Il 25 marzo 1996 Giacomo Mancini, ottantenne «patriarca» del disastrato psi e sindaco di cosenza, fu condannato dal Tribunale di palmi a tre anni e sei mesi di reclusione per concorso esterno in associazione mafiosa: e proprio con il «caso Mancini» vogliamo dare avvio a un capitolo che sarà tutto dedicato ai grandi processi di mafia (o di ’ndrangheta, che in sostanza è la stessa cosa seppure con diversa radice territoriale, la calabria anziché la sicilia). Una precisazione: con il termine «grandi processi di mafia» non vogliamo riferirci a quelli, anche di massima rilevanza cronistica o addirittura storica (si pensi al processo per la strage di capaci) che riguardano unicamente la criminalità nota e catalogata, sia pure nelle sue espressioni più feroci: perché il seguirne gli antefatti, la trama e lo svolgimento occuperebbe un libro, e un lungo libro. Vogliamo invece riferirci ai maggiori processi di mafia che hanno coinvolto personaggi pubblici di primo piano e che per questa loro singolarità hanno provocato reazioni e polemiche risonanti fino ai piani più alti del palazzo.
Mancini, dunque. Molti gridarono allo scandalo dopo la sentenza che precipitava nel fango un indomito leone della politica, campione dell’antifascismo, alfiere di battaglie contro la criminalità organizzata, accusatore del sistema tangentizio e perciò di craxi davanti ai magistrati di Mani pulite. Il passato di questo grintoso capopopolo, acclamato dalle folle nel suo feudo meridionale e discusso a Roma, era ricco di onori nonché di polemiche aspre. La sua fede socialista apparteneva al Dna politico della famiglia. Il padre pietro, primo deputato socialista della calabria, era stato mandato al confino da Mussolini. La casa di campagna dei Mancini era stata battezzata «L’area rossa». Sei volte Ministro, segretario del psi, Giacomo fu grande elettore di craxi nel memorabile congresso socialista del Midas (1976). Si racconta che proprio lui, esponente della sinistra, si fosse indotto a sostenere il rampante candidato con questa motivazione: «Mettiamoci Bettino alla segreteria. Non conta un tubo e fa contenti tutti». Profezia poco azzeccata, a dir poco.
Sull’immagine di questo massimalista impetuoso s’era addensata anche qualche consistente ombra negli anni settanta, quando gli era stato affidato il Ministero dei Lavori pubblici. Il settimanale d’estrema destra «candido», diretto dal bellicoso Giorgio pisanò, sostenne, in una inchiesta particolareggiata e velenosa, che l’autostrada salerno-Reggio calabria fosse stata lastricata, sotto l’egida manciniana, di favori e mazzette. Il clamore della campagna giornalistica non sfociò in provvedimenti giudiziari, anche se inferse un colpo serio alla credibilità politica e morale di Mancini e fu tra le cause del suo lento declino. Ma ciò che gli venne imputato molti anni dopo era cosa ben diversa dal coinvolgimento – presunto, intendiamoci – in un sistema tangentizio dal quale era attossicata l’intera vita pubblica italiana: era la contiguità e addirittura la collusione con le cosche; addebitata a chi contro le cosche aveva sempre tuonato, esprimendo piena solidarietà all’allora procuratore di palmi, Agostino cordova. Le insinuazioni erano venute, nel 1993, da alcuni «pentiti» di ’ndrangheta (in breve tempo se n’era assembrata una dozzina) concordi nel sostenere che Mancini aveva garantito il suo aiuto influente ai boss mafiosi Natale iamonte e peppino piromalli. «si faceva promettere da Natale iamonte l’appoggio elettorale della consorteria mafiosa da lui diretta» citiamo dal burocrate-se con cui i PM chiesero il rinvio a giudizio di Mancini, e il suo arresto rifiutato dal Gip «come prezzo della mediazione nei confronti dei magistrati della corte d’Appello di Bari che avrebbero dovuto giudicare il figlio di detto iamonte, Giuseppe, imputato dell’omicidio in pregiudizio di Domenico Artuso.»
Per effetto dell’incriminazione Giacomo Mancini fu sospeso dalla carica di sindaco di cosenza, e dovette presentarsi davanti ai giudici – tre signore – del Tribunale di palmi: dove il pubblico ebbe modo d’assistere alla rituale sfilata di «collaboranti» ciarlieri. Secondo uno di loro Mancini era stato coinvolto in un attentato al ponte di catanzaro che doveva favorire la fuga di Franco Freda, già imputato per la strage di piazza Fontana. Secondo un altro aveva fatto da mediatore in un sequestro di persona. Secondo un terzo partecipava a vertici loschi nella villa di Lodovico Ligato, l’ex presidente delle Ferrovie poi assassinato. Secondo un quarto consegnava denaro a emissari della ’ndrangheta o della sacra corona unita in stazioni di servizio delle autostrade. Non era mancato – come poteva? – un pentito che aveva saputo del bacio di Mancini a un notabile della criminalità. All’abbondanza dei pentiti faceva riscontro la scarsità, per non dire l’assenza, di prove o di riscontri: ma il concorso in associazione mafiosa non ne ha bisogno. Inquieta piuttosto che il PM Boemi, sostituto procuratore antimafia di Reggio calabria, abbia (a quanto riferito nelle cronache) detto testualmente: «Questa inchiesta supporta quella di palermo [contro Andreotti, N.d.A.] e da quella di palermo è supportata». La corte d’Appello di Reggio calabria ha poi cancellato, il 24 giugno 1997, la condanna di Mancini: per il motivo formale – dietro il quale era facile intravedere una perplessità sostanziale – che né la procura di Reggio calabria né il Tribunale di palmi erano competenti ad occuparsi dei fatti a lui addebitati. Su di essi doveva invece pronunciarsi, ricominciando da capo, la Magistratura di catanzaro. Per effetto di questa sentenza il «sospeso» Mancini ha riavuto la sua poltrona di sindaco. «Finalmente ho incontrato dei giudici» aveva commentato Mancini «dopo l’arbitrio, l’indifferenza, l’odio e la cattiveria espressi con un’istruttoria incredibile nei miei confronti.»
I vicendevoli supporti (per stare all’itagliese del dottor Boemi) non riguardano solo Mancini e Andreotti: in mezzo c’è Bruno contrada il cui processo è stato dai più valutato come una «prova generale» della successiva recita andreottiana. Oltretutto i due dibattimenti sono stati affidati allo stesso presidente, Francesco ingargiola. Al poliziotto contrada abbiamo già dedicato alcune pagine ne L’Italia di Berlusconi: definendolo «bell’uomo dal piglio guascone, elegante, donnaiolo secondo le malelingue, mondano, furbo». Ma anche tenuto in grande considerazione dai suoi superiori, tanto che a due riprese (nel 1977 e nel 1979, dopo l’assassinio di Boris Giuliano) era stato messo a capo della squadra mobile di palermo, certo non una sinecura: e poi era diventato numero tre del sisde, il servizio segreto civile. Ma proprio nel ’79 – secondo le rivelazioni del pentito Gaspare Mutolo – contrada s’era lasciato irretire da cosa nostra, e tutto il suo apparente zelo inquisitorio era in realtà l’astuta copertura della collusione con i boss. I sospetti sfociarono in un mandato di cattura eseguito la vigilia di Natale del 1992. Contrada restò in carcere trentun mesi – se liberato, sosteneva la procura, avrebbe potuto inquinare le prove – e il processo contro di lui si concluse il 5 aprile 1996, venerdì santo, dopo 168 udienze e una sfilza di testimoni: una decina, tra loro, i pentiti di vario calibro, inclusa la vedette della categoria, Tommaso Buscetta. Erano stati convocati dalla difesa anche prefetti, questori e politici dai quali contrada dipendeva o con i quali aveva collaborato: tutti concordi nel riconoscergli notevoli meriti di funzionario e d’investigatore. I pentiti pluriomicidi furono ritenuti attendibili dal tribunale, i servitori dello stato compiacenti o bugiardi (i loro nomi vennero infatti trasmessi alla procura perché valutasse se esistevano indizi di falsa testimonianza). La sentenza che inflisse a Bruno contrada, «per concorso esterno in associazione mafiosa», dieci anni di reclusione, l’interdizione per lo stesso periodo dai pubblici uffici e tre anni di libertà vigilata, fu accolta con palpabile disagio. Processo basato su indizi malfermi, osservarono i più cauti, e i meno cauti sostennero che i giudici erano «condannati a condannare» perché una decisione diversa avrebbe svuotato il teorema d’accusa contro Andreotti. Il procuratore aggiunto di palermo Guido Lo Forte replicò alle «critiche gridate» con un argomento ripetuto a tal punto da sembrare uno slogan («così la mafia si sente più sicura»): di rincalzo il CSM approvò una delibera di solidarietà ai giudici di palermo.
Noblesse oblige: per Giulio Andreotti, grande vecchio della politica italiana, sette volte presidente del consiglio, innumerevoli volte ministro, autore di bestseller, è stato allestito uno spettacolo giudiziario raro, se non unico al mondo: due processi in contemporanea, uno in tribunale a palermo che lo vede imputato d’associazione mafiosa e uno in corte d’Assise a perugia che lo vede imputato di complicità in omicidio: e lui, curvo, sommesso, attento, sornione, ironico è in perpetua tournée insieme ai pentiti. Una sorta di «compagnia di giro» che recita copioni scritti in un’infinità di verbali ingialliti, ma che di tanto in tanto si concede siparietti e battute estemporanei. Il più importante tra i due processi – dei quali non s’intravede, mentre scriviamo, la fine – è quello di palermo dove Andreotti figura come unico e indiscusso protagonista. Per anni e anni, secondo il procuratore capo caselli e i suoi sostituti, avrebbe aiutato la mafia: l’avrebbe aiutata anche quando, come presidente del consiglio, dava l’impressione di combatterla. Fumo negli occhi. Il suo referente in sicilia era salvo Lima, assassinato nel marzo del 1992 e indicato – benché nessuna sentenza abbia mai consacrato questa tesi – come patrono e amico dei boss: i quali gli si sarebbero rivoltati contro, ordinandone l’uccisione, perché ormai li serviva male, o non li serviva più. A compenso della complicità «zio Giulio» (così si vuole fosse confidenzialmente chiamato dai «picciotti») e Lima avrebbero ottenuto un vigoroso appoggio elettorale per la corrente andreottiana della Dc. Qualcosa di analogo a ciò che era stato attribuito a Mancini: ma in peggio per la maggiore statura e autorità del senatore a vita.
Dapprima ad Andreotti era stata mossa, come a Mancini e come a contrada, l’imputazione di «concorso esterno» in associazione mafiosa. Ma solo per lui il concorso era diventato associazione vera e propria: lo esigeva quanto di terribile era emerso sui suoi comportamenti, secondo i PM; lo esigeva il rischio che la competenza a giudicarlo passasse da palermo a Roma, secondo la difesa. Il concorso non è impedito dalla lontananza, anzi, e se Andreotti avesse favorito la mafia come presidente del consiglio e come Ministro, avrebbe dovuto occuparsene il Tribunale dei Ministri. Lo si trasformò invece in un mafioso a tempo pieno, inserito stabilmente nell’organizzazione: ossia domiciliato, come mafioso, a palermo. Questo l’impianto logico dell’accusa, sorretto dalle dichiarazioni d’un battaglione di pentiti e dissociati: alcuni di loro affermati e noti, nell’universo collaborazionista, altri piuttosto anonimi. Tra i primi il solito Tommaso Buscetta, Balduccio Di Maggio che vide Andreotti baciare Totò Riina nell’appartamento di ignazio salvo, Francesco Marino Mannoia che seppe d’incontri tra Andreotti e capicosca tra i più temibili.
Non vogliamo qui ripercorrere l’iter d’una inchiesta su cui abbiamo indugiato nel precedente volume della Storia d’Italia: per non incorrere anche noi in uno dei vizi capitali delle cronache giudiziarie italiane, che è la rifrittura del già detto e già scritto come se fosse – ogni volta che riaffiora – una novità. Basterà osservare che la valanga di pentiti s’è andata ingrossando a dismisura con il procedere dell’inchiesta, e che i ricordi sono via via migliorati; che di norma le rivelazioni dei pentiti hanno avuto come unico riscontro le parole di altri pentiti; che smemoratezze e contraddizioni evidenti non sembra abbiano turbato la procura. Valga d’esempio una delle pochissime testimonianze dirette, non per «sentito dire» o per «saputo da altri»: è quella di Balduccio Di Maggio sul famoso bacio di Andreotti a Riina. Di Maggio ha un ricordo fotografico dell’appartamento in cui Andreotti posò le sue labbra (si fa per dire) sulla guancia di Riina, ma non è in grado di precisare né il giorno né il mese né l’anno né la stagione dell’abbraccio: eppure il vedere Andreotti non doveva essere per lui un’esperienza consueta. La procura ordina una spasmodica ricerca sui viaggi di Andreotti in sicilia, affastella dati e testimonianze per dimostrare che poteva andarci quando voleva e senza nessun controllo; quindi s’affanna a spiegare come durante una Festa dell’amicizia a palermo, il 20 settembre 1987 Andreotti, ospitato nell’albergo villa igiea insieme a centinaia d’altre personalità e tra nugoli di poliziotti, avesse potuto svignarsela inosservato per alcune ore. Allora quello fu il dì del bacio? piano, la procura non vuole rischiare: «una delle possibili date dell’incontro tra Andreotti e Riina...» ecc. Ecc. Tutto il riscontro sta nella descrizione dei mobili: a proposito dei quali, osserva la difesa, il pentito potrebbe essere stato imbeccato a dovere.
In un processo costruito a questo modo e avviato nel settembre del 1995 i colpi di scena sono colpetti ad effetto. Erano stati arrestati, nel maggio del 1996, i fratelli Enzo e Giovanni Brusca, biechi figuri di san Giuseppe Jato. Il minore, Enzo, presto ammesso allo status di «collaborante», ha un fardello criminale modesto, in confronto ad altri: sette omicidi appena. D’altro rango Giovanni, che di omicidi ne ha sulle spalle varie decine (nemmeno lui lo sa con esattezza, tra cinquanta e cento) e che azionò il telecomando della strage di capaci. Di buon accordo i due fratelli avevano poi strangolato il figlio dodicenne del «pentito» santino Di Matteo, disciogliendone il corpo nell’acido. «Ma lo trattavamo bene» ha voluto sottolineare Giovanni «non gli mancava niente, tute nuove, la TV, giornali, gli compravamo pure la pizza...» Giovanotti di cuore. Giovanni detto «u’ verru», il maiale, ha dovuto guadagnarsi con più fatica la promozione a collaborante. Lo si è tenuto a lungo nel limbo dei semplici «dichiaranti». Era per i PM un elemento infido: pretendeva addirittura, nelle sue deposizioni iniziali, di non sapere nulla sul coinvolgimento di Andreotti in trame mafiose. Il nome del senatore era stato subito fatto, invece da Enzo: «La notizia dell’incontro tra Riina e Andreotti la apprese mio padre, in carcere, da mio fratello Emanuele... Quando poi Emanuele, a cose fatte, gli raccontò che ’u zi’ Totò aveva pure baciato Andreotti mio padre commentò: “invece di vasarisillu, picchì nun ci stuccava ’u coddu”», invece di baciarlo perché non gli staccava il collo? (come alle galline). Il pentito Toni calvaruso stava un giorno davanti alla televisione insieme al boss Leoluca Bagarella quando apparve sul teleschermo Andreotti. «Gli chiesi se anche lui era dei nostri. Bagarella mi guardò e rispose: “si sta comportando come un vero uomo d’onore”.»
Quando i due fratelli hanno testimoniato, a fine luglio del 1997, nel dibattimento di palermo anche Giovanni aveva tuttavia rotto gli indugi. Raccontò d’aver voluto, le prime volte che i PM l’avevano ascoltato, screditare Balduccio Di Maggio: così «quando Andreotti alla fine avesse vinto la causa Di Maggio sarebbe stato denunciato per calunnia, cosa che ci avrebbe giovato nei nostri processi dove Di Maggio può rendere dichiarazioni». Dicendosi finalmente redento e sincero, Giovanni Brusca spiegava inoltre come si fosse prestato a inguaiare Luciano violante sostenendo d’essere stato da lui avvicinato e d’avere avuto la promessa di future protezioni se avesse detto d’aver visto Andreotti e Totò Riina insieme. Della «favola» aveva informato, spacciandola per vera, il suo avvocato d’allora, vito Ganci, che ne era entusiasta, e che a Roma aveva buoni agganci, in particolare il figlio e il genero di Andreotti. A proposito del quale la verità – la nuova verità – era che lo zio Giulio nelle faccende di cosa nostra c’era dentro fino al collo (si fa per dire). «Di Giulio Andreotti ne sento parlare in prima persona da mio padre e Riina... E sento parlare dei salvo, di Lima: e Andreotti. Parlavano di “loro”, Badalamenti, Bontade, inzerillo, Michele Greco, i cugini salvo, Lima e anche Andreotti come fossero una sola persona.» però del «bacio» non sapeva nulla. Ne era però informato il fratello Enzo che in aula, puntuale, ha portato altri mattoni all’edificio d’accusa. L’incontro con Riina, ha raccontato, era stato voluto da Andreotti, non dal boss dei boss. «capii che l’appuntamento era da una persona sottoposta ad arresti domicilia-ri» (i salvo lo erano). Preso lo slancio Enzo Brusca ha speso qualche parola anche per Martelli. «con Martelli ci sono stati accordi finalizzati a sostegni elettorali. Mio fratello Emanuele sa tutto e vorrei che collaborasse.» Almeno il pentito Leonardo Messina non s’è accontentato di ricucinare i soliti nomi e i soliti episodi. Giulio Andreotti e Licio Gelli furono, secondo il Messina, i padri ispiratori (ancorché occulti) della Lega. Lui, Messina, avrebbe voluto accoppare Bossi, ma il suo capomafia lo dissuase: era una creatura del senatore a vita. Non sono mancati – né a palermo né come vedremo a perugia – gli infortuni e le retromarce di testimoni. Ma almeno a palermo nulla sembra scuotere la fiducia dell’accusa di far condannare Andreotti come mafioso in servizio permanente effettivo.
Eppure la maggioranza degli italiani – è risultato da un sondaggio – non crede all’ipotesi di Andreotti mafioso, e non ci credono politici di rango: alcuni provenienti dalle file democristiane – e su di loro potrebbe influire una nostalgia di schieramento e un senso di colleganza – ma alcuni di estrazione opposta. Tra i perplessi, per non dire increduli, era anche Romano Prodi. Lo ha ammesso pubblicamente lasciandosi intervistare – in occasione del suo cinquantottesimo compleanno – da Enzo Biagi che quello stesso giorno di anni ne compiva settantasette. «Mi è estremamente difficile» aveva detto «Immaginare un Andreotti che appoggia la mafia ed è mandante di omicidi. Non posso esprimermi su processi in corso, ma questa faccenda mi toglie il sonno.» Non potendosi esprimere s’era espresso: e caselli non gliel’ha lasciata passare. È passato al contrattacco spiegando che, fosse o no nelle sue intenzioni, il presidente del consiglio contribuiva a creare «un clima di minore serenità per i testimoni». «Questo» martellava caselli «non è un processo politico. È un processo a una persona specifica che di mestiere faceva il politico, per fatti specifici e riferibili esclusivamente a quella persona. È l’imputato che per cinque volte ha incontrato dei capimafia per discutere dei processi da aggiustare e per esaminare questioni... Si tratta di incontri per i quali l’accusa ha portato testimonianze oculari non soltanto di pentiti ma anche di testimoni veri e propri.» Gli indizi concreti che caselli rivendica con perentoria autorevolezza sono parsi – anche a chi s’è presa la briga d’esaminare i famosi «faldoni» – nebulosi e contraddittori. Prodi non doveva dire la sua? Forse, a voler essere puntigliosi: e a volerlo essere in un paese dove tutti – incluse le più alte cariche dello stato – esprimono apprezzamenti non solo su processi in corso, ma su processi di là da venire – bastano gli avvisi di garanzia per scatenare la rissa – e su sentenze cui dovrebbe essere tributato rispetto. Come la sentenza che aveva concesso la libertà a priebke, o come la sentenza (definitiva) per l’omicidio del commissario calabresi. Siamo nella sostanza d’accordo con i dubbi di Prodi: quello di palermo è un processo politico travestito da processo penale: perché solo la sua essenza politica legittima lo sforzo investigativo, e i costi, che sono stati affrontati per accertare fatti remoti, e privi d’ogni influenza sull’attività attuale della mafia. Un processo che mira a riscrivere la storia d’Italia nel dopoguerra, e che vuol sostituirsi alla doverosa e impietosa indagine degli storici. A loro spetta e spetterà di valutare le responsabilità di Andreotti per il degrado della vita pubblica italiana e anche per gravi contiguità della politica – non quella andreottiana e nemmeno quella democristiana unicamente – con le ramificazioni di cosa nostra. Si pretende invece che questo compito sia delegato ai Buscetta, ai Brusca, ai Balduccio Di Maggio, e tramite loro alla procura di palermo.
La corte d’Assise di perugia non è alle prese soltanto con vaghe ombre mafiose e con un imputato «eccellente» solitario ed enigmatico: è alle prese con un assassinio di vecchia data ma non per questo meno autentico, con dei presunti assassini, con dei presunti mandanti. Il 20 marzo 1979 Mino pecorelli, spregiudicato editore e direttore d’una pubblicazione («op», «osservatorio politico») che viveva di rivelazioni, di mancate rivelazioni, e di sovvenzioni non disinteressate, fu finito con quattro colpi di pistola, a Roma, mentre saliva sulla sua automobile. La rivista, fitta di informazioni compromettenti e di insinuazioni mirate, pareva fatta apposta per esporre pecorelli a vendette. I moventi insomma si sprecavano, e i sospettabili anche. Ma la prima lunga fase dell’inchiesta sfociò in un nulla di fatto. La magistratura romana, che aveva ipotizzate responsabilità di Licio Gelli e della banda della Magliana (un’organizzazione criminale romana legata ad ambienti eversivi di destra e alla mafia), non venne a capo di nulla: e nel novembre del ’91 archiviò la vicenda. Toccò all’onnipresente Tommaso Buscetta di riproporla all’attenzione della magistratura con una dichiarazione del 26 novembre 1992, il cui succo era questo: Buscetta aveva saputo dal boss mafioso con cui aveva maggiore dimestichezza, Gaetano Badalamenti, che sia pecorelli sia il generale carlo Alberto Dalla chiesa erano stati uccisi perché in possesso di segreti sul caso Moro la cui rivelazione avrebbe danneggiato Andreotti. Don «tano» e stefano Bontade, altro pezzo da novanta, avevano commissionato l’esecuzione di pecorelli su richiesta dei cugini salvo (l’accusa li vuole intimi di Andreotti che nega perfino d’averli mai conosciuti). Buscetta precisò che, quando Badala-menti gliene aveva accennato, lui ignorava l’esistenza del giornalista pecorelli, e aveva creduto alludesse a pecorella, un ragazzino eliminato dai corleonesi un anno prima.
Con la nuova inchiesta fu disegnata questa trama delittuosa: pecorelli infastidiva lo «zio Giulio»: e claudio vitalone – magistrato, democristiano dichiarato e andreottiano fervente – s’era rivolto ai salvo perché provvedessero. I salvo avevano contattato Badalamenti e Bontade i quali avrebbero a loro volta trovato i soggetti adatti per il truce incarico: il «picciotto» Michelangelo La Barbera e l’estremista di destra Massimo carminati, inserito nella banda della Magliana. Badalamenti, che è detenuto negli stati uniti e che sarebbe stato la fonte delle informazioni di Buscetta, lo smentisce su ogni punto.
L’ipotesi che il PM Fausto cardella sostiene a perugia – dove il processo pecorelli è stato spostato non appena vi comparve come indagato vitalone, magistrato a Roma – è per alcuni aspetti verosimile. Le punture di «op» potevano ben esasperare quanti ne fossero vittime: Andreotti era del numero, e in prima fila. Buscetta insiste sulle carte di Moro e sulle manomissioni od omissioni che avrebbero subìto. Come movente questo è in verità poco plausibile benché sulla fine di Moro e dei suoi memoriali siano state architettate trame tenebrose. Una pubblicistica in voga vorrebbe addirittura indurci a credere che in realtà Aldo Moro sia stato ucciso non per volontà sanguinaria delle Brigate rosse, ma per volontà bieca d’una parte della Democrazia cristiana, e siamo al ridicolo. O saremmo ad un ridicolo da non prendere nemmeno in considerazione se non ci fosse, per riscattarlo, l’oracolo Tommaso Buscetta: il quale ha sostenuto d’essere stato sollecitato dai boss inzerillo e Bontade, mentre era nel carcere di cuneo, a negoziare la vita di Moro con i brigatisti detenuti. Il tentativo abortì, cosa nostra non volle immischiarsi, e un paio d’anni dopo pippo calò ne spiegò a Bontade il motivo: «stefano, ma ancora non l’hai capito, uomini politici di primo piano del suo partito non lo vogliono libero». Andreotti infame, dunque, per avere sostenuto (con il totale consenso, o meglio con l’impulso determinato di Enrico Berlinguer) la strategia della fermezza verso i terroristi. Dalla sua tremenda prigione Moro, pover’uomo, gli scriveva infatti supplicandolo: «Questa nuova fase politica, se comincia con un bagno di sangue non è apportatrice di bene né per il paese né per il governo». Perciò, suggeriva Moro, si doveva trattare e procedere a uno scambio di prigionieri. Sì, pover’uomo: che nell’angoscia d’una situazione spaventosa dimenticava, o fingeva di dimenticare, che il bagno di sangue c’era già stato con lo sterminio della sua scorta. Se la logica ha un senso – e per Andreotti l’ha senza dubbio – il ruolo da lui avuto in un momento tragico per il paese non avrebbe dovuto essere motivo di preoccupazione.
Altri motivi erano invece seri e «op», per dirlo in romanesco, ci marciava. Alla giustizia italiana Andreotti risulta, per quanto concerne il maneggio di fondi neri, illibato: ma alcuni passaggi di denaro – in assegni – dalla sir di Nino Rovelli a lui e alla sua corrente, e i rapporti tra la Dc e l’italcasse potevano aver sollecitato le curiosità del curiosissimo pecorelli: che aveva preparato – senza mai pubblicarlo – un numero della sua rivista recante in copertina la fotografia di Andreotti e il titolo Gli assegni del presidente. «op» era una pubblicazione semiclandestina, pecorelli – a detta di chi lo conosceva – poteva essere convinto nel più ovvio dei modi a non insistere nei suoi attacchi. La serietà dei moventi ipotizzabili è lasciata alla libera opinione di ciascuno. Il punto è un altro. Dov’è la prova che Giulio Andreotti sia stato il mandante del delitto? Anche i pentiti – d’altro non c’è nulla – sostengono d’aver saputo che i cugini salvo volevano fargli, eliminando pecorelli, un favore. Gente premurosa, se fosse vero: ma da dove risulta che la «premura» sia stata richiesta?
Non è che il processo di perugia, portato avanti a singhiozzo come quello di palermo, abbia tenuto col FIATo sospeso chi lo seguiva attraverso le cronache: anche perché è esiziale rimanere con il FIATo sospeso per anni. Un’udienza emozionante la si è avuta, tuttavia, quando è stato chiamato a testimoniare il genero di Nino salvo, Gaetano sangiorgi: un medico analista di buon nome che è adesso in carcere per aver guidato all’interno della tenuta d’un altro salvo, ignazio, un commando omicida. Lo hanno incastrato due pentiti, ma – un riscontro c’è – l’ha incastrato anche una sua impronta digitale trovata sull’auto dei killer. Nell’aula di perugia l’analista s’è sfogato. «Io avevo detto che non conoscevo Andreotti, e che non mi risultava che mio suocero Nino salvo conoscesse Andreotti. Ma loro Ei PM palermitani Guido Lo Forte e Gioacchino Natoli, N.d.A.] rispondevano che avevano la certezza che Andreotti fosse amico di mio suocero e che lo avessi invitato al mio matrimonio. “se lei ci dice qualcosa su Andreotti torna a casa a fare il medico” mi diceva Natoli.» La protesta di sangiorgi, ultima di una serie (anche un autista dei salvo aveva ritrattato, e parlato di pressioni dei PM) induceva la procura di palermo ad ammonire paternamente i giornalisti perché fossero «responsabilmente attenti alla realtà di quel che sta accadendo»: ossia perché non prestassero fede all’immagine d’una magistratura tarantolata dalla voglia di mettere al tappeto gli imputati eccellenti, e d’avere così gloria e gratificazioni (per verità le procure non avevano proprio di che lamentarsi dei giornalisti, più che disposti ad essere la loro cassa di risonanza).
Il Marcello Dell’utri che c’interessa in questo collage d’inchieste e di processi non è quello delle false fatturazioni e delle frodi fiscali di publitalia, polmone finanziario e organizzativo della fininvest. Le vistose trasgressioni contabili che gli furono attribuite – e che lo portarono brevemente in carcere per ordine della procura di Torino – appartenevano alla logica tangentizia, e al destino amaro di manager anche di livello superiore al suo quando la magistratura andava a spulciare nell’intrico dei documenti sospetti e dei conti esteri privi di legittima paternità. Ci interessa il Dell’utri che dall’autunno del 1997 viene processato a palermo per concorso esterno in associazione mafiosa. Cinquantaseienne, bibliofilo raffinato, tifoso di calcio, questo signore compito non corrisponde al cliché di certi incolti berlusconiani in blazer, e ancor meno al cliché degli untuosi mestatori ammanigliati con la mafia. Eppure la procura di palermo ha tracciato, ricostruendo il suo itinerario umano e professionale, l’immagine d’un favoreggiatore di lungo corso della criminalità organizzata. Due elementi appaiono evidenti: il primo è che Dell’utri, nato a palermo e a palermo cresciuto, aveva conosciuto tipi e tipacci che erano o che sarebbero stati chiacchierati, e che avrebbero molto interessato l’autorità giudiziaria; tra gli altri Gaetano cina, la cui frequentazione Dell’utri non ha mai rinnegato. Non può essere un caso che un rapporto di polizia del 1981 lo indicasse come «amico di mafiosi». Il secondo elemento è che l’inchiesta di palermo su Dell’utri – divenuta anche inchiesta per mafia su silvio Berlusconi, sia pure con una archiviazione – decollò quando il cavaliere entrò in politica, e per luce riflessa Marcello Dell’utri, che di Forza Italia era stato l’ispiratore e che si era molto adoperato per farne un movimento popolare, acquisì la statura di personaggio nazionale. Interpretati in chiave difensiva, questi elementi fanno dire a Marcello Dell’utri che due sono state le sue gravi colpe: essere palermitano, ed essere uno stretto collaboratore di silvio Berlusconi.
La memoria con cui la procura ha chiesto e ottenuto il rinvio a giudizio di Marcello Dell’utri segue il filo comune a tutte le inchieste riassunte in questo capitolo: una ventina di pentiti e un attento mosaico di dichiarazioni, ipotesi e anche fatti: questi ultimi suscettibili di svariate interpretazioni. Un incontro di Dell’utri con il malfamato cina è un indizio di traffici loschi o una rimpatriata tra conoscenti d’antica data? L’assunzione del picciotto vittorio Mangano come stalliere ad Arcore fu un infortunio dovuto alla sicilianità o una manovra mirata per stabilire un contatto tra cosa nostra e Dell’utri (ossia Berlusconi)? Quando Dell’utri e Mangano parlavano al telefono dell’acquisto d’un cavallo, intendevano dire proprio cavallo oppure il termine era usato – come sembra avvenisse tra mafiosi – nel significato di carico di droga? L’intero tessuto dell’accusa è cucito in questo modo ambivalente: e a volte – càpita – i PM incorrono in qualche eccesso di zelo. Nel 1964 Marcello Dell’utri entrò per la prima volta nell’orbita di Berlusconi, come suo segretario personale (tra i due esisteva un’amicizia nata nella facoltà di giurisprudenza dell’università di Milano). Citiamo dalla Memoria. «Questa prima esperienza lavorativa con il Berlusconi – incomprensibilmente omessa dal Dell’utri nei due lunghi interrogatori resi a quest’ufficio – è rilevante. Infatti indagini svolte dalla procura della Repubblica di Milano hanno avvalorato l’ipotesi che la banca Rasini [dove era impiegato il padre di silvio Berlusconi e dalla quale erano stati allo stesso Berlusconi concessi finanziamenti, N.d.A.] fosse crocevia di interessi della malavita milanese in genere, e nella specie di quella facente capo a cosa nostra milanese.» insomma, cominciava male il giovanotto Dell’utri, affiancandosi a un Berlusconi che era vicino alla banca Rasini che era vicina alla mafia milanese. Rilevante? incomprensibilmente omesso?
Per i pentiti valgono le osservazioni e le perplessità che questa categoria suscita (ce ne occuperemo più avanti). Un pentito tra i più in vista, Gaspare Mutolo, era stato sentito dai PM a metà agosto del 1993 e non aveva accennato a Dell’utri, era stato risentito il 30 marzo 1994 e ancora aveva detto di non ricordare che gliene fosse stato fatto il nome: finalmente, due anni dopo, gli si erano ravvivati i ricordi. Spiegazione: «Quando il 30 marzo 1994 mi venne domandato se il Mangano mi avesse mai parlato di Dell’utri ebbi paura di parlare sia perché persona [il Dell’utri, N.d.A.] a me nota perché potente e influente a più livelli: sia perché parlare del Dell’utri mi avrebbe portato a parlare anche del Berlusconi, persona che mi appariva ancora più potente, e potenzialmente per me pericolosa, per la sua recente “discesa in campo”». Nessuna diffidenza è stata suscitata nei PM da un «pentito» che, disposto a sfidare le vendette dei feroci ex compagni da lui denunciati, è invece terrorizzato da capibanda della tempra di silvio Berlusconi e Marcello Dell’utri.
Sarebbe ingeneroso sottovalutare la selva d’inganni e simulazioni entro la quale si muovono i magistrati che indagano sulla mafia, e sminuire gli sforzi immani che compiono per raggiungere la verità: che quando si parla di concorso in associazione mafiosa – un reato in qualche modo inventato per incastrare mafiosi notori ma capaci di trovare un varco nelle maglie larghe della legge – è elastica e adattabile. Il concorso esterno in associazione mafiosa – del quale è stata ventilata l’abolizione proprio per le sue anomalie – è un po’ l’equivalente italiano delle evasioni fiscali per le quali fu imprigionato Al capone. La giustizia americana non riusciva ad addossare al famigerato gangster stragi ed «esecuzioni», e se la cavò mandandolo in galera come contribuente infedele. Gli espedienti legislativi e giudiziari di questo tipo, che tornano preziosi finché vengono applicati a individui che notoriamente gravitano nell’orbita della criminalità, possono avere esiti sconcertanti se viene preso di mira chi invece gravita in tutt’altra orbita. La procura di palermo ha delineato con diligenza il curriculum a doppia faccia di Marcello Dell’utri: non le è peraltro riuscito d’evitare un inciampo logico grave. Ecco ancora alcune righe d’un riassunto dell’accusa: «Negli anni ’90 si registrano anche rapporti del Dell’utri con cosa nostra catanese. Rapporti che si sviluppano a seguito di attentati commessi in danno di strutture standa in territorio di catania nel 1990. Ed invero nel 1990 cosa nostra decide di attuare una strategia che viene presentata come estorsiva alla base dell’organizzazione criminale. Tale strategia riguarda i due più grandi gruppi industriali italiani, la FIAT e la Fininvest. La Fininvest dopo gli attentati... Decide di scendere a patti con i mafiosi, tanto che gli attentati cessano senza che agli esecutori materiali venga data alcuna plausibile spiegazione». Gli stessi PM che indicano Marcello Dell’utri come antico e importante complice di cosa nostra scrivono senza un cenno di sorpresa che nel 1990 la stessa cosa nostra avrebbe progettato e attuato attentati alla standa, minacciato i ripetitori Fininvest (e in precedenza avrebbe addirittura previsto il sequestro di Berlusconi e dei suoi familiari). Ma se questa era l’utilità di Dell’utri – nello stesso tempo mafioso insigne e massimo dirigente della Fininvest – a Berlusconi sarebbe convenuto toglierselo subito di torno. Era una calamita di guai, non uno scudo. Le trattative con la mafia e i pagamenti d’un pizzo annuale per scongiurare ulteriori jatture – trattative e pagamenti affermati dalla procura di palermo e negati sia da Berlusconi sia da Dell’utri – avrebbero comunque configurato una situazione classica del racket. Le cui vittime – tranne pochi animosi – trattano e pagano il pizzo.
Le vicende che abbiamo riassunto hanno in comune due elementi: si fondano su un reato discutibile – il pluricitato concorso esterno – e sui pentiti. Ossia sulle testimonianze di chi, inserito in una organizzazione criminale, decide di uscirne e di collaborare con la giustizia: e in segno di gratitudine lo stato concede ai collaboranti – questa è la loro etichetta ufficiale – grossi sconti di pena, protezione, uno stipendio, sostanziose gratifiche. Come grimaldello per aprire varchi nelle blindature del crimine di gruppo il pentitismo ha una efficacia straordinaria. L’avevano sperimentato, assai prima che lo si facesse in italia, gli stati uniti: dove la giustizia è improntata, come tutta la vita americana, a un calcolo attento di costo e ricavi, e il baratto («tu mi aiuti e io sarò indulgente») non trova troppe remore di carattere moralistico. L’ingresso vero del pentitismo nel sistema italiano avvenne con il terrorismo: sgominato anche – o soprattutto – grazie alle confessioni di chi nel terrorismo era vissuto, e vi aveva sparso sangue. La parabola umana che porta dal terrorismo al pentitismo è del resto facilmente decifrabile. Al di là della convenienza pratica – una pena scontatissima – il terrorista ideologizzato e fanatico poteva approdare, un giorno, alla consapevolezza dell’inutilità d’una battaglia cruenta e disperata. Il terrorismo politico è legato a determinati momenti della vita nazionale e della vita individuale: non è un mestiere. È lecito avere molti dubbi sulla colpevolezza di sofri, Bompressi e pietrostefani per l’assassinio del commissario calabresi, e per la pronuncia definitiva con cui la cassazione ha convalidato la loro condanna a ventidue anni di reclusione. L’intellighenzia di sinistra s’è ribellata alla sentenza, sofri e i suoi compagni di Lotta continua proclamano, dal carcere, la loro innocenza. Resta fermo il fatto che Leonardo Marino, il venditore di crêpes che ha accusato – autoaccusandosi – i tre, non è stato spinto dalla venalità, né dal desiderio di evitare una pena grave: perché nessuno gli imputava nulla. Non s’è arricchito, non è stato posto sotto protezione. Sarà magari un mitomane, non è un mentitore interessato.
Trasferito nell’ambito della criminalità comune, il pentitismo ha cambiato connotati. Nessun tormento dell’anima, nessun recupero di decenza civica – tranne forse sporadiche eccezioni da contare sulle dita d’una mano – nei collaboranti di mafia: che sono di norma mossi o da un semplice calcolo, quello di cavarsela a buon mercato (godendo anzi di agi e perfino di lussi), dopo che sono stati catturati; o dall’esigenza di sfuggire alla caccia degli affiliati d’una cosca rivale; o dal desiderio di prendersi, nei riguardi d’altre cosche e d’altri mafiosi, una vendetta. Alcuni pentiti esercitano – mentre lo stato li coccola – attività malavitose. Un collaborante, Giuseppe Ferone, avrebbe fatto fuori alcuni individui che gli erano antipatici. Un altro, Maurizio Avola, reo confesso di un’ottantina d’omicidi, è stato accusato nel maggio del 1997 d’aver rapinato una banca a Roma nello stesso periodo di tempo in cui i PM raccoglievano le sue dichiarazioni su incontri tra Marcello Dell’utri e il boss Nitto santapaola: «sentii dall’Ercolano e dal Tuccio che il Dell’utri sarebbe stato portato in provincia di Messina per incontrarsi sicuramente con lo stesso Ercolano e, benché non se ne sia parlato esplicitamente, ritengo anche con Nitto santapaola».
Nella criminalità comune la figura del pentito ha in qualche modo soppiantato quella antica del confidente di polizia: che dava delle «dritte» agli inquirenti e otteneva in cambio che si chiudesse un occhio sui suoi trascorsi e sulle sue malefatte. Ma tutto avveniva nella zona grigia in cui la polizia aveva un margine – non ufficiale – di spregiudicata discrezionalità. Il confidente non poteva diventare testimone, nei processi arrivavano soltanto i riscontri delle sue sofFIATe, ossia vere e concrete prove. Il pentito è invece un testimone a tutti gli effetti, ossia un elemento di prova: in alcuni processi – come quelli indicati – è in buona sostanza l’unico elemento di prova.
Qualcuno sostiene, forse non a torto, che l’utilizzabilità piena dei pentiti – per i mafiosi «Infami» – ha disabituato polizia e magistratura dal compiere vere e serie indagini, e l’ha indotta a cercare pentiti che avallino le affermazioni d’altri pentiti piuttosto che prove a conferma di quanto i pentiti dicono. V’è del vero in questa osservazione: ma è altrettanto vero che il pentitismo di mafia ha portato a risultati straordinari, e che i grandi processi dai quali la mafia è uscita non cadavere, però senza dubbio ferita, sono stati frutto del pentitismo. Prima di trasformarsi in un oracolo viaggiante Tommaso Buscetta aveva dato a Giovanni Falcone il bandolo di alcune matasse mafiose importanti, e l’apporto d’altri figuri come lui è stato egualmente prezioso. Suscita disagio il paradosso di assassini che assumono la veste di accusatori, e a volte, con estrema sfrontatezza, anche di moralisti. Senonché, si ripete, il fine giustifica i mezzi. Possiamo essere d’accordo. Per tutelare i pentiti, in rapida crescita numerica, è stato allestito un carrozzone burocratico che ne gestisce circa milleduecento, con cinquemila familiari: tutti soggetti agli agguati della mafia tradita, che infatti s’è accanita, con una serie impressionante di «esecuzioni» sia sugli «Infami» sia sui loro congiunti. Lo stato, che deve prendersi cura di questi testimoni a rischio, a volte lo fa con eccessi di generosità. Gli italiani hanno avuto un soprassalto di sorpresa, e d’indignazione, quando Balduccio Di Maggio – incalzato da uno degli avvocati di Andreotti – è stato costretto ad ammettere che oltre allo stipendio s’era intascata la bella sommetta di cinquecento milioni. Felice Maniero, già capo della banda del Brenta – undici omicidi – s’era vista revocare la protezione per le sue ostentazioni di lusso. Tommaso Buscetta fu sorpreso da un fotografo mentre era in crociera nel Mediterraneo con la famiglia. I pentiti se la spassano e molte loro vittime giacciono sottoterra.
I pentiti erano diventati troppi (il ministro dell’interno Napolitano non aveva esitato ad ammetterlo): e la legislazione che li riguarda doveva essere modificata per impedire che il pentitismo diventasse una professione, e che i nomi noti della categoria si comportassero come consulenti pronti ad accorrere, e a fare rivelazioni, ogni volta che un PM avesse bisogno d’aiuto. Tre erano i punti su cui fioccavano le critiche: i ricordi a rate, i «sentito dire», i riscontri. Non si può pretendere, osservano i PM, che un pentito sia indotto a parlare senza un certo processo di «maturazione». Ma non si può nemmeno consentire, ribattono gli avvocati (ma anche osservatori non interessati), che la maturazione duri anni e che dai recessi della memoria affiorino ricordi scaglionati in un infinito arco di tempo. Va fissato un termine – poniamo sei mesi – entro il quale il pentito parla, nel corso dell’inchiesta: dopodiché deve tacere, e semmai confermerà o negherà o aggiungerà durante il processo. I PM – in particolare quelli delle procure che si battono contro il crimine organizzato –hanno difeso a spada tratta il pentitismo. Mafiologi come pino Arlacchi sono pronti a giurare su ogni parola di Tommaso Buscetta e di Balduccio Di Maggio, e ritengono del tutto ragionevole l’entità dei quattrini che lo stato elargisce a questi personaggi. Ma le rivelazioni prolungate per anni e sempre crescenti ispirano il sospetto che tra i pentiti e le procure s’instauri un rapporto ambiguo, e che i pentiti – per non perdere i vantaggi della protezione – cerchino d’interpretare i desideri dei PM e sfoderino al momento giusto un nome atteso. Questo soprattutto nei processi che coinvolgono personaggi noti. Finché racconta cose del suo ambiente criminale, il pentito offre materiale di prima mano. Quando sconfina, passa alle voci, ai pettegolezzi, alle notizie indirette. Se n’è ascoltato perfino uno che ha volonterosamente confermato i contatti tra la mafia e Andreotti. Invitato a precisare come gli risultasse ha aggiunto: «è un’opinione».
Per i pentiti occorrono limiti di tempo e limiti d’argomento. Più d’ogni altra cosa occorrono riscontri che non consistano nelle chiacchiere di altri pentiti. Nessun PM è contro i riscontri. Tutti sostengono d’averne a bizzeffe. Un PM del «caso Tortora», Lucio Di Pietro, aveva detto a un intervistatore: «Nessuna confessione è mai stata presa per oro colato. Su ogni circostanza abbiamo cercato riscontri, con un minuzioso lavoro di setaccio... Il collega Di persia, io, la polizia e i carabinieri abbiamo lavorato quattro o cinque mesi. A fare cosa? A identificare ogni riscontro, a fare rilievi fotografici, a rileggere centinaia di vecchie indagini di polizia giudiziaria, rimaste senza sviluppo». La realtà, si voglia o no ammetterlo, è diversa. Alcuni processi sono costruiti sui pentiti, e soltanto su di loro: e le menzogne d’un Gianni Melluso possono costare a Enzo Tortora la condanna a dieci anni di reclusione, errore riparato dalla corte d’Appello con l’assoluzione piena, ma la vergogna resta. I pentiti di mafia (o di camorra o di ’ndrangheta) devono essere maneggiati con cura, insomma: e senza mai dimenticare che hanno un pedigree da far paura, collegamenti con il mondo del crimine, interessi e obiettivi spesso e volentieri loschi.
Il pentitismo italiano ha poi un altro risvolto anomalo: nel sistema accusatorio le prove sono portate in dibattimento, e in dibattimento esaminate, i documenti servono solo per i loro riferimenti ai fatti. Nella grafomania giudiziaria italiana questo principio s’è tradotto in mostruose piramidi di carte, le inchieste durano anni e i loro risultati sono raccolti in decine o centinaia di «faldoni». Alle procure piace che l’indagine sfoci nel processo già consolidata e quasi immodificabile, per il peso cartaceo dal quale è gravata. Nei processi di cui ci siamo occupati la quantità mostruosa del materiale ammassato dai PM, che dovrebbe dar forza all’accusa, ne denuncia la debolezza. Se poi l’accusa scorge un legame tra vari processi «celebri», la loro elefantiasi cresce. La procura di palermo ha chiesto il rinvio a giudizio – anche qui per concorso esterno in associazione mafiosa – di corrado carnevale, il giudice di cassazione «ammazzasentenze» che agli ammazzamenti avrebbe proceduto non solo per formalismo ottuso e cavillosità esasperata, ma perché, vicino alla mafia, per conto della mafia aggiustava i processi. È possibile – per molti certo – che questo sia avvenuto (anche se un esame implacabile dei beni di carnevale e dei suoi parenti e amici fino a cuginanze di terzo e quarto grado non ha accertato alcun arricchimento). Ma carnevale è importante, agli occhi della procura, perché lo si vuole braccio giudiziario delle manovre andreottiane: e allora, per dimostrare che era colluso, e che poteva piegare alla sua volontà altri esperti magistrati di cassazione appartenenti alla stessa sezione della suprema corte, sono stati mobilitati quattordici pentiti ed è stata elaborata una «relazione» di mille e passa pagine, che poi sarebbe il sunto dell’inchiesta. Che senso ha, a questo punto, deplorare le lentezze della giustizia italiana?
La questione delle testimonianze, e della loro validità, riaffiorò nella primavera del 1997 per le modifiche – volute dal parlamento – all’articolo 513 del codice di procedura penale. Nella sua stesura ultima quell’articolo consentiva che i PM potessero portare in un processo, come elemento di prova, ciò che era stato detto a loro o alla polizia, in un’inchiesta connessa, da imputati che tuttavia si trincerassero, in aula, dietro la facoltà di non rispondere. La norma era, per riconoscimento unanime, iniqua: ammetteva in dibattimento dichiarazioni rese senza la presenza degli avvocati, e senza che gli avvocati fossero poi in grado di attaccarle, controinterrogando. Era pacifico che la correzione dovesse passare, in parlamento: la querelle riguardava il periodo di transizione dalla vecchia alla nuova regola. Se – come proposto – questi testimoni-imputati dovevano tutti essere riascoltati, per confermare o no le precedenti dichiarazioni, i tempi di molti processi si sarebbero allungati a tal punto da far scattare – in particolare per i processi di Tangentopoli – la prescrizione. Inoltre la mafia avrebbe potuto esercitare le sue pressioni e le sue minacce su chi dovesse ripetere pubblicamente ciò che agli inquirenti aveva confidato. Alcuni PM in vista delle procure – colombo e Davigo a Milano, Marcello Maddalena a Torino – interpretavano la modifica del 513 come un’ennesima manovra dei politici – nell’occasione concordi, destra e sinistra – per bloccare la lotta alla corruzione. A sua volta il procuratore capo di palermo caselli scriveva, con enfasi drammatica, che la riforma del 513 equivaleva ad una abrogazione della mafia per legge: volendo con questo sostenere che solo una totale ignoranza del fenomeno mafia poteva consentire quello spensierato garantismo. Il PDS era lacerato tra slanci garantisti e nostalgie giustizialiste. Alla fine il 513 riformato ebbe l’approvazione del parlamento, con l’intesa che per le inchieste di mafia sarebbe stato escogitato qualche correttivo.