – dal polo stigmatizzati come lottizzazioni – sono avvenuti senza eccessivo travaglio. V’è stata invece battaglia, e battaglia grossa, per l’iRi dove il presidente Michele Tedeschi era entrato in conflitto con Fabiano Fabiani, gran capo di Finmeccanica, uno dei settori della holding. Fabiani non era un manager qualsiasi. Uscito dalla covata fanfaniana, giornalista (è stato direttore del Tg1), aveva portato nelle aziende di stato, durante quarant’anni, la sua efficienza da culdipietra e la sua abilità di politico collaterale. I propositi dell’iRi – che a suo avviso voleva vendere Finmeccanica come uno «spezzatino» – non gli andavano a genio, e nemmeno gli andavano a genio i propositi del governo benché a Prodi lo legasse una solida amicizia. Sacrificato dal governo sull’altare della coerenza economica, per coerenza personale si era orgogliosamente dimesso. Quale fosse la posta del duello risulta chiaro dalla solidarietà che a Fabiani avevano espresso Nerio Nesi, Fausto Bertinotti e alcuni ambienti sindacali. Ma quella di Tedeschi, che a Finmeccanica aveva collocato come presidente sergio carbone e come amministratore delegato Alberto Lina, era stata una vittoria di pirro. Succede anche nel tiro alla fune: insieme al perdente è caduto il vincente. Gian Maria Gros pietro è diventato presidente con un mandato preciso: vendere e chiudere l’iRi entro tre anni. Non ci soffermiano sulle nomine bancarie che allungherebbero troppo questa elencazione. Due poltrone molto appetite hanno resistito indenni alla fiammata dei cambiamenti: quella di Franco Bernabé all’ENi – scampato senza danni, nonostante gli attacchi giornalistici, al terremoto della maxitangente Enimont – e quella di Enzo cardi alle poste.

È lecito ogni dubbio – per troppe amare esperienze del passato – sulle intenzioni che hanno determinato questi avvicendamenti. L’appartenenza all’ambito del potere è stata sempre, per i boiardi di stato, la regola. Ma va riconosciuto che a un governo cui stessero a cuore le privatizzazioni – ammesso che proprio a tutto il governo stessero a cuore – occorreva una dirigenza dell’economia pubblica disposta a realizzarle. Il programma di privatizzazioni – si tratta di almeno quarantamila miliardi – è ambizioso, ed ha avuto un principio d’attuazione: però tra molte prevedibili resistenze e obiezioni. La classe politica viene privata di preziose leve per le sue manovre nella giungla del parastato. In passato – ci auguriamo solo in passato – quelle leve schiudevano ai partiti le casse pubbliche. Nessuno s’oppone con affermazioni di principio alla vendita di quote azionarie nelle imprese pubbliche. Molti s’oppongono invece al passaggio della maggioranza dallo stato ai privati, ossia alla perdita del potere di condizionamento e di decisione che lo stato ha. In questo fronte del no s’intrecciano motivi d’alto profilo e motivi di basso o bassissimo profilo. Bertinotti e il suo portavoce economico Nerio Nesi – ma a volte s’avvertono singolari convergenze tra le posizioni dell’estrema sinistra e quelle di Alleanza nazionale – insistono sul carattere strategico d’alcuni settori produttivi: e invocano, anche quando lo stato perda la maggioranza, il mantenimento della golden share, l’azione d’oro. Ossia d’una azione che conferisca a chi la possiede – lo stato – una sorta di diritto di veto, come accade per i cinque paesi che questo diritto possono esercitarlo nel consiglio di sicurezza delle Nazioni unite. Alle nostalgie stataliste s’accompagnano le spinte corporative. Una privatizzazione vera pone termine, definitivamente, al vecchio andazzo in base al quale il Tesoro interveniva per ripianare le perdite, anche colossali, delle aziende di stato, e in base al quale il personale sovrabbondante o parassitario non correva rischi (il che potrà anche finire nelle imprese già pubbliche, ma durerà purtroppo negli organici del pubblico impiego). Le privatizzazioni, intendiamoci, presentano dei pericoli: come quello d’una invasione di potenti gruppi esteri. Ma anche l’italia, quando è in grado di farlo, invade. Si sono levate molte voci autorevoli per avvertire che le privatizzazioni non procedono come dovrebbero, che sono in corso manovre spregiudicate, che a volte si lasciano le cose com’erano fingendo di capovolgerle. Il boiardo eccellente Romano Prodi conosce i suoi simili, e i trucchi cui ricorrono per non essere esautorati: conosce anche la sua maggioranza nella quale i privatizzatori senza arrière pensées sono con ogni probabilità minoranza. Se c’era uno che potesse farcela era lui: purché volesse.

La conquista dell’euro è stata la grande promessa e la grande scommessa di Prodi e dei suoi Ministri finanziari. Conquista dell’euro voleva dire essere in regola con i parametri di Maastricht alle scadenze fissate (e ancora valide quando andava in stampa questo libro). Nel marzo del 1998 dovrebbe essere compilata la lista dei paesi che, avendo onorato gli impegni di Maastricht, parteciperanno alle fasi successive per la creazione della moneta unica europea. Nel secondo semestre dello stesso anno saranno decise le parità monetarie, ossia i cambi tra le varie monete, e il cambio di ogni moneta con l’euro. Il 1° gennaio 1999 le parità diventeranno, in base alla tabella di marcia, irrevocabili, nascerà la banca centrale europea, cominceranno gli scambi internazionali in euro. Il 1° gennaio 2002 circoleranno in tutti i paesi ammessi nel club della moneta unica le banconote e le monete in euro, valide per un semestre insieme alle monete e alle banconote nazionali. Dal 1° luglio 2002 rimarrà solo l’euro, le banconote nazionali avranno perduto valore legale, ma i distratti che non se ne fossero sbarazzati disporranno di tempi lunghi per cambiarle agli sportelli delle banche autorizzate. Tra gli eletti dell’euro l’Italia ci sarebbe stata, Prodi e ciampi lo giuravano nonostante gli scetticismi e i commenti acri interni e internazionali. Ma il biglietto per il viaggio verso l’euro era caro, e gli italiani se ne accorsero presto: anche se il governo, preoccupato per l’amaro della medicina che si apprestava a propinare loro, ricorreva ad eufemismi.

Abbiamo già sintetizzato la ricetta che il Fondo monetario internazionale suggeriva per il risanamento dei conti pubblici italiani: non nuove tasse – in un paese dove quelli che le pagano ne erano già oberati – ma maggior efficienza nell’individuare gli evasori e soprattutto tagli alla spesa pubblica. Tra i più convinti dell’esattezza di questa diagnosi era, in cuor suo, Romano Prodi: che il 17 dicembre 1994 – dopo che Berlusconi e il suo ministro del Tesoro Lamberto Dini furono costretti a rinunciare, per la levata di scudi dei sindacati e delle sinistre, ad una «finanziaria» rigorosa – aveva firmato insieme ad altri economisti una lettera aperta pubblicata dal «Corriere della sera». «Indipendentemente dalle vicende e dalla responsabilità delle parti» vi si diceva «Il rinvio [dei “tagli”, N.d.A.] ha sancito l’impossibilità di giungere a un accordo, ha sortito risultati gravemente negativi per la credibilità del paese, lascia coloro che sono più immediatamente interessati dal provvedimento nell’incertezza riguardo il proprio futuro.» come presidente del consiglio Dini aveva dovuto accontentarsi di misure blande per frenare il baratro delle pensioni: che insieme all’incubo dei parametri di Maastricht s’era ripresentato ai governanti dell’ulivo.

L’avvio di Prodi e di ciampi fu in sordina. A metà giugno del 1996 venne varata una «manovra correttiva» (affettuosamente battezzata manovrina) da sedicimila miliardi: undicimila di tagli alla spesa e cinquemila di nuove entrate; e alla fine di quel mese il consiglio dei Ministri approvò il Documento triennale di programmazione economico-finanziaria in cui era prevista, per il 1997, una manovra di trentaduemila miliardi. Un terzo del totale costituito da nuove entrate, ossia da tasse. La botta era forte ma, si assicurò, definitiva. Il 5 luglio 1996 Massimo D’Alema spiegò che non ci sarebbero stati ulteriori aggravi e che «quella sulla manovra per l’Europa è una discussione campata in aria». Di rincalzo, il 14 luglio 1996, Prodi assicurò: «una manovra per l’Europa sarebbe suicida perché in Europa dobbiamo entrarci vivi e non morti». Ma a breve distanza di tempo Prodi, ciampi e il ministro delle Finanze visco rivelarono agli italiani che per l’Europa ci voleva ben altro. La manovra sarebbe stata non di trentaduemila ma di sessantaduemila miliardi, con una tassa una tantum per l’Europa da restituire un giorno, almeno in parte, ai contribuenti. Accusato d’aver detto bugie, ciampi spiegò che la mazzata era diventata indispensabile per l’improvvisa accelerazione subìta dal processo d’avvicinamento alla moneta unica. I sindacati e anche Rifondazione accettarono, tra proteste ed effimeri veti, l’entità del salasso, ma ottennero che esso scalfisse senza davvero intaccarlo il sistema pensionistico e le incrostazioni parassitarie. Delle pensioni, sostenevano CGIL, CISL e UIL, si sarebbe potuto ridiscutere all’inizio del 1998. Il Polo e la Lega mitragliavano la maggioranza, in parlamento, con migliaia di emendamenti, superati con il ricorso sistematico al voto di fiducia. Il governo Amato aveva presentato 14 richieste di fiducia, il governo Ciampi 12, il governo Berlusconi 3, il governo Dini 9, il governo Prodi, nel suo primo anno di vita, 21.

L’opposizione faceva leva sulla pesantezza della maximanovra per mobilitare i ceti medi produttivi – che si sentivano perseguitati – contro Prodi. Ma anche economisti vicini all’ulivo muovevano una serie di critiche. La prima, e la maggiore, derivava dalla rinuncia del governo, sia pure in nome della solidarietà e della socialità, ad adottare misure strutturali. Bisognava sostituire il criterio dell’efficienza al criterio della spesa facile, e rinunciare ai sotterfugi consolatori d’un passato da dimenticare. Invece i provvedimenti fiscali sembravano piuttosto espedienti, venivano richiesti in anticipo determinati versamenti, si raschiava nel barile dei TFR, ossia dei Trattamenti di fine rapporto (le somme che le aziende accantonano per pagare le liquidazioni ai dipendenti), si presumeva che fossero acquisiti versamenti aleatori. La stessa gravosissima tassa per l’Europa poteva sì essere il colpo di reni per raggiungere l’euro, ma valeva per una sola volta. E poi? Ammenoché – ed era la prospettiva più inquietante – la una tantum diventasse, come tante volte era accaduto, un balzello perenne. Una manovra, osservava anche l’«Economist», basata su «pagamenti ritardati e tasse anticipate, un semplice temporeggiamento». Il centrodestra – che soffiava sul vento del malcontento, sostenendo che la manovra era dura come quella che il governo Berlusconi voleva, ma era anche sterile – indisse per il 9 novembre, a Roma, una manifestazione di piazza il cui successo allarmò D’Alema (prodi affettò invece la sua olimpica tranquillità). Un milione o poco meno di persone ascoltò in piazza san Giovanni, luogo deputato dei comizi di sinistra, i capi del polo: con Berlusconi che intimava a Prodi di tornarsene a casa mentre Buttiglione parlava di «dittatura sudamericana».

Dopo i discorsi alla folla oceanica venne, per l’opposizione, l’ora dell’Aventino. La discussione sulla finanziaria sarebbe proseguita senza la presenza dei parlamentari di centrodestra: i quali sostenevano, con evidente forzatura polemica, che il metodo scelto da Prodi per ottenere il placet di camera e senato ricordava le leggi eccezionali con cui Mussolini, tra il 1925 e il 1926, aveva instaurato la dittatura. Il punto dolente era quello delle deleghe, ossia delle autorizzazioni a legiferare su determinate materie senza dover sottoporre ogni misura al dibattito parlamentare. Inizialmente di deleghe ne erano state chieste ventiquattro, poi ridotte a una decina. La costituzione le prevede, all’articolo 76, ma «per un tempo limitato e oggetti definiti». L’utilità, anzi la necessità delle deleghe è evidente quando si tratti di mettere a punto una materia molto tecnica e complessa. Ma secondo i berlusconiani il governo Prodi prevaricava avvalendosi di questo strumento per la materia fiscale, che riguarda direttamente ogni cittadino; e così teneva nel vago elementi essenziali dei provvedimenti in pectore. E li teneva nel vago non per la loro complessità, ma perché non era ancora riuscito a trovare l’accordo tra i partiti della maggioranza. In questo modo – insisteva il polo – la finanziaria veniva «blindata» nei confronti dell’opposizione (messa nell’impossibilità di discuterne la sostanza) e restava elastica nei confronti della maggioranza, e delle sue varie componenti. L’opposizione era cioè estromessa dalla discussione, che sarebbe proseguita per mettere d’accordo Bertinotti con Prodi, Rosy Bindi con ciampi, Ronchi con Dini. A fine dicembre (1996) la finanziaria fu approvata da un parlamento dimezzato.

Il 1997 portò altri venti di tempesta per Prodi. I sindacati – senza l’acredine che ci avrebbero messo se al governo fosse stato il polo – avevano fatto sfilare i loro aderenti a Roma, il 22 marzo, per pungolare il governo sui temi del lavoro, e nel corteo era anche Massimo D’Alema, che pochi giorni prima, durante un seminario nel castello toscano di Gargonza, non era stato avaro di attacchi all’ulivo. Lo si accusò di doppiezza, ma la sua era la vecchia tecnica del «partito di lotta e di governo». Il 21 aprile 1997, primo anniversario della vittoria di centrosinistra, «Il manifesto» aveva titolato: Maledetto compleanno. Sottinteso: maledetto per le tasse, per la disoccupazione che non si schiodava dal dodici per cento, per la stagnazione economica. Eppure Prodi e ciampi potevano vantare al loro attivo risultati economici eccezionali. L’inflazione si stava già avviando a un livello inferiore al due per cento; gli interessi sui titoli pubblici si erano dimezzati e questo rappresentava per le casse pubbliche un sollievo enorme, ogni punto in meno negli interessi equivale a un risparmio di ventimila miliardi (va aggiunto che il calo dei consumi in Italia è da attribuire almeno in parte al minore rendimento dei BoT: il capitale è meglio salvaguardato, ma chi ricavava venti milioni l’anno da duecento milioni di titoli se ne ritrova in tasca dieci); l’euro era a portata di mano; le entrate fiscali crescevano di continuo, purtroppo divorate in un batter d’occhio dal Moloch statale; infine gli italiani avevano subìto con irritazione e dispetto – ma senza ricorrere alle estreme misure di protesta, come lo sciopero fiscale, cui la Lega incitava – una tassazione vessatoria. Il paese sembra avere risorse inspiegabili, la soluzione del mistero è nel «sommerso». Prodi si dichiarava, con buone ragioni, soddisfatto.

L’Ulivo e il polo duellarono, nel maggio del 1997, in un test elettorale significativo. Si votava per i sindaci di dieci città capoluogo e per alcune amministrazioni provinciali. Due risultati soprattutto erano attesi con ansia negli opposti schieramenti: quello di Milano e quello di Torino. L’esito dei due maggiori duelli era incerto, e la vittoria dipendeva dalle scelte decisive dei moderati ancora in forse. Per questo l’ulivo schierava candidati rassicuranti, che smentissero per ciò che erano – non solo per ciò che dicevano – ogni sospetto di sinistrismo all’antica. Infatti a Milano si fronteggiavano due imprenditori, Gabriele Albertini (polo) e Aldo fumagalli (ulivo). A Torino l’uscente valentino castellani, un professore universitario che nel suo mandato precedente aveva acquisito largo e non immeritato credito, doveva vedersela con Raffaele costa, un liberale che nella politica militava da tempo e che s’era distinto – in tempi d’acquiescenza consociativa – per le sue coraggiose battaglie contro gli abusi e i privilegi dei partiti e dei loro notabili. A Trieste chiedeva conferma, per l’ulivo, un altro imprenditore, il re del caffè Riccardo illy. Nella campagna propagandistica le prerogative e l’ambito operativo dei sindaci erano stati, come sempre accade, dilatati a dismisura, pareva che dalla loro azione dipendessero, oltre che una gestione oculata della macchina amministrativa locale, anche l’ordine pubblico e la soluzione di problemi – la criminalità, l’immigrazione clandestina, la disoccupazione – che appartengono a un ambito ben più ampio. Con una anticipazione strumentale di future riforme i candidati si esprimevano come se il decentramento tanto auspicato, tanto avversato, e tanto difficile – e dunque l’allargamento dei poteri locali – fosse cosa fatta. I programmi differivano di poco, e quel poco era nutrito di buone intenzioni lastricanti le vie della speranza.

Il verdetto fu di sostanziale parità, nei voti e nella spartizione delle città. Albertini, un uomo grigio di faccia arcigna e negato alla retorica che proprio per questo, probabilmente, era piaciuto ai milanesi, prevalse con largo margine su Fumagalli, a Torino castellani s’impose per un soffio, quattromila voti, su costa. Illy si affermò senza patemi d’animo a Trieste, Ancona e Novara ebbero sindaci dell’ulivo (Renato Galeazzi e Giovanni correnti), sindaci del polo ebbero catanzaro (sergio Abramo), Terni (Gianfranco ciaurro) e crotone (pasquale senatore). La sorprendente Lega si aggiudicò pordenone (Alfredo pasi-ni) e Lecco (Lorenzo Bodega). Se al polo fossero andate le due metropoli in lizza si sarebbe potuto parlare di sconfitta dell’ulivo, se l’ulivo avesse conquistato Milano sarebbe stata la disfatta del polo. Da Prodi l’esito fu considerato soddisfacente, e non aveva torto. «Il voto è andato complessivamente molto bene» disse «Il governo ne esce più forte. Tutti i sindaci dell’ulivo sono stati confermati e c’è stata una crescita in tutte le province. Ora potremo andare avanti con più rapidità per raggiungere i nostri obiettivi.» con un artificio dialettico consentito dai fatti Prodi poteva minimizzare la sconfitta di Milano osservando che a palazzo Marino non sedeva in precedenza un sindaco di centrosinistra, sedeva il leghista Marco formentini, e dunque la poltrona non era stata perduta. La diagnosi ottimistica di Prodi dava scarso peso – e si capisce perché – a un dato rilevante. Là dove si vinceva o si perdeva per un’incollatura, la sorte dell’ulivo era affidata a Rifondazione comunista. Castellani, a Torino, aveva dichiarato apertamente, alla vigilia dei ballottaggi, che lui i consensi di Rifondazione non solo li accettava ma li chiedeva. A Milano Aldo fumagalli, per coerenza e per il timore di perdere molti voti moderati, s’era attenuto a una strategia opposta. Non è per niente sicuro che fumagalli avrebbe battuto Albertini se a Rifondazione avesse chiesto aiuto: gran parte dei bertinottiani avrà egualmente deposto il suo nome nell’urna. È invece sicuro che castellani avrebbe perduto a Torino se a Rifondazione non avesse aperto le braccia. A Roma come a Torino o altrove Rifondazione era indispensabile per l’ulivo, e il risultato delle amministrative rafforzava il suo potere di persuasione o di dissuasione. Il polo era uscito piuttosto bene dalla prova. Le amministrative erano in generale state un tormento per Berlusconi, che aveva finalmente catturato, con Milano, una preda grossa. Ma s’era visto una volta di più come nelle elezioni in due turni riuscisse all’ulivo, durante l’intervallo da un turno all’altro, di fare un buon raccolto di consensi sfusi, negato al polo. Lo s’era visto in particolare a Torino dove costa, uscito dal primo turno con una dote del 43,2 per cento, aveva progredito fino al 49,6 per cento, mentre il suo rivale castellani era balzato dal 35,4 al 50,4. L’ulivo aveva risorse di aggregazione – o se si vuole di trasformismo omnicomprensivo – da attribuire in gran parte al talento con cui D’Alema – attraverso Prodi – era riuscito a mimetizzare l’egemonia postcomunista nella coalizione di maggioranza e di governo, e a enfatizzarne le componenti moderate. Questa tecnica funzionava, ma i fatti attestavano, con estrema chiarezza, non solo che l’ulivo aveva la sua trave portante nel PDS, ma che senza Rifondazione comunista diventava minoranza.

Ottenuta la promozione – sia pure con una risicata sufficienza – all’esame di queste amministrative, Romano Prodi era in grado di vaticinare per il suo governo – e non era più jattanza, se mai lo era stata in precedenza – una sicura navigazione fino al porto di fine legislatura. I segnali d’una ribellione traumatica di Bertinotti venivano attribuiti, per il loro fastidioso ripetersi, alla ritualità di questa stagione politica. Qualcuno del polo riponeva fiducia – o dichiarava di porla – nel sempre imminente show-down tra ulivo e Rifondazione – nonché tra l’ulivo e i sindacati – per il nodo della riforma pensionistica. Analoghi allarmi erano stati lanciati lungo il cammino della travagliata finanziaria. Stando ai numeri e alle prese di posizione, i motivi di rottura c’erano tutti. Ma in quel momento difettava loro un elemento fondamentale: la volontà di rompere delle parti in causa. Sia l’ulivo sia Bertinotti sia i segretari delle confederazioni sindacali sapevano che uno scontro all’arma bianca (o rossa) nella maggioranza avrebbe potuto provocare la perdita del potere: che l’ulivo, Bertinotti e i sindacati gestivano e al quale erano, secondo logica, affezionati. Se a questo s’aggiunge la voluttà di mediazione italiana, portata a sofisticazioni estreme dai partiti e dagli uomini che nella maggioranza militavano, la conclusione non poteva essere che una sola: di rottura si sarebbe parlato sempre, e non ci si sarebbe arrivati mai. Gli osservatori covarono la convinzione – e Prodi covò l’illusione – che le crepe della maggioranza fossero sempre rimediabili, e che i soprassalti d’intransigenza bertinottiana avessero per destinataria la platea dei militanti neocomunisti. La sceneggiata delle facce feroci si ripeté, durante l’estate e l’autunno del 1997, per la ripresa dell’interminabile negoziato tra il governo e i sindacati sul welfare state ossia, per dirlo in soldoni, sulla previdenza e sull’assistenza. Berlusconi, buon samaritano, aveva teso una mano a Prodi: se le proposte del governo andavano nella giusta direzione, e se Bertinotti le osteggiava, il polo ne poteva facilitare il varo. Una mossa che si proponeva di dividere la maggioranza, ma che magari, suonando come un avvertimento a Bertinotti, la consolidava. A Berlusconi Prodi e i suoi risposero «no, grazie», con un sottinteso ammonimento a Rifondazione: non tirate troppo la corda.

Prodi aveva l’aria d’essere rilassato, sicuro, a suo completo agio nella guida d’una maggioranza le cui fibrillazioni cardiache venivano interpretate – molto a torto – come gli innocui svenimenti, nell’ottocento, delle signorine di buona famiglia. Il professore di Bologna aveva molto guadagnato in autorevolezza, e anche in grinta. Ci teneva a sfatare il cliché, che l’aveva accompagnato durante i primi mesi a palazzo chigi, di re Travicello messo lì per volere di D’Alema. Bersagliato da attacchi personali, non ne aveva molto risentito. Le accuse che gli venivano mosse per la vendita della cirio quand’era presidente dell’Ø – e che una perizia aveva smentito – appartenevano al bagaglio giudiziario d’ogni boiardo di rango, e lui era stato, a lungo, il primo tra i boiardi. Ciò che si andava dicendo sui rapporti tra Nomisma – la società di ricerca e consulenza che era stata la sua creatura prediletta, e che era a lungo rimasta sotto la sua ala protettrice – e le Ferrovie dello stato o altre aziende pubbliche – Prodi in prima persona era stato «garante» dell’Alta velocità di Necci – non aveva suscitato scandalo: tutt’al più se ne poteva dedurre che il clan dei Prodi e dei loro amici avesse rappresentato a Bologna un punto di riferimento importante per quanti partecipavano ai giuochi – ormai senza frontiere – con cui si procede all’assegnazione di incarichi: ma solo un’anima candida come il suo biografo Riccardo Franco Levi ritiene che Prodi – la cui onestà non è stata mai intaccata – si fosse mosso da sprovveduto tra gli squali del sottogoverno.

Il nuovo Prodi, pronto a misurarsi con Kohl – «mi fa paura una Germania che ha paura» – e a contrapporre alla sua stazza fisica un decisionismo emiliano, aveva acquistato scioltezza anche davanti alle telecamere. Un giornalista che pure non gli è ostile aveva usato il termine «ganassite» («ganassa» in milanese è uno spavaldo, se non uno spaccone) per definire il Prodi in versione aggiornata: imitatore di sisto V che, eletto papa, aveva gettato il bastone cui s’era appoggiato, vacillante e smarrito, entrando in conclave, e aveva portato allo scoperto la sua autentica tempra di monarca autoritario. Non che Prodi gli somigli, nel cinismo e nel dispotismo. Ma i farfuglia-menti incerti, i borbottii goffi, le professioni d’umiltà del suo avvio potevano anche essere visti, alla luce di questi sviluppi, come una tattica sottile che aveva ingannato molti, quasi tutti. Sia come sia, Prodi aveva capito che la sua debolezza di capo d’una coalizione in apparenza vulnerabile, e di comandante d’un esercito dove le sue truppe contano poco o niente, era anche la sua forza. Collocato come chiave di volta in un arco politico dagli equilibri delicati, il Romano di Bologna sapeva d’essere diventato indispensabile perché, se lo si toglieva, l’intera costruzione era a rischio di crollo. Altro che Prodi vacillante: l’incubo degli oppositori è ormai l’instaurarsi d’un «regime» morbido, tenace, a tenuta pluriennale. Che se si fosse avverato avrebbe avuto l’impronta di Prodi e della sua rete capillare di boiardi piuttosto che quella di Massimo D’Alema vaticinante la «cosa 2». Ma era in agguato il solito fattore B: che per Berlusconi voleva dire Bossi, e per Prodi voleva dire Bertinotti.