CAPITOLO OTTAVO

«A CASTELLANZA, A CASTELLANZA»

La lunga marcia verso una revisione profonda della costituzione repubblicana era cominciata con i referendum voluti da Mario segni: che tuttavia non incidevano, dal punto di vista formale, sulla Magna charta della Repubblica perché il sistema elettorale è deciso con leggi ordinarie. E tuttavia quei referendum, sfociati nei compromessi del mattarellum (per le politiche) e del tatarellum (per le amministrative), avevano assestato – insieme alla Lega e a Tangentopoli – un colpo rude al palazzo, in alcune sue parti diroccato ma non ancora ristrutturato. Il coro furibondo che nei decenni precedenti aveva zittito, con le buone o cattive, ogni accenno ad un aggiornamento costituzionale – ne aveva saputo qualcosa il povero Randolfo pacciardi che si batteva per il presidenzialismo, ed era stato incriminato come golpista – non trovava più ascolto. Il popolo aveva detto la sua, e l’aveva detta in maniera che più esplicita non poteva essere: e i nostalgici del passato – ce n’erano tanti – si vedevano costretti a mascherare con formule ambigue il loro rimpianto, e il loro sotterraneo desiderio di veder ripristinato l’edificio istituzionale «com’era e dov’era»: sì agli aggiornamenti, no a rifacimenti che buttassero via, insieme a talune norme invecchiate della costituzione, il molto di buono che essa conteneva; e che veniva ravvisato soprattutto nella sua ispirazione sociale. Le vie percorribili per arrivare alle riforme erano in sostanza due: una costituente, ossia un parlamento «monotematico», che in piena autonomia rifondasse la Repubblica; o una commissione bicamerale – composta cioè in pari numero da deputati e senatori – che elaborasse un progetto da sottoporre alla decisione finale del parlamento, con le complesse procedure previste dalla costituzione vigente per ogni sua modifica. Il polo s’era pronunciato per la costituente, così come segni e l’ex presidente della Repubblica Francesco cossiga. Solo un’assemblea, eletta con la proporzionale, che non fosse coinvolta nella quotidianità dei lavori parlamentari, poteva garantire all’opera di rifondazione dello stato – sostenevano i fautori della costituente – l’indispensabile autorevolezza. I bicameralisti obiettavano che si sarebbe avuta una duplicità parlamentare, e che per di più dal diverso criterio d’elezione potevano derivare contraddizioni e conflitti. Berlusconi – che agli accomodamenti è incline – non fece della questione un motivo di rottura.

Fu dunque Bicamerale. Il via libera alla commissione venne, a Montecitorio, da una maratona notturna con 56 ore di seduta quasi ininterrotta e 132 votazioni rese necessarie dall’ostruzionismo della Lega: che insieme a Rifondazione comunista, alla Rete e ad alcuni sparsi rappresentanti del PDS e dei verdi, non voleva che la legge passasse. Ma si era ai primi di agosto (1996), il caldo opprimeva e incalzavano le vacanze: due argomenti di fronte ai quali anche le resistenze più pugnaci finiscono per afflosciarsi. La votazione finale fece registrare 382 sì, 77 no e 27 astensioni. Da allora fino al giorno in cui la commissione debuttò – 5 febbraio 1997 – il dibattito delle forze politiche fu dedicato al problema della presidenza. Chi avrebbe guidato i settanta saggi incaricati di ridisegnare il profilo istituzionale dell’italia? Ancora una volta funzionò il sottile ma tenace filo d’intesa che, nei momenti tòpici, ha legato Massimo D’Alema a silvio Berlusconi. Il cavaliere sapeva di non avere, per se stesso o per uno dei suoi, speranze: gli erano contrari sia i numeri sia gli umori. Fors’anche Berlusconi, che è un talentuoso pragmatico ma non un sottile esperto di regolamenti e di architetture costituzionali, temeva – nonostante l’innato ottimismo e la fiducia smisurata in se stesso – una brutta figura. Tutt’al più sarebbe stata pensabile una presidenza cossiga che tuttavia avrebbe generato disorientamento, ponendo l’importante e imprevedibile ex alla testa d’un organismo che aveva osteggiato: e comunque lui stesso s’era dichiarato indisponibile. Nel campo avversario il candidato meno ostico per il polo pareva D’Alema, ben deciso a parole – nella pratica ebbe più d’una oscillazione – a distinguere nettamente i problemi della Bicamerale, e le sue maggioranze, dai problemi e dalla maggioranza di governo. Sarà infatti scandalo quando D’Alema, un giorno, confesserà – presto facendo marcia indietro – d’anteporre la sopravvivenza politica di Prodi alle intese sulle riforme. Così Massimo D’Alema, l’antipatico intelligente che nei suoi stessi sostenitori suscitava rispetto o perfino ammirazione, ma di rado simpatia, e che doveva fare i conti – all’interno del PDS – con l’ostilità aperta di Achille occhetto, ebbe un incarico storico che per prestigio oscurava la posizione di Prodi. Ottenne 52 voti su 70, in suo favore: oltre agli ulivisti, anche il polo, astenuta Alleanza nazionale. Sull’Aventino – uno dei suoi tanti, intercalati da brevi ritorni – la Lega. I due presidenti dell’ulivo – l’uno del consiglio, l’altro della Bicamerale – non potevano essere, per lo stile, più diversi. Altero e all’occasione sprezzante – in particolare verso i mezzi d’informazione – D’Alema, sempre bonario e accomodante Prodi: anche se quella tonaca da fratone bolognese copriva la corazza d’un boiardo uscito indenne – o quasi – da molte battaglie.

La Bicamerale s’insediò, al primo piano di Montecitorio, nella sala chiamata della Regina. Proprio la Regina d’Italia vi sostava infatti una volta all’anno mentre il Re, assiso sul trono installato nell’aula parlamentare, leggeva il discorso della corona. Poiché la Regina più assidua nel frequentare il locale era stata – per la durata del regno di vittorio Emanuele iii – Elena di savoia, s’era pensato di dedicarle la sala, ma non se ne fece nulla. Regina e basta. In tempi normali quel vasto ambiente, che sta proprio sopra il Transatlantico dei conciliaboli, era stato utilizzato per scopi piuttosto modesti. Sotto i grandi lampadari in ferro battuto i neofiti del parlamento firmavano, all’inizio della legislatura, i documenti di rito: tra essi l’assicurazione «rischio volo» e la dichiarazione sostitutiva dell’atto di notorietà. Come blasone la sala della Regina non poteva confrontarsi con l’altra che le sta di fronte, detta della Lupa, dove nel giugno del 1946 furono annunciati i risultati del referendum da cui nacque la Repubblica: ma ha avuto finalmente i suoi mesi di gloria. Alla Bicamerale era stato assegnato un termine tassativo per la conclusione delle sue sedute: il 30 giugno 1997. Dopodiché spettava alla camera e al senato, in due votazioni intervallate d’almeno tre mesi l’una dall’altra, di approvare – o no – il progetto o i progetti di riforma. Concluso anche questo iter parlamentare complesso, le modifiche della costituzione sarebbero state sottoposte a un referendum popolare confermativo. Se i cittadini dicono sì – e se lo dice la maggioranza degli aventi diritto come è previsto per i referendum, validi solo quando venga raggiunto il quorum – il testo assoggettato a tutte queste verifiche diventa legge dello stato. Una lunga corsa a tappe o se preferite una via Crucis. Si mormorò infatti che per un preoccupato scalfaro fossero state di grande sollievo le parole di Nicola Mancino: «I tempi parlamentari saranno tali da arrivare presumibilmente alla scadenza del mandato presidenziale: tenendo presente che occorrerà aspettare la conclusione della Bicamerale, il dibattito in aula, la doppia lettura e il referendum confermativo». Il capo dello stato non avrebbe insomma avuto problemi, quale che fosse il testo approvato, fino al ’99 e all’inizio del suo «semestre bianco», svuotato di poteri.

Su alcuni punti le forze politiche – per consenso vero o per rassegnazione – furono unanimi. Era ritenuto ovvio che l’esecutivo avesse poteri di gran lunga accresciuti, in confronto a quelli dei governi nella prima Repubblica, che il parlamento dovesse essere sfoltito, che l’Italia dovesse avere una struttura federale, con larga delega di poteri e di funzioni alle Regioni e ai comuni. Ma come irrobustire l’esecutivo? Questo era il primo e maggiore dilemma, già affrontato – lo si e visto – quando Maccanico aveva tentato di formare un governo con larga base parlamentare, incaricato di porre mano alle riforme. D’Alema – e l’ulivo con lui – era per il cosiddetto «premierato forte», il polo era per il presidenzialismo (o semipresidenzialismo alla francese). Con il premierato, il capo dello stato avrebbe mantenuto le sue caratteristiche – indebolite – di notaio delle istituzioni e di garante della legalità, il timone del paese l’avrebbe impugnato il premier, che D’Alema voleva indicato, nella scheda delle politiche, insieme ai singoli candidati d’ogni schieramento ai seggi parlamentari. A scrutinio concluso il presidente della Repubblica non avrebbe avuto margini di discrezionalità nella nomina del capo del governo: la carica sarebbe toccata, automaticamente, al leader del partito o della coalizione vincente. Nessun voto di fiducia, all’inizio della legislatura, perché la fiducia sarebbe «presunta», derivando dalla composizione delle camere. Al premier veniva affidata anche la facoltà di sciogliere il parlamento: facoltà non più utilizzabile, tuttavia, quando venisse presentata da un terzo dei parlamentari una mozione di sfiducia costruttiva nella quale fosse indicato il nome del nuovo premier. Il premierato forte ha un precedente di qualche rilievo in un solo paese, israele.

Tutt’altro discorso per il presidenzialismo o il semipresidenzialismo: che vige – il presidenzialismo – nella quasi totalità degli stati americani, a cominciare dalla superpotenza USA, e che ha trovato realizzazione – il semipresidenzialismo – in Francia. I presidenzialisti italiani erano orientati verso il «semi»: con un capo dello stato che, eletto dai cittadini per cinque anni, possa essere confermato una sola volta. Questo capo dello stato ha una parte importante nella gestione del paese: nomina il primo Ministro e, su proposta di quest’ultimo, i Ministri; presiede il consiglio dei Ministri; può sciogliere il parlamento; ha un ruolo preminente nella politica estera e nella difesa. Abbiamo schematizzato sia le tesi contrapposte sia l’aggregazione degli schieramenti: al cui interno era tutto un crepitare – soprattutto ad opera dei «partitini» – di ni e di forse. C’era chi optava per il premierato forte purché forte non fosse per niente, e chi si pronunciava per l’elezione diretta del capo dello stato sottintendendo tuttavia che dovesse somigliare al presidente austriaco: che il popolo designa ma che poi taglia i nastri, pronuncia discorsetti nobili in cerimonie inutili e viaggia in continuazione. Come gli inquilini che al Quirinale si sono succeduti nell’ultimo mezzo secolo. In sottofondo alle dotte dispute sul premierato e sul semipresidenzialismo stava la questione – di minor altezza istituzionale ma di appassionante interesse per i politici – della legge elettorale. D’Alema aveva negato, in contrasto con uno degli autori di questo libro, che la Bicamerale se ne dovesse occupare. Ma ha ammesso lealmente, nel volume dedicato all’esperienza di presidente della Bicamerale, d’essersi sbagliato. «Nella forma avevo ragione» ha scritto D’Alema «perché effettivamente di leggi elettorali – non essendo materia costituzionale – non poteva occuparsi la commissione bensì il parlamento: ma nella sostanza, con il fiuto e il buon senso che lo contraddistinguono, Montanelli diceva la verità: non era pensabile un accordo sulla forma di governo che non prevedesse un’intesa sulle modalità di elezione della rappresentanza popolare.»

Le propensioni d’ogni partito per questo o quel sistema erano vincolate all’utile che il partito stesso – per le sue dimensioni e per le connotazioni del suo elettorato – ne avrebbe tratto alla prova del voto. I «cespugli» d’entrambe le coalizioni premevano perché la legge elettorale in fieri prevedesse una quota proporzionale il più possibile alta, ad evitare una crudele potatura. Il polo avversava, per l’elezione del parlamento, il doppio turno non a caso voluto da D’Alema: perché aveva constatato, nelle amministrative, quale accorta e fruttuosa utilizzazione l’ulivo sapesse farne. «Rischiamo d’averli al potere per vent’anni» ammoniva cupo qualcuno, nel centrodestra. Vi furono a sinistra come a destra, durante il cammino della Bicamerale, oscillazioni e marce indietro: era difficile infatti conciliare le esigenze dei grandi partiti con quelle dei piccoli. Il travaglio fu penoso soprattutto per Berlusconi che, sorvegliato da Fini e incalzato dai cespugli ex democristiani, si dedicava alla quadratura del circolo. In una vivace polemica con lui, Giovanni sartori – geniale e un po’ arrogante politologo – gl’imputò continui voltafaccia. Nel programma elettorale di Forza italia, scrisse sartori, Berlusconi s’era pronunciato per il semipresidenzialismo e per il doppio turno (il mattarellum gli pareva «una legge pericolosa e scellerata, che impedisce di governare»): ma il 5 giugno 1997 s’era dimostrato di tutt’altro avviso («l’attuale legge elettorale va bene così come è») e riteneva inaccettabile il doppio turno. Insomma, secondo sartori, un «cavalier Traballa»: nomignolo divertente, ma forse sarebbe stato meglio, dal punto di vista linguistico, «cavalier Tentenna». Uno dei tanti cavalieri Tentenna che affollano il palazzo.

C’era tanta carne al fuoco. Ma il grosso ostacolo che la Bicamerale incontrò muovendo i primi passi non riguardava i temi che abbiamo sintetizzato: riguardava invece la giustizia, che D’Alema riteneva in un primo tempo fosse anch’essa estranea ai lavori della commissione, ma che di quei lavori divenne subito protagonista. Il senatore Marco Boato – il cui pedigree politico annoverava una antica militanza in Lotta continua e una militanza «matura» nei verdi – era stato incaricato d’elaborare, in uno dei comitati della commissione (quello sulle garanzie), una relazione. Ci si era messo d’impegno: e pur senza accogliere in pieno la tesi di centrodestra su una separazione netta delle carriere in magistratura, le si avvicinava molto. Secondo Boato i magistrati avrebbero avuto un’iniziazione comune in un collegio giudicante: conclusa la quale il CSM avrebbe vagliato le domande – e valutato le vocazioni – assegnando i giovani magistrati o alle procure o alle funzioni di giudici. Il passaggio dall’una all’altra carriera sarebbe stato a quel punto possibile solo con il superamento d’un concorso interno. Boato prevedeva anche un CSM che fosse diviso in due sezioni, una per i PM e una per i giudici, e che fosse composto per tre quinti da «togati» e per due quinti da laici.

Il progetto aveva avuto la benedizione ufficiale dell’ulivo. Il polo, che forse non se l’aspettava nemmeno così vicino alle sue posizioni, declamò il suo rifiuto più per obbligo di copione che per convinzione. Ma i gridi d’indignazione vennero dalla sinistra «giustizialista», quella che era abituata a far quadrato attorno alla magistratura, e che vedeva in Boato – e indirettamente in D’Alema, in salvi, nel responsabile del PDS per la giustizia Folena – dei traditori della causa. Paolo Flores d’Arcais, che con la rivista «MicroMega» era l’apostolo delle procure, raccolse una quindicina di firme d’intellettuali noti – tra loro Giorgio Bocca, vittorio Foa, Giulio Einaudi – contro la bozza, preannunciante secondo loro un ritorno al «regime craxiano» (con ironia Boato replicò che il comitato giustizia della Bicamerale avrebbe tenuto conto di tutti i documenti ricevuti, ed era in attesa d’eventuali documenti di lavoratori manuali, dopo quello dell’intellighenzia). La spaccatura era, nella sinistra, profonda. Cinquantanove senatori e cinquantacinque deputati dell’ulivo, guidati rispettivamente dall’ex magistrato Raffaele Bertoni e da Elio veltri, fedelissimo di Antonio Di Pietro, sottoscrissero a loro volta un appello contro la bozza Boato, scorgendovi un attacco all’indipendenza della magistratura. «Evidentemente» tuonava Bertoni «Il suo [di Boato, N.d.A.] nemico resta la giustizia, come ai tempi di Lotta continua.» Era una sollevazione: che sottintendeva un pesante sospetto. D’Alema avrebbe svenduto la giustizia in cambio della legge elettorale; ossia, in parole povere, io dò a voi del polo la separazione delle carriere purché voi mi diate il doppio turno nelle politiche. Con il suo piglio da maestro, o da sergente istruttore, D’Alema bacchettò in una concitata riunione i gruppi parlamentari, senza però riuscire ad ammansirli del tutto. E intanto fioccavano le reazioni delle procure, vaticinanti la catastrofe della giustizia se la linea di Boato fosse prevalsa. Non mancarono, nella polemica, ripetuti accenni al piano di rinascita nazionale della p2, che prevedeva tra l’altro la separazione delle carriere. L’evocazione di Gelli e di craxi accostava la separazione delle carriere – con il collaudato metodo polemico e propagandistico dell’«abbinamento» – a personaggi universalmente esecrati, e così demonizzava quanti per la separazione delle carriere si pronunciassero.

Con l’inizio di giugno del 1997 – a fine mese i lavori dovevano essere conclusi – si arrivò alle votazioni. La prima riguardava la scelta tra il semipresidenzialismo caro al polo e il premierato forte preferito da Massimo D’Alema (le due soluzioni erano interpretate, da gruppi e gruppuscoli, con una genericità elastica che di sicuro non aiutava gli italiani ad orientarsi). Alla vigilia del voto il premierato sembrava comunque favorito, di misura. Gli esperti avevano fatto i conti senza prendere in considerazione la Lega, che dalla Bicamerale s’era estraniata, e che non aveva dedicato neppure un briciolo d’interesse allo schema federalista di Francesco D’onofrio, ex democristiano e Ministro dell’istruzione nel governo Berlusconi: eppure quello schema, che prefigurava un’Italia divisa in venti Regioni dotate di ampia autonomia finanziaria, e abilitate a legiferare in molti campi, avrebbe dovuto essere un campo di battaglia leghista: ma Bossi l’aveva snobbato (tutta aria fritta). La secessione o il caos. Senonché il grande assente attuò uno dei suoi colpi di mano malandrini: i sei «commissari» della Lega in sonno si risvegliarono per dire, inattesi, la loro; e approvarono il semipresidenzialismo. Bossi s’affrettò a sottolineare, con l’abituale brutalità, che di presidenzialismo e premierato non gli importava un acca, e che aveva voluto soltanto vanificare i giuochi del palazzo (secondo lui D’Alema e Berlusconi erano compari, e i loro litigi una sceneggiata).

Lo sgambetto del senatur aveva gettato lo scompiglio nella recita politica. Stracciato il copione, i partiti dovevano recitare a soggetto. Il polo inneggiò ad un trionfo che era stato – fu detto – dell’amato semipresidenzialismo e della democrazia insieme. In quell’ora fu dimenticato che Bossi era a doppio titolo un reprobo: perché era stato l’artefice del «ribaltone», e tradendo i suoi alleati aveva portato al potere prima Dini e poi l’ulivo; e perché era il nemico della patria, termine caro sia a Forza italia, sia (e più) ad Alleanza nazionale. Massimo D’Alema, che aveva ripetutamente sollecitato la Lega a non disertare la Bicamerale, se l’era trovata tra i piedi nella sala della Regina proprio al momento in cui meno ce l’avrebbe voluta. Nell’ulivo le reazioni furono irritate. Walter veltroni, che della politica ha a volte una concezione cinematografica, avrebbe voluto che l’intera vicenda venisse azzerata, come se quel voto non fosse mai esistito. La Lega – insieme a veltroni lo pensava anche Bertinotti – non poteva entrare e uscire nella Bicamerale quasi fosse un bar, i suoi consensi erano inquinati e inaccettabili (l’argomento ricordava quelli usati durante decenni contro i missini, e faceva alquanto a pugni con quanto era accaduto allorché i voti della Lega venivano accolti con letizia sia dal polo sia dalle sinistre). Nel trambusto dell’ulivo Massimo D’Alema onorò il suo seggio di presidente osservando che un voto è un voto, non olet, e che è inutile stare a discutere sulle sue credenziali. Bisognava prenderne atto, e cercare di farne il miglior uso.

Non è escluso – i politici hanno intenzioni sotterranee di difficile decifrazione – che tutto sommato quell’incidente non l’avesse angosciato. Dietro l’etichetta del semipresidenzialismo possono stare molte cose, e molto diverse: e l’arrendersi ad essa gli offriva possibilità di negoziato, ossia di baratto. Lo si vide il 13 giugno (1997) a castel-lanza: dove una parte cospicua dell’Italia che conta s’era precipitata, obbedendo ad un cenno di Antonio Di Pietro che in quella libera università insegnava, e che aveva indetto un convegno così intitolato: «Dalla parte del cittadino». Poteva sembrare stravagante che un professore – come tale non particolarmente accreditato – quale è Antonio Di Pietro, e una università secondaria – quale ha castellanza – avessero avuto l’ardire di proporre un tema così ponderoso in contemporanea alla stretta finale della Bicamerale; e ancor più che per discettarne a castellanza vi si fossero catapultati politici eminenti e politologi illustri, incluso il presidente stesso della Bicamerale. Ma la chiave del mistero – che poi non lo era per niente – stava nella figura d’un Di Pietro «esterno» alla politica, eppure nella politica inserito con prepotenza dal suo attivismo presenzialista e dalla sua popolarità. Di Pietro poteva permettersi il lusso di non credere alla Bicamerale, e d’avere al suo fianco D’Alema. «che abbia vinto il semipresidenzialismo» aveva scritto su «oggi» dopo il voto a sorpresa «è tutto da dimostrare. Personalmente sono più scettico che mai. Si è trattato solo d’un primo voto, scompaginato dalla contestazione leghista. Un voto che – con il giuoco degli emendamenti e dei ripensamenti – corre il concreto rischio di venire ribaltato di qui a breve, dapprima nella Bicamerale e poi soprattutto in parlamento. Vedrete che alla fine il risultato sarà sempre lo stesso: i partiti non permetteranno mai agli elettori di scegliere autonomamente, e senza la loro intermediazione, le massime cariche istituzionali.» parole sante ma anche parole ovvie. Il novanta per cento degli italiani la pensava, a lume di naso e senza alcun avallo accademico, alla maniera di Di Pietro. L’ovvietà sensata e detta con impeto contadinesco è del resto la sua forza.

«A castellanza, a castellanza» dunque. Vi furono diserzioni di rilievo. Anzitutto quella di silvio Berlusconi che, essendogli stato chiesto se volesse essere della partita, aveva replicato con uno sprezzante «mi volete forse insultare? in Bicamerale ci sono i fatti, altrove le chiacchiere». Assente anche cossiga e, con un sottofondo di ripicca, occhetto che se appena gli viene nominato D’Alema vede rosso (o nero, difficile precisare vista l’ascendenza ideologica di Achille). Lo stesso Di Pietro comunicò che occhetto, inserito nel comitato promotore del convegno, s’era defilato dopo aver saputo che D’Alema non sarebbe stato, a castellanza, un silenzioso e rispettoso spettatore, ma un coprotagonista. Un po’ in ombra invece Gianfranco Fini. Di Pietro – che secondo i sondaggisti valeva ancora milioni di voti – si schierò con D’Alema: sì al semipresidenzialismo, sì al doppio turno. Il resto sarebbe stato cornice parolaia e basta se l’ex collega di Di Pietro piercamillo Davigo non avesse mosso le acque – ed entusiasmato i dipietrini a oltranza – dicendo con la sua allarmante perentorietà che i diritti della difesa sono importanti, ma ancor più importante è il diritto di difendere la società: principio in sé condivisibile ma che – la storia l’insegna – ha offerto un comodo alibi ai Torquemada (basta sostituire fede cattolica a società) e ai viscinski.

Gli italiani non davano segno d’appassionarsi alla Bicamerale, forse erano stanchi di ripetitivi dibattiti politici ai quali la televisione e la stampa davano smodata risonanza. Le indigestioni – anche quelle di chiacchiere – portano alla nausea, e se ne ebbe una dimostrazione con il naufragio, il 15 giugno 1997, della votazione per i referendum. Il popolo era chiamato a pronunciarsi su otto quesiti, sette proposti da Marco pannella e uno dalle Regioni. La scure della corte costituzionale aveva amputato il corpus referendario ammassato dall’instancabile e un po’ folcloristico Marco dei suoi pezzi migliori: in particolare del referendum (il solo capace forse di destare grande interesse) che voleva abrogare la quota proporzionale del mattarellum e instaurare un sistema elettorale maggioritario «puro», senza correzioni. I partiti dell’ulivo erano stati o tiepidi o – come Rifondazione comunista – contrari, nel polo Berlusconi s’era pronunciato a favore, ma senza scalmanarsi. Complice la domenica soleggiata e molto calda, i cittadini preferirono alle urne un weekend di vacanza, o restarono a casa. L’affluenza si aggirò sul trenta per cento, il che invalidava la consultazione (costata quasi mille miliardi) essendo mancato il tassativo quorum del cinquanta più uno per cento. Pannella attribuì l’insuccesso sia all’indifferenza dei media, sia ad una congiura di regime: e nei giorni precedenti il voto si presentava in televisione con un lenzuolone bianco da fantasma. Si deve rispetto alla tenacia di pannella – che sconfitto ma non domo annunciò a tambur battente un’altra infornata referendaria – ma si deve anche dire che le cause profonde dell’insuccesso erano altre. È vero che per un lungo periodo il tema dei referendum era stato snobbato dai telegiornali e dai quotidiani: è altrettanto vero che esso era stato illustrato e propagandato, nell’imminenza del 15 giugno, con martellante insistenza. Quanto ai partiti, il signor Antipartito per eccellenza non poteva illudersi d’averli alleati. E poi quando la gente «sente» un problema non c’è partito che tenga: basta ricordare il referendum di segni sulla preferenza unica e la valanga di sì con cui gli italiani avevano risposto all’invito di craxi – che era craxi, non un politico qualsiasi – perché andassero al mare. L’istituto del referendum è prezioso quando riguardi temi grandi e semplici (monarchia o repubblica, aborto sì o no, divorzio sì o no) o quando il quesito proposto sia caricato di particolari significati (il sì alla preferenza unica, che fu uno schiaffo alla partitocrazia).

I temi minori, o dalla gente ritenuti tali, non funzionano se la validità del referendum è soggetta a una partecipazione massiccia. È probabile che nella memoria collettiva fosse impressa, e causasse frustrazione, anche la facilità con cui le astute lobby politico-burocratiche vanificano la volontà del popolo. Venne votata con schiacciante maggioranza la responsabilità civile dei magistrati per i loro errori più macroscopici, e non se n’è saputo più nulla. Venne votata l’abolizione del Ministero dell’Agricoltura, e il Ministero stesso risorse prontamente con una diversa etichetta. È accaduto che un referendum – quello sul nucleare – fosse stravolto dai politici per fini demagogici: s’era chiesto agli italiani se volessero che determinate facilitazioni concesse agli enti locali che autorizzavano i siti nucleari dovessero essere abolite, e la risposta affermativa venne interpretata come uno stop totale al nucleare, perfino ad una centrale in avanzata fase di costruzione, con lo spreco di migliaia di miliardi. Insomma i cittadini votano ma i politici e i burocrati interpretano, adattano, e qualche volta se ne infischiano. La disfatta del 15 giugno ha ispirato riflessioni sulle modifiche da apportare all’istituto del referendum e in particolare sull’opportunità d’introdurre il referendum propositivo, che non si limita ad abrogare una legge, ma crea una legge. Ci dispiace per pannella, ma la prima regola dei referendum (consentiteci di non scrivere referenda, al plurale) è: pochi ma buoni.

Il colpo d’acceleratore all’accordo in Bicamerale – che era comunque solo una premessa di buon augurio al dibattito in parlamento – non venne dalla sala della Regina: venne, molto italianamente, da una cena a quattro nella casa di Gianni Letta, l’azzimato giornalista che di Berlusconi è il mentore politico, e che dai suoi trascorsi democristiani attinge inesauribili risorse negoziali. Commensali di Letta furono Berlusconi, D’Alema, Fini e Marini: quest’ultimo – non è un caso che si tratti d’un altro ex democristiano – aveva ideato un sofisticato congegno elettorale capace d’intrecciare il doppio turno al turno unico. Da allora, pur con qualche sussulto polemico, la strada verso l’approvazione della bozza – che nel termine stabilito del 30 giugno 1997 venne approvata dalla commissione – fu tutta in discesa. I «professori» del polo e dell’ulivo, che s’erano affannati a elaborare schemi e a combattersi, vennero messi da parte come sofisti malati di perfezionismo astratto, e come disturbatori: o meglio – secondo un’espressione attribuita a Berlusconi, che peraltro negava d’averla mai usata – dei «rompiballe». Tra D’Alema e Berlusconi era idillio, si aveva l’impressione che le battute maligne che i due s’erano a lungo scambiate appartenessero a un’era delle caverne e dei cavernicoli: cui era seguita l’era salottiera degli scambievoli elogi. Nell’ora dell’abbraccio i cronisti politici, che hanno la memoria lunga, ricordavano impietosi che per il Berlusconi avvolto in pelli d’animali e munito di randello D’Alema aveva «Il baffo che ghignava sinistro» ed era «bravo soltanto a tirare le molotov, a fare i picchetti e ad accasare la mamma e gli amici a costi bassi»; e per D’Alema, anche lui in versione uomo di Neanderthal, il cavaliere era «un cinico irresponsabile», «uno squadrista televisivo», uno che «porta i tacchi alla Little Tony». Acqua passata. Passata al punto che Fini, il bieco nostalgico, s’era redento e dava il suo «apporto costruttivo» al «lavoro comune». Il progetto passò facilmente con 51 sì, 9 no, 3 astenuti. Assente la Lega. Avevano espresso voto contrario i «commissari» di Rifondazione e gli «autonomisti» dell’Alto Adige e della valle d’Aosta, oltre ad Achille occhetto indomabile nella sua solitaria battaglia antidalemiana. Fisichella – inascoltato «professore» di Alleanza nazionale – s’era astenuto.

Nel palazzo era festa per il traguardo raggiunto, tra i commentatori prevalevano le perplessità. Un pasticcio, un ginepraio, un compromesso di basso profilo. E comunque non più che un’indicazione – più vincolante d’un consiglio ma meno d’una decisione formale – al parlamento. Vediamo i punti di maggior rilievo.

Presidente della Repubblica. È eletto direttamente dal popolo con maggioranza assoluta (si va al ballottaggio se nel primo turno nessun candidato raggiunge il cinquanta più uno per cento), resta in carica sei anni, dirige la politica estera e la difesa nazionale, non è capo dell’esecutivo, nomina il primo Ministro e su proposta di questi i Ministri. Un presidente che è una via di mezzo tra l’austriaco – lo elegge il popolo ma ha funzioni notarili, il potere lo esercita il cancelliere – e il francese, che presiede il consiglio dei Ministri. Non è ben chiaro, in questo adattamento all’italiana del semipresidenzialismo francese, se ai vertici internazionali – dove non si discute solo di politica estera e di difesa, ma dei più svariati argomenti – debba partecipare il presidente, o il presidente con il primo Ministro, o il solo primo Ministro. Il presidente della Repubblica può sciogliere il parlamento solo in caso di dimissioni del governo (ma il primo Ministro deve dimettersi dopo l’elezione d’un nuovo presidente): lo scioglimento è interdetto nel primo anno di legislatura e negli ultimi sei mesi del mandato presidenziale.

Parlamento. Camera di 400 deputati (possono essere eletti coloro che abbiano compiuto i 21 anni), 200 senatori (minimo d’età 35 anni) e in più un «camerino», ossia una commissione delle autonomie composta per un terzo da senatori, per un terzo dai presidenti delle Regioni, per un terzo da rappresentanti degli enti locali: il camerino ha diritto d’interloquire sulle leggi che riguardano le autonomie. Alcuni «professori» avrebbero voluto che il senato non fosse un «ristretto» della camera, ma che avesse composizione e compiti diversi: suppergiù la composizione e i compiti del camerino. Ma tra i senatori attuali – e aspiranti futuri senatori – c’era stata una sollevazione, e pur senza dirlo esplicitamente avevano minacciato di far fallire la Bicamerale se le loro prospettive politiche fossero state così umiliate. Il parlamento non potrà essere scavalcato dai decreti legge con la frequenza di cui hanno fatto uso e abuso i governi italiani. Ai decreti legge l’esecutivo potrà ricorrere solo in presenza di emergenze riguardanti la sicurezza nazionale o per norme finanziarie da attuare immediatamente.

Referendum. Occorrerà un maggior numero di firme (ottocentomila) per chiederli, sarà imposto un tetto al numero dei quesiti proponibili in ogni «tornata», verrà introdotto il referendum propositivo: che cioè legifera, e non si limita a cancellare una legge esistente. In realtà alcuni dei referendum già proposti agli italiani sotto veste abrogativa erano propositivi, ma a questo risultato si arrivava con una formulazione acrobatica e involuta dei quesiti.

Federalismo. «La Repubblica è costituita da comuni, province, Regioni e stato» recitava la bozza, e aggiungeva che «allo stato sono riservate 31 materie su cui ha competenza esclusiva», il resto era competenza delle Regioni. Ma poi il documento della commissione, che pareva incamminato con risolutezza sulla via del federalismo, rallentava molto – come già era accaduto con il presidenzialismo – il suo slancio: tanto che lo stesso D’onofrio non vi riconosceva più il suo disegno fortemente decentratore.

Giustizia. La rivolta del «partito dei giudici» contro la «bozza Boato» aveva seminato zizzania e dubbi nella maggioranza. Nessuno, neppure D’Alema che pur l’aveva avallato, osava sostenerlo a oltranza. Poiché l’ostacolo appariva troppo alto, e la Bicamerale rischiava di caderci senza rimedio, si ricorse a un espediente infallibile: aggirarlo. La proposta di Boato ebbe un’approvazione formale, ma venne trasmessa tale e quale al parlamento con l’intesa che là si sarebbe svolta la vera discussione sul tema.

Legge elettorale. La legge elettorale che non è, a stretto rigore, materia costituzionale – la regolano leggi ordinarie – faceva però da sottofondo, lo si è già rilevato, a tutte le altre questioni. La Bicamerale ha approvato, in proposito, un ordine del giorno – rifiutato da Rinnovamento italiano e dalla Lega – che varava un mattarellum 2. Se il mattarellum 1 era stato flagellato dalle critiche, questa sua riedizione s’è meritata la bocciatura dei professori d’ogni colore. Un intreccio aggrovigliato di maggioritario e di proporzionale, di doppio turno e di turno unico. Resta la stessa del mattarellum 1 la proporzione tra i seggi parlamentari ottenuti con il maggioritario (75 per cento) e i seggi ottenuti con il proporzionale (gli altri). Ma qui comincia l’avventura. Citiamo da una sintesi del «Corriere della sera» che, volendo fare qualche chiarezza nel garbuglio, ne ha resa più evidente la labirintica complessità. Allora: «parte dei seggi assegnati con metodo maggioritario sarà attribuita in un secondo turno elettorale costituito da un ballottaggio unico nazionale tra le due coalizioni che nel primo turno hanno ottenuto il più alto numero di seggi. Il numero dei seggi assegnati nel secondo turno dovrà promuovere una netta bipolarizzazione elettorale in grado da rendere decisivo il ballottaggio tra le due coalizioni risultate più forti nel primo turno. Alla coalizione che avrà ottenuto il maggior numero di voti al ballottaggio sarà garantita una percentuale di seggi che assicuri una stabile maggioranza». È arabo, o quasi, il riassunto semplificatore, immaginatevi il testo originale: che doveva conciliare – da lì i contorcimenti – la presenza dei partiti minori e il bipolarismo, la voglia di turno unico di Berlusconi e la voglia di doppio turno dell’ulivo. Ne è uscito – secondo i punti di vista – un miracolo politico o un mostro istituzionale (e linguistico).

Dopo i festosi congedi i bicameralisti si diedero appuntamento per il settembre successivo, ossia per le riunioni durante le quali sarebbero stati esaminati, accorpati e votati gli emendamenti che tra il 1˚ e il 30 luglio fossero stati presentati dai parlamentari (tutti i 955, non soltanto i 70 della Bicamerale). Della pausa profittò il palazzo per sollevare un problema che a noi sembra d’infimo rilievo, ma che accese l’interesse degli esperti. Cosa sarebbe avvenuto se alla scadenza del mandato di scalfaro, nel maggio del 1999, la revisione costituzionale non fosse stata completata? Era il caso di procedere, con la vecchia procedura, all’elezione d’un presidente di breve durata, oppure era meglio pensare, in perfetto stile italico, a una prorogatio? La seconda era l’ipotesi che godeva di maggior credito: lo stesso scalfaro s’era detto disposto, con l’aria di temere quell’amaro calice, a prolungare il soggiorno al Quirinale. D’Alema avvertiva ironico: «ci penseremo a suo tempo, se occorrerà, sarebbe come se uno programmasse adesso i festeggiamenti per il capodanno del duemila».

Archiviata – salvo i previsti strascichi – la Bicamerale, infuriò subito una caccia degna di Erode alla creatura che nella sala della Regina era venuta alla luce. Scontata la rabbia dei professori rompiballe, quel peperino di Giovanni sartori annunciava guerra al Da.Ma.Be.Fi., ossia al patto tra D’Alema, Marini, Berlusconi e Fini, e spiegava d’aver coniato la sigla in memoria dell’ormai esecrato CAF (craxi, Andreotti, Forlani). Alla protesta dei professori la gente non badava più che tanto. Badava invece alla reiterata scomunica di Antonio Di Pietro, che riprendendo alcuni argomenti svolti a castellanza rimproverava ai bicameralisti d’aver riportato il paese alla più buia partitocrazia. E s’iscriveva con l’eterno bastian contrario Mario segni e con Achille occhetto allo schieramento trasversale dei no, rafforzato da alcuni importanti ni, come quello del cauto Lamberto Dini. L’adesione di Di Pietro al cartello critico fu – gli accade sempre – condizionata. Non ama il gruppo, vuol essere, come coppi, un uomo solo al comando: «non salgo su alcun carro». Bertinotti, che ha la battuta pronta, osservava ironico: «Di Pietro rispunta? Direi piuttosto che incombe». Così era, in effetti: e alcuni supposero che l’irritazione dell’ex PM derivasse soprattutto da quei congegni della macchina costituzionale in fieri che mal si conciliavano ad esempio per la presentazione delle candidature al Quirinale – con l’idea d’un eroe forte unicamente della sua popolarità, sganciato dai partiti, nemico della politique politicienne, impegnato nella scalata del colle più alto. Un identikit che s’attagliava a lui, Di Pietro, e a nessun altro.

Alcune valutazioni della bozza uscita dalla Bicamerale le abbiamo già accennate nel corso di questo capitolo. Non s’è avuto il coraggio di copiare modelli collaudati e abbastanza soddisfacenti. Quella mancanza di coraggio la si è presentata come uno sforzo migliorativo, come l’assidua ricerca d’un modello ispirato da esperienze altrui, ma adattato alla specificità della tradizione, della politica, della cultura italiana. L’alibi ha consentito ogni inciucio e ogni pasticcio. Ma a conti fatti è andata meno peggio di quanto ci si potesse attendere, almeno in Bicamerale, perché un accordo è stato trovato, e alcuni percorsi sono stati tracciati. Nonostante i difetti da ogni parte segnalati, il parto della Bicamerale non sarebbe da buttar via se almeno lo si salvaguardasse così com’è. Un neonato gracile e debole, ma vivo. Il pericolo è che in parlamento la creaturina cagionevole sia martirizzata e mutilata, il che equivarrebbe a ucciderla. Saremo pessimisti per pregiudizio, ma in modifiche che la rendano robusta e simpatica stentiamo a credere.