Si sapeva che l’autunno del 1996 avrebbe riportato sull’italia, dopo la calma vacanziera d’agosto, nuvoloni politici, economici, giudiziari: ma nessuno era stato in grado di prevedere la bufera che investì le Ferrovie dello stato, la magistratura, e il governo nella persona di Antonio Di Pietro: e che traeva origine – questa fu una sorpresa nella sorpresa – da un’iniziativa non del pool di Mani pulite, ma da un’iniziativa dell’appartata e oscura procura di La spezia. Per ordine dei PM Alberto cardino e silvio Franz la polizia procedette, il 15 settembre, a una retata di personaggi in vista, alcuni mandati in carcere, altri agli arresti domiciliari. Figurava nell’elenco una vecchia e nota conoscenza dei «palazzacci», il finanziere internazionale (con accento pisano) pierfrancesco pacini Battaglia. Ma al suo nome non immacolato se ne aggiungevano altri che definiremmo insospettabili se il termine potesse avere ancora un briciolo di credibilità. Anzitutto Lorenzo Necci, amministratore delegato delle Ferrovie dello stato, Ministro in pectore del mancato governo Maccanico. E poi l’amministratore delegato della fabbrica d’armi oto Melara, pierfrancesco Guarguaglini, l’ex notabile Dc (e piduista) Emo Danesi, i magistrati Roberto Napolitano e orazio savia, già sostituti alla procura della capitale. Infine, trascinata anche lei nel gorgo, la fedele segretaria di pacini Eliana pensieroso. La sferza di La spezia si abbatteva inoltre su personaggi già indagati come l’ex capo dei Gip romani, Renato squillante. Era questa, si affermò, la Tangentopoli 2: ma la numerazione appare piuttosto arbitraria, le Tangentopoli s’intrecciano e formano una catena della quale è arduo, o impossibile, distinguere gli anelli. La sensazione è che la prima Tangentopoli non sia mai finita, e abbia proseguito il suo corso sotterraneamente, come i fiumi carsici, d’improvviso riapparendo tra un coro di commenti esterrefatti e sdegnati.
Al di là delle formulazioni tecniche, i reati di cui gli inquisiti dovevano rispondere erano quelli classici del repertorio tangentistico: corruzione, appalti truccati, elargizioni di denaro a qualcuno perché favorisse qualcun altro, interferenze nell’assegnazione di poltrone pubbliche; e infine, come extra che rendesse più appetitoso e piccante il menu standard, il traffico di armi. Al centro di questo andirivieni di miliardi e di favori stava – come il dirigente d’una cabina di smistamento ferroviaria, tanto per stare in argomento – pierfrancesco pacini Battaglia detto «chicchi», l’uomo che per il Gip milanese italo Ghitti era appena un gradino sotto Dio. L’inchiesta aveva il suo fondamento in una messe imponente d’intercettazioni telefoniche: ed era stata affidata dai PM di La spezia al Gico (Gruppo investigativo sulla criminalità organizzata) della Guardia di Finanza di Firenze. Il Gico aveva riassunto i risultati dell’indagine in un lungo rapporto – trasmesso alla procura di La spezia – che dalle intercettazioni traeva conclusioni, poi aspramente contestate.
Pacini Battaglia è un toscanaccio a prima vista estroverso e ben decifrabile: vociante, donnaiolo, amante dei cavalli, giuocatore d’azzardo, gagliardo bevitore, smargiasso: eppure con risvolti molto misteriosi. A cominciare dal cognome. Per i primi ventidue anni della sua vita s’era chiamato solo pacini, poi una sentenza del Tribunale di pisa aveva accessoriato il pacini con un Battaglia grazie al quale attorno al giovanotto aleggiava una certa aura nobiliare. Però nobili i suoi non lo erano di certo: pescatori furbi, s’erano arricchiti – stando alle memorie paesane – con la bonifica del padule di Bientina, il paese dove chicchi è nato nel 1934: ma la crisi dell’agricoltura li aveva colpiti duramente. Il padre, avvocato, era anche stato – secondo una dichiarazione dello stesso pacini Battaglia – «un importante gerarca fascista». Ottenuta la maturità scientifica, intrapresi studi universitari mai completati, superata una breve esperienza come operaio in una fabbrica di refrattari, pacini Battaglia s’era dedicato alle sue vere vocazioni: che erano la bella vita – e poco gli interessava che fosse una vita indebitata – e l’intermediazione. Uno spiccato talento da faccendiere. Nel 1980, dopo un’intrusione della Finanza nelle sue attività italiane, s’era trasferito a Neuchâtel. Lì aveva impiantato una fabbricuccia d’etichette per bottiglie. Per quale miracolo quel modesto avvio svizzero abbia consentito a pacini Battaglia di fondare, già l’anno successivo, la finanziaria Karfinco, e nel 1985 d’ottenere che potesse operare come una banca, è impossibile dirlo con il metro della normale logica economica. La spiegazione va cercata altrove, e del resto l’ha data in qualche modo lo stesso pacini Battaglia negli interrogatori cui fu sottoposto nel 1993 dal pool di Mani pulite. Tra il 1987 e il 1992 la Karfinco era stata il centro di raccolta e di distribuzione di sessanta milioni di dollari «neri», un centinaio di miliardi di lire, messi dall’ENi e dalle sue propaggini a disposizione del sistema tangenti-zio, con il psi e la Dc a fare la parte del leone. Ma non si fermava all’ambito italiano la rete di pacini Battaglia.confessò d’avere elargito trenta milioni di dollari – come mancia – a tale omar Yehia «diplomatico dell’oman, amico del presidente algerino in carica nel 1990, senza di lui in Algeria non si muove nulla». Oggi la Karfinco ha una sigla diversa, BpG (Banque de patrimoines privés, Genève).
La figura di pacini Battaglia era così incombente sull’arraffa arraffa pubblico e privato che il pool di mani pulite doveva per forza imbattervisi, nella sua esplorazione delle fogne tangentizie: e infatti il faccendiere italo-svizzero (aveva preso la cittadinanza della confederazione) divenne assiduo della procura milanese. Lo martellò Di Pietro, lo martellarono altri del pool, e su di lui s’addensarono undici richieste di rinvio a giudizio per altrettanti episodi o imputazioni che formavano un immane garbuglio di spericolatezze miliardarie. Fortunato – o come alcuni insinuano privilegiato – il patron della Karfinco aveva tuttavia evitato l’arresto: nei percorsi accidentati di tangentopoli era stata trovata per lui una corsia preferenziale. La qualifica di supertestimone, che nelle cronache giudiziarie viene elargita con generosità, gli calzava a pennello. Se chicchi diceva anche solo una parte – e con comprensibili manipolazioni – di quanto era a sua conoscenza, molti santuari della corruzione potevano essere violati da «mani pulite». L’indulgenza accordata a pacini Battaglia da un pool che non s’era mai fatto troppo pregare per mandare in galera i sospettati poteva obbedire a una strategia utilitaria: che era poi quella del pentitismo, e dei «premi» ai «collaboranti». Ad essa non erano però vincolati i pm di La spezia che senza esitare avevano messo sotto chiave pacini Battaglia, e con lui Necci.
Già, Lorenzo Necci, nato a Fiuggi nel 1939: un boiardo di gran lignaggio, intelligente, efficiente, ammanigliato con i politici, salottiero. «Lorenzo il Magnifico» del quale, prima del dispetto di due giovanotti come cardino e Franz, non si parlava che bene, in tutti i partiti e in tutte le terrazze romane. S’era laureato in giurisprudenza a Roma ed aveva intrapreso la carriera universitaria come assistente d’un maestro indiscusso del diritto amministrativo, Massimo severo Giannini. Ma l’offerta d’una industria privata belga l’aveva indotto a cambiare obiettivo e stile di vita: non più professore ma manager (durante un certo periodo s’era anche messo in proprio, con una società di ingegneria e costruzioni). Tranne questa parentesi, la sua scalata aveva avuto per scenario le vette dirigenziali di colossi dell’industria: Enichem, Enimont, quel settore chimico i cui bilanci rovinosi hanno funestato più d’una carriera e d’una sostanza, ma non le sue. Della politica non era stato spettatore interessato, ma militante e partecipe. Dell’adesione al PRI non aveva fatto misteri, ed era stato anche inserito nell’esecutivo del partito repubblicano. Come il suo amico Maccanico aveva un talento eccezionale per le mediazioni, e un’abilità sopraffina nel coltivare conoscenze altolocate e utili. Si racconta che nel 1988 gli fosse riuscito di riunire in casa sua una schiera d’«eccellenti»: Giovanni spadolini, Giorgio La Malfa, Antonio Maccanico, Adolfo Battaglia, Guido Bodrato, carlo Fracanzani, Riccardo Misasi, Gianni De Michelis, Franco piga, Franco Reviglio.
Svaghi e hobby obbligatoriamente d’alto livello: il golf, la coltivazione delle rose e delle ortensie (il figlio Giulio appassionato di cavalli e di polo), e poi la saggistica e, del tutto imprevista, la poesia. Nel 1992 aveva dato alle stampe un Rivalutare l’Italia scritto a quattro mani con Manfred Gerstenfeld, e nel 1995 un più fantasioso Reinventare l’Italia. Tra le sue opere in versi merita citazione un poemetto di forte impronta civica: «Nel paese senza eroi / nel paese senza miti / partirono il dì di poi / uomini di paglia agguerriti. / partirono per prendere per sé / il palazzo del potere che non c’è». Senonché, proseguiva la poesia, il mozzicone d’un mendicante stanco aveva dato fuoco agli uomini di paglia, divorati da una fiammata violenta. Conclusione amara: «se un mozzicone di sigaretta bastava / a bruciare un esercito di paglia / che problemi il paese aveva / se il potere era solo una foglia? / La foglia serviva a coprire / di interessi nascosti ogni sorta / e pertanto a nessuno poteva importare / se la democrazia per sempre era morta». Quest’uomo di bell’aspetto e di multiforme ingegno fu messo, nel 1990, a capo di quel carrozzone sgangherato che ha nome Ferrovie dello stato: e che si distingueva, nell’Europa «sviluppata», dalle altre ferrovie per i deficit mostruosi (una delle cause maggiori del dissesto pubblico), per l’esuberanza insensata del personale, per l’imperversare d’un sindacalismo corporativo (sia nella versione ufficiale sia nella versione selvaggia), per gli scandali in cui erano stati coinvolti i vertici politici dell’ente: tanto che un presidente, il calabrese Ligato, era stato prima messo sotto inchiesta per accuse di forniture «truccate» e poi assassinato dalla ’ndrangheta. Circondato da diffusa stima e fiducia, Necci aveva messo a punto programmi ambiziosi per risanare il gigante malato. Da ogni parte gli venivano tributati riconoscimenti e Maccanico, lo si è accennato, lo voleva Ministro in quel suo governo che mai vide la luce. Creatura prediletta di Necci era il progetto dell’Alta velocità, che comportava investimenti massicci: voleva portare le Ferrovie italiane al livello delle francesi, delle tedesche, delle svizzere. I piani di Necci erano stati combattuti dai sindacati in nome della socialità, dai verdi in nome dell’ambiente, e anche da alcuni economisti nel nome delle priorità pubbliche: tra le quali, si sosteneva, l’Alta velocità era stata troppo favorita. Ma queste opposizioni, che Necci andava via via disinnescando e assorbendo, erano poca cosa in confronto alla folgore che, scagliata dalla procura di La spezia, aveva imposto un alt perentorio a quest’invidiabile cursus honorum.
Non tanto per smascherare pacini Battaglia – che senza maschere di correttezza era ormai da un pezzo – quanto per portare allo scoperto la fittissima trama delle sue complicità o delle sue connessioni, la procura di La spezia s’era servita alla grande, lo sapete, di intercettazioni telefoniche e ambientali. Alla posa delle cimici e alla decrittazione di quanto era stato registrato avevano provveduto i già citati finanzieri del Gico di Firenze. Le conversazioni collezionate dai finanzieri, trasmesse alla magistratura e lestamente date in pasto ai mezzi d’informazione delineavano il solito torbido intreccio tra affaristi, politici, boiardi, magistrati, avvocati: una piovra di favori e di omertà che allungava i suoi tentacoli nei palazzi romani, nei piani nobili delle grandi imprese, nei corridoi dei palazzi di Giustizia. Un universo, stando alle voci captate, d’incredibile volgarità e meschinità di linguaggio: i termini che si riferiscono agli organi genitali dominavano, e accanto alla loro schiettezza osée era tutto un crepitare di farfugliamenti, d’ammiccamenti, di frasi mozze, di sottintesi criptici. Il pecoreccio s’intrecciava all’alta finanza, gli interlocutori ragionavano di miliardi come fossero poca cosa, e pacini Battaglia, Babbo Natale sboccato, Prodigo e irruente nonostante i due bypass che l’avevano afflitto negli ultimi anni, aveva una buona parola e un mucchietto di quattrini per tutti. Foraggiava con venti milioni al mese – la restituzione era senza data fissa – il povero Necci cui lo stipendio delle Ferrovie non bastava, con tutti gli impegni mondani e politici dai quali era assillato: era pronto ad ottenere per la figlia di Necci, Alessandra, un incarico molto vago ma ben remunerato da un qualche potentato mediorientale. Risultavano al suo soldo i magistrati Napolitano e savia. Come sempre accade, l’impietosa divulgazione delle intercettazioni aveva uncinato persone innocenti o comunque estranee all’inchiesta.
Ma aveva uncinato, quella divulgazione, anche una preda grossa anzi grossissima, Antonio Di Pietro. Parevano compromettenti per l’ex PM soprattutto quattro passaggi dei farraginosi sproloqui di pacini Battaglia. A Enrico Minemi, già dirigente dell’ENi, aveva detto: «si è usciti da Mani pulite parlando di qualcun altro... E perché si è pagato». All’avvocato Marcello petrelli: «A me Di Pietro e lucibello m’hanno sicuramente sbancato». All’avvocato lucibello: «c’avevamo un unico pezzo bono in famiglia... Che si chiamava Antonio». E per il pool: «come sono difeso dal pool a Milano sono difeso da salamone [il PM che aveva indagato su Di Pietro per le accuse di Gorrini, N.d.A.] a Brescia... Vivo nell’equilibrio, nell’equidistanza tra i due poli... Anche perché qualche cosina so di loro pool e di salamone uguale». Allusioni dette ridacchiando che s’accordavano alla perfezione con una filosofia espressa più volte senza ambiguità: «Io vivo di ricatti». Pacini Battaglia avrebbe poi spiegato che «sbancato» era un errore del trascrittore, e che la parola esatta era «sbiancato»: nel senso che Di Pietro e il suo amico lucibello gli avevano messo paura, facendolo impallidire. Lucibello offriva un’altra versione, non era «sbancato» ma «stangato». Il «perché si è pagato» aveva una spiegazione altrettanto innocente: gli indagati avevano pagato con umiliazioni, spese legali e condanne le loro trasgressioni. Per rendere più convincenti le sue smentite e le sue rettifiche pacini Battaglia scriverà poi, in tono contrito da scolaretto discolo colto in fallo, al procuratore capo di Milano Borrelli: «purtroppo sono molte le volte che non dico la verità. Mi rendo conto che spesso ho anche millantato rapporti di amicizia mai avuti. Non voglio giustificarmi, ho sbagliato, però nel caso suo specifico il mio modo di sparlare era dovuto al fatto che sospettavo di essere intercettato da qualche suo sostituto». Vanterie infondate, insomma. Faceva ammenda, il chicchi contrito, anche per la trivialità delle sue espressioni: «sono stato oggetto, subito dopo il difficile intervento chirurgico da me subìto, di una euforia incontrollata, eccedendo spesso anche nei termini volgari e inopportuni».
Quest’autocritica interessata non poteva certo impedire che sulle intercettazioni scottanti s’innestasse ogni sorta di illazioni e polemiche. Di Pietro, che forse s’era illuso d’aver superato, con una serie di proscioglimenti, gli ostacoli giudiziari posti sul cammino delle sue ambizioni, se li ritrovava davanti più impervi che mai. Ciò che trapelava dall’inchiesta di La spezia riproponeva per Di Pietro circostanze e comportamenti già valutati (le amicizie pericolose, le disinvolture censurabili, il prestito e l’automobile dell’assicuratore Giancarlo Gorrini ottenuti tramite Antonio D’Adamo, gli interventi per indurre lo stesso Gorrini ad aiutare il comandante dei vigili urbani di Milano, Eleuterio Rea, assillato dai debiti). Anche per potersi difendere meglio da quelle accuse Di Pietro aveva smesso la toga. Ma l’aggressiva indagine del Gico e della procura di La spezia ipotizzava per Di Pietro qualcosa di più e di peggio di sbadataggini facilone: ipotizzava cioè un suo inserimento, diretto o indiretto, nelle tele che il ragno pacini Battaglia andava infaticabilmente tessendo. Gli amici di Di Pietro erano amici di pacini Battaglia, e pacini Battaglia aveva galleggiato senza troppi danni nel mare tempestoso di Tangentopoli. Questo in succo il ragionamento della Finanza e dei PM. Intimo di Di Pietro era l’avvocato Giuseppe Lucibello («Geppino»), che pacini Battaglia aveva scelto come suo difensore. Qualcuno, spiegò poi pacini Battaglia, gli aveva consigliato di trovarsi «non un principe del foro, ma un tipo sveglio e in contatto con la procura». Sveglio, Geppino lo era senza alcun dubbio. Approdato nel 1985 a Milano dalla natia vallo della Lucania, s’era subito distinto per il look audace: un giovanottino riccioluto, gesticolante, grondante braccialetti e medaglioni dai polsi e dal collo. E a Milano s’era imbattuto in Tonino, come lui voglioso di farsi strada, e di strada ne avevano fatta molta, insieme. All’attività legale Geppino ne abbinava altre di carattere più propriamente finanziario, e affaristico, attestate da cospicui movimenti di denaro.
Intimo di Di Pietro era anche il «palazzinaro» Antonio D’Adamo: un quasi conterraneo di Tonino perché era nato nel foggiano ma a poche decine di chilometri da Montenero di Bisaccia. D’Adamo, fregiato d’una laurea in ingegneria, era sbarcato a Milano negli anni cinquanta, e dal ’71 al ’78 era stato direttore generale della Edilnord di silvio Berlusconi. Quindi aveva fondato l’Edilgest che pareva avviata a una vigorosa espansione ma che – come la MØ di Gorrini – era precipitata in un vortice di iniziative fallimentari, e di debiti. A Di Pietro l’ingegnere era stato presentato da Eleuterio Rea: una conoscenza, poi divenuta amicizia, consolidata dagli incarichi che D’Adamo affidava a susanna Mazzoleni, moglie dell’ex PM. Questi era stato tuttavia molto attento a distinguere i suoi rapporti personali con il costruttore dai doveri di magistrato: e a due riprese – nel procedimento contro Mario chiesa e nei successivi sviluppi di Tangentopoli – aveva chiesto di astenersi dall’indagare su D’Adamo, il cui nome ripetutamente affiorava. La correttezza di Di Pietro era ricambiata dall’ingegnere con dichiarazioni che escludevano ogni rapporto men che limpido tra loro due. I quindici o dodici miliardi che attraverso complicati passaggi internazionali pacini Battaglia aveva in buona sostanza elargito – una parte almeno – alle pericolanti attività di Antonio D’Adamo non avevano nulla a che vedere, diceva e ripeteva il costruttore, con il giro di frequentazioni cui apparteneva anche Di Pietro. Contro il quale stavano le risapute accuse di Giancarlo Gorrini e le intercettazioni – di controversa interpretazione – ordinate dalla procura di La spezia. Sia Lucibello sia D’Adamo erano per il momento concordi nello scagionare Tonino. Che però si sentiva messo in croce dai «faldoni» che il Gico di Firenze aveva con tenacia – secondo qualcuno con malizia – ammassato.
L’affaire sfociò, com’era scritto nelle stelle, in un caos giudiziario. Indagava la procura di La spezia; indagava la procura di Brescia, che era stata investita fin dall’inizio di tutte le inchieste su Di Pietro (trattandosi d’un magistrato non poteva essere indagato dai colleghi di Milano); indagava la procura di perugia, perché cardino e Franz avevano imputato due magistrati romani, e per loro la sede competente era perugia così come Brescia lo era per Tonino; indagava la procura di Roma, non foss’altro che per le connessioni «centrali» d’uno scandalo delle Ferrovie e per alcuni addebiti a D’Adamo; infine indagava la procura di Milano, che di pacini Battaglia s’era interessata e continuava a interessarsi. Qualche giorno prima del suo arresto i sostituti di Borrelli l’avevano convocato per un ennesimo interrogatorio: e dopo il suo arresto un’infuriatissima ilda Boccassini, in compagnia di Francesco Greco, s’era precipitata a La spezia per avere spiegazioni dell’intrusione sgarbata in faccende di cui s’occupava il pool milanese. Tanto aveva i nervi allo scoperto, la Boccassini, che quando i cronisti le si erano stretti attorno per sapere cosa si fosse detta con i colleghi spezzini, aveva intimato alla scorta di liberarla dagli importuni: «via, anche con le maniere brutali!». Non fosse stata lei, star giudiziaria premiata con il «viareggio» per il suo impegno civile, la corporazione giornalistica l’avrebbe lapidata.
Antonio Di Pietro, indagato a getto continuo, gridava alla persecuzione. Riteneva che contro di lui si stessero avventando, con la ferocia dei piranha, persone e istituzioni colpite da Tangentopoli: in primo luogo la Guardia di Finanza, della quale era stato portato allo scoperto molto marciume (da lì l’accanimento del Gico), e poi i soliti Berlusconi, previti e via dicendo. Questi nemici avevano trovato collaborazione prima nella procura di Brescia (salamone), poi nella procura di La spezia (cardino e Franz). Molti nemici molto onore, aveva sentenziato l’insonne, e forse in qualche caso è vero, ma Di Pietro non ne traeva consolazione. (va rilevato che le battaglie contro Di Pietro di solito non pagano, salamone è stato estromesso dall’inchiesta di Brescia e poi indagato per mafia ad Agrigento; cardino s’è visto costretto a chiedere il trasferimento al «civile» dopo che un suo imprudente riferimento a politici coinvolti nel caso pacini Battaglia era stato collegato a Di Pietro; il capo del Gico di Firenze colonnello Autuori ha perso l’incarico.) La pressione sul Ministro dei Lavori pubblici che anche nel governo s’era scontrato con resistenze e incomprensioni stava diventando insostenibile.
La sera del 14 novembre 1996 Di Pietro era a istanbul. L’avevano invitato a un convegno sulla corruzione, promosso dagli industriali turchi: tutti di rango i relatori, tra i quali figurava Henry Kissinger. Là, nel suo albergo a cinque stelle, Tonino apprese che l’inchiesta di Brescia aveva avuto ulteriori sviluppi. Con decisione che forse era stata covata da giorni, ma che parve improvvisa, cominciò a scrivere di getto, in inconfondibile stile dipietrese, una lettera a Prodi datata «notte del 14 novembre 1996».
«Signor presidente, ho da poco saputo dal Tg5 che sarei stato sottoposto ad indagini dalla procura della Repubblica di Brescia, per un insieme di fatti a me non noti sia perché non li ho commessi sia perché nessuno me ne ha dato notizia. Sono anni ormai che vengo sottoposto ad indagini e accertamenti di ogni tipo – legali ed illegali – sempre ingiustamente come dimostrano le numerose sentenze di proscioglimento che mi riguardano. Eppure il tiro al piccione continua perché mi si deve far pagare ad ogni costo l’unica mia vera colpa (di cui peraltro sono orgoglioso): aver voluto fare ad ogni costo e fino in fondo il mio dovere. A questo punto dico: BASTA!
«Basta, con certi magistrati invidiosi e teorizzatori!
«Basta, con organi investigativi iperzelanti e fantasiosi! «Basta, con la stampa che crea le notizie prima ancora che accadano!
«Basta, con i calunniatori prezzolati che mettono tutti sulla stessa barca solo per salvare i loro mandanti!
«Basta, con quegli avvocati che non hanno saputo accettare i verdetti dei giudici ed oggi cercano scuse per giustificare le loro sconfitte processuali!
«Basta, dar spazio e credito a imputati rancorosi e vendicativi!
«Basta, soprattutto, con chi vuole usare la mia persona per delegittimare per un verso l’inchiesta Mani pulite e per l’altro il governo e le istituzioni!
«Tolgo il disturbo e non risponderò più ad alcuna provocazione.
«Buon futuro. Antonio Di Pietro.
«p.s.: ti prego vivamente di non propormi alcun invito al ripensamento, perché le mie dimissioni sono irrevocabili, come testimonia questa mia doppia firma. Antonio Di Pietro.»
Le previste sollecitazioni di Prodi perché il suo Ministro recedesse dal proposito manifestato con tanta perentorietà furono solo un dovuto e affettuoso attestato di stima: quella mitragliata di «basta!» non lasciava spazio per un dietrofront, estraneo del resto al temperamento di Tonino: che non è impulsivo quanto a prima vista può apparire, ma che la coerenza dei suoi impulsi la sa rispettare. Fuori Di Pietro, dunque. Nella tristezza ostentata della maggioranza per questo addio v’era con ogni probabilità un tocco di doppiezza. L’ingresso di Di Pietro nel governo aveva portato a Prodi popolarità e consensi, ma questo capitale rischiava di diventare una zavorra se sull’ex PM si accumulavano troppe ombre. Carlo Ripa di Meana, ancora portavoce dei verdi, aveva espresso un’opinione che altri del centrosinistra condividevano, ma che tenevano per sé: «così si creano le condizioni migliori perché lui si difenda, e il governo è messo al riparo da possibili e prevedibili polemiche». Meglio un Di Pietro accantonato per il momento, e recuperabile in altre circostanze (come poi si sarebbe visto). Gelido Bertinotti: «Il Ministro ha ritenuto di dover risolvere così il suo rapporto con la magistratura. Non pensiamo che la politica debba occuparsene». Il centrodestra era diviso. Berlusconi, che tra le sue qualità non annovera l’eleganza verso gli avversari in difficoltà, aveva saputo delle dimissioni durante un comizio a Benevento, e ne aveva informato l’uditorio: «una notizia: qualcuno potrebbe pensare che il Milan abbia acquistato Ronaldo...». Pausa, e poi il guizzo di rozza ironia: «sembra che si sia dimesso Di Pietro». La platea di bocca buona aveva applaudito entusiasta. Misurato invece Fini («nel dimettersi ha dimostrato una grande sensibilità»), e al fianco di Di Pietro Mirko Tremaglia («ha dato una grande prova di dignità, Di Pietro farà un suo movimento politico e allora saranno guai per tutti, Berlusconi per primo»). Di Pietro fu presto rimpiazzato da paolo costa, il buco apertosi nel governo venne in fretta richiuso.
Rimaneva però apertissimo il «caso». Amici e nemici di Tonino si dedicarono alla decifrazione d’un testo – quello della lettera di dimissioni – che era fitto d’allusioni: e vollero dare nomi e cognomi a coloro che, nelle categorie folgorate dai «basta!», avevano suscitato l’ira dell’ex PM. Per alcuni l’identificazione era agevole. Tra i magistrati «Invidiosi e teorizzatori» potevano essere inclusi i PM di Brescia salamone e Bonfigli, e i PM di La spezia cardino e Franz. Quanto agli «organi investigativi iperzelanti e fantasiosi» non esistevano dubbi: si trattava del Gico di Firenze, con il colonnello Autuori a sostenere la parte del cattivo. Meno facile la collocazione della stampa «che crea le notizie prima ancora che accadano», perché in quell’esercizio avevano dato prove brillanti sia gli esaltatori sia i denigratori di Tonino. Vittorio Feltri, direttore del «Giornale», e Giuliano Ferrara, direttore del «Foglio» e poi di «panorama», potevano essere iscritti d’ufficio nella lista nera dipietresca: meno semplice era l’assegnazione ad uno schieramento piuttosto che a un altro della muta di cronisti – alcuni eccellenti – che aprivano falle nei forzieri segreti della giustizia. Gli avvocati che «oggi cercano scuse per giustificare le loro sconfitte processuali»? Di sicuro i difensori dei tangentocrati importanti (e in primis di craxi), di Berlusconi, dei finanzieri foraggiati. Più ardua l’identificazione dei «calunniatori prezzolati», che sono nell’ottica di Tonino un esercito, come attestato dalle querele per diffamazione che ha presentato, a centinaia. Gli «Imputati rancorosi e vendicativi»? Anche loro una folla: dal CAF di craxi, Andreotti e Forlani a Berlusconi, a cusani e via scorrendo le liste dei processi in cui Di Pietro era stato un aggressivo accusatore. L’ultimo punto, riguardante «chi vuole delegittimare l’inchiesta Mani pulite, il governo e le istituzioni» aveva un inequivocabile sottofondo politico. Forza Italia – con Berlusconi, previti, Tiziana parenti, Tiziana Maiolo – aveva scatenato e di continuo alimentava l’offensiva contro un uomo, e contro un pool, cui il paese doveva riconoscenza.
Da quel 14 novembre in poi il duello tra Di Pietro e chi indagava su di lui ebbe le caratteristiche d’una faida avvilente: la legge – se di legge nel senso più alto del termine si può parlare – incalzava con pesantezza e spietatezza ottuse. Qualcuno ravvisò in questo tormento di Di Pietro una sorta di legge del taglione, toccava a lui adesso d’essere stritolato in ingranaggi implacabili. Il 6 dicembre vi fu per mandato della procura di Brescia (a La spezia era rimasta solo qualche frattaglia, il traffico d’armi, dell’inchiesta su pacini Battaglia) una raffica di perquisizioni in ogni abitazione e in ogni ufficio che potesse risalire a Di Pietro: le case di curno e di Montenero di Bisaccia, l’università di castellanza, i Lavori pubblici. Sessantotto incursioni contemporanee della Guardia di Finanza. Insieme agli incartamenti, ai computer, ai dischetti appartenenti a Di Pietro furono confiscati anche quelli dell’avvocato Lucibello e del costruttore D’Adamo. Venne fatta razzia d’una montagna di documenti in massima parte di nessun interesse, o relativi alle innumerevoli cause che Di Pietro aveva promosso (una decisione del Tribunale della libertà glieli restituì successivamente): un accanimento (o «una vigliaccata» per usare l’espressione del l’ex PM) che poteva trovare spiegazione nel partito preso degli inquirenti, ma che poteva anche trovare spiegazione nei meccanismi della giustizia spettacolo; che flette i muscoli, e impegna risorse introvabili per catturare assassini, spacciatori di droga e rapinatori quando l’imputato sia famoso.
Il PM che aveva distrutto Arnaldo Forlani, offerto all’irrisione degli italiani con una bavetta di sgomento agli angoli della bocca, ebbe a sua volta un piccolo calvario processuale. Era stato chiamato a deporre il 16 dicembre (1996), davanti al Tribunale di Brescia, per la grottesca vicenda del complotto che paolo Berlusconi, cesare previti e alcuni ispettori ministeriali avevano ordito – si pretendeva – a suo danno, costringendolo a lasciare la magistratura. Di Pietro per primo aveva ripetutamente detto che quell’abbandono era stato una sua decisione, ma nemmeno a lui avevano creduto. A Di Pietro seduto in aula davanti al presidente del tribunale, Maddalo, era stato chiesto se intendesse o no avvalersi della facoltà di non rispondere, essendo imputato d’un reato connesso. La risposta di Di Pietro fu confusa, non voleva rispondere ma voleva leggere una dichiarazione che spiegasse perché non rispondeva: il che gli venne, seppure con le buone maniere, impedito. I contenuti della dichiarazione, resi noti alla stampa, non erano una novità. Di Pietro lamentava la campagna di denigrazione della quale era vittima, e lamentava inoltre che «la procura di Brescia non abbia ancora trovato il tempo per dare a queste indagini il necessario impulso». Aggiungeva tuttavia che era stata sua intenzione di illustrare le manovre e le vendette di cui era stato vittima in una campagna «sapientemente portata avanti da Bettino craxi e diverse altre persone» con una imponente documentazione; ma che quella documentazione gli era stata sequestrata e pertanto «In questa situazione mi è impossibile ricostruire e provare ciò che da tempo ho denunciato, come mi è impossibile rendere un interrogatorio compiuto come quelli resi in istruttoria». L’inutile processo per la congiura si chiuse con l’assoluzione degli imputati.
Sul campo di battaglia cosparso di fango rimaneva un Di Pietro angariato ma non disarcionato e tanto meno vinto. L’uscita dal governo aveva giovato alla sua immagine, la maggioranza degli italiani giurava sulla sua innocenza o comunque dubitava della sua colpevolezza, D’Alema attribuiva lo scontro devastante a una «oscura lotta di poteri», Berlusconi che insisteva nel raccontare ai PM di Brescia fatti «agghiaccianti» sulla condotta del pool di Mani pulite non trovava ascolto favorevole nemmeno nella totalità del centrodestra, perché Alleanza nazionale rimaneva in larga misura dipietrista. L’ex PM che insisteva nel dichiararsi non schierato e apolitico, ma che nella politica c’era fino al collo, rimaneva un oggetto di desiderio dei due schieramenti. Solo che il centrodestra, vincolato ai travagli e alle polemiche di silvio Berlusconi, per quell’ingaggio prezioso – se vogliamo mutuare il gergo calcistico del cavaliere – era ormai senza speranze.
Con uno degli andirivieni cronologici cui la nostra narrazione ci costringe sovente dobbiamo qui fare un passo avanti, e portarci alla primavera inoltrata del 1997. Erano stati allora arrestati sergio Melpignano, uno dei più noti fiscalisti della capitale, e il costruttore Domenico Bonifaci, già editore del quotidiano «Il Tempo» poi venduto a Francesco Gaetano caltagirone. L’ordine di cattura si ricollegava a quelli che avevano colpito i magistrati orazio savia e Roberto Napolitano. Bonifaci, Melpignano e savia sarebbero stati interessati a pilotare l’inchiesta romana sull’Enimont, e sui molti miliardi neri che l’Enimont metteva a disposizione dei partiti (il «tangentone» o, in versione più solenne, la madre di tutte le tangenti). Savia sarebbe stato tra l’altro titolare d’una società, la promontorio, che amministrava beni immobili e fondi: e si sarebbe adoperato per il trasferimento dell’affaire Enimont dai procellosi mari milanesi alla bonaccia del «porto delle nebbie». Quanto a Melpignano, sui suoi tre conti correnti sarebbero passati – secondo la tesi della procura, contestata dall’interessato – 39 miliardi appartenenti alla tranche romana del «tangentone». Non mancava, in questo labirinto, una nota fosca: sergio castellari, il grand commis delle partecipazioni statali che si era ucciso (forse) nelle campagne di sacrofano, aveva lanciato prima della morte un’accusa pesante: «Non voglio essere giudicato dai collusi».
La rete di perugia aveva fatto raccolta abbondante di pesci grossi e di pesci piccoli. Oltre ai già citati, il costruttore pietro Mezzaroma, comproprietario della Roma calcio, il procuratore di civitavecchia Antonio Albano (la figlia avrebbe ottenuto una consulenza da Mezzaroma), il PM Antonino vinci, il generale della Finanza Giovanni verdicchio messo a capo della DiA, la Direzione investigativa antimafia e dimissionario, dirigenti di enti previdenziali (per compravendite di immobili). E un nuovo guaio – o vecchio e riciclato secondo la difesa – per Francesco Misiani, l’uomo di punta della magistratura di sinistra che era stato trasferito da Roma a Napoli per il suo interessamento all’inchiesta contro Renato squillante, e che veniva chiamato in causa per una consulenza data da Mezzaroma al figlio (il figlio di Misiani).
Di striscio, ma non senza far male, il pool perugino ferì – involontariamente – anche il Ministro in carica del commercio estero, Augusto Fantozzi. I carabinieri che pedinavano Melpignano prima dell’arresto, e che ne documentavano i movimenti, l’avevano visto incontrarsi con un’altra persona nello storico caffè Greco di via condotti a Roma. L’altra persona era appunto Fantozzi, e una mano caritatevole aveva fatto pervenire alla stampa l’istantanea che i carabinieri avevano scattato. Imbarazzato, il Ministro aveva subito offerto una spiegazione. S’era abboccato con Melpignano, che sapeva in ottimi rapporti con il nuovo proprietario del «Tempo» Francesco Gaetano caltagirone, perché inducesse il quotidiano a desistere da un’inchiesta che in qualche modo coinvolgeva anche lui, Fantozzi. In parole povere, voleva essere raccomandato da Melpignano, e alla luce degli avvenimenti successivi quella mossa non poteva dirsi indovinata. In questi termini il peccato del Ministro era veniale, anche se attestava il perdurare di malvezzi che è comodo attribuire alla prima Repubblica ma che sono una connotazione perenne della politica italiana: più grave, il ricorso a pratiche così discutibili, perché dovuto a uno dei fondatori di Rinnovamento italiano. Ci fu chi chiese le dimissioni del Ministro, attaccato anche all’interno dell’ulivo e difeso strenuamente dal leader del suo partito, Lamberto Dini. Prodi smussò: è la sua specialità. Caricaturisti e battutisti flagellarono il povero fantozzi che era sempre stato, per l’omonimia con il personaggio creato da paolo villaggio, una facile preda. Ma non accadde altro, per il momento.