CAPITOLO UNDICESIMO

VENETO TANK DISTRUTTORE

Il pronunciamento della Lega in favore del semipresidenzialismo, durante i lavori della Bicamerale, era stato un esempio da manuale della tattica di Umberto Bossi: colpi di mano, «ribaltoni», irrigidimenti, ammorbidimenti, diserzioni, irruzioni. Un repertorio sterminato di sorprese, un «fattore B» che con sistematicità mandava all’aria – grazie a un artefice in apparenza così rustico e naïf – i sottili calcoli dei più scafati professionisti. La tattica era volubile fino alla stravaganza, la strategia aveva una sua sotterranea coerenza. Secessione, indipendenza, o qualcosa che alla secessione e all’indipendenza somigliasse il più possibile. Gli accenni di Bossi agli armati delle vallate bergamasche e la sua predilezione per l’uniforme paramilitare delle camicie verdi erano temperati di norma da dichiarazioni distensive: nessuna violenza, la via alla secessione doveva essere pacifica e democratica. In effetti l’Umberto ha sul tamburo «scomunicato» gli otto mattoidi che la sera del 9 maggio 1997 erano riusciti a impadronirsi, come avanguardia spericolata d’un Veneto Serenissimo Governo, del campanile di San Marco, e che ne sono stati sloggiati piuttosto rudemente da un Commandodella DiGos. Il gruppo di esaltati, ha detto il senatur, non ha nulla a che vedere con la Lega e con i suoi ideali. Massimo D’Alema s’è detto d’accordo, anche perché non voleva compromettere lo sforzo di portare Bossi nella Commissione bicamerale ossia – sono parole sue – «ad una partecipazione combattiva ma piena alla vita democratica del Paese». Ma i più hanno visto negli otto conquistatori del nulla – i monumenti sono quanto di più indifeso può esserci in Italia – un frutto attossicato del nordismo spaccone, una scheggia militante e demente della predicazione padana. Dopo la secessione l’ultrasecessione: se il Nord non vuole Roma ladrona il veneto Serenissimo non vuole il resto del Nord che considera un intruso nella lotta per l’indipendenza.

L’impresa di questi secessionisti da sbarco, che s’erano impadroniti d’una motonave lagunare per raggiungere il loro obiettivo e che disponevano d’armi per fortuna non utilizzate e d’un artigianale mezzo blindato (vTD ossia veneto Tank Distruttore, più colloquialmente tanko, o tanketo) ha scosso l’Italia e interessato il mondo. L’azione di guerriglia incruenta s’era svolta nello scenario più suggestivo e solenne che si potesse immaginare, e i richiami alla gloriosa Repubblica dominatrice dei mari, ai dogi, a un cattolicesimo integralista di tipo vandeano, erano fatti apposta per ispirare romantiche fantasticherie e nostalgie. Accantonate le quali gli assaltatori e i loro complici apparivano solo l’espressione di confusi risentimenti e di grossolane velleità politiche: il tutto tradotto in un blitz vernacolo da «se no i xe mati no li volemo». Gente modesta gli incursori e – fuori da questa parodia del chiapas – onesta e tranquilla: ma ubriacata – oltre che dalla grappa – dalla predicazione del professor Miglio, ad altissimo tasso d’alcol ideologico, da letture male assimilate e da trascorsi storici male adattati all’attualità. Dapprima questi fanatici da bar s’erano limitati al disturbo di trasmissioni televisive della RAI, e intanto preparavano i mezzi e le armi per l’attacco ad un simbolo famoso della venezianità.

I risvolti goliardici della spedizione hanno sollecitato l’estro di cronisti e commentatori. Gli autodidatti dell’insurrezione erano provvisti – oltre che d’ordigni bellici pericolosi soprattutto per chi si fosse azzardato ad impiegarli, nonché di bevande tra le quali non figurava l’acqua – anche di biancheria pulita per il caso che dovessero subire un assedio di lunga durata. Ma il ministro dell’interno napolitano, personaggio alieno da violenze anche verbali, ha dato – ci scommettiamo a malincuore – l’ordine di usare le maniere forti. Come ogni evento italiano di qualche importanza anche questo ha i suoi misteri: si mormorava che le forze dell’ordine avessero intercettato il traghetto sequestrato mentre con i corsari verdi a bordo navigava verso piazza san Marco; ma non c’era stato nessun altolà, e loro, i corsari, erano riusciti a proseguire, a raggiungere il campanile, e ad issarvi il vessillo della antica e gloriosa Repubblica. Una volta arrestati, e affidati alla giustizia, i carristi da operetta hanno però capito d’essersi messi in un grosso guaio. La sventagliata di reati che è stata loro contestata dal PM Rita ugolini era tale da far quasi sfigurare i bucanieri che andavano per la maggiore e che, se i galeoni di sua Maestà cristianissima il Re di spagna riuscivano a catturarli, finivano alla forca. Sequestro di persona (per avere costretto l’equipaggio del natante a condurli dove volevano), dirottamento, fabbricazione e uso di un «blindato con potente lanciafiamme», porto di fucile, interruzione di pubblico servizio, occupazione e danneggiamento del campanile, attentato alla sicurezza dei trasporti, minacce a pubblico ufficiale. L’intera gamma di trasgressioni penali veniva poi posta sotto l’aggravante delle finalità eversive.

La prima udienza del processo per direttissima alla corte d’Assise di venezia, 21 maggio 1997, fu rinviata per dar modo ai difensori d’avere miglior conoscenza dell’inchiesta, la seconda fu contrassegnata da un assalto di autonomi alla piccola folla di leghisti ammassata all’esterno dell’aula bunker di Mestre, con cariche di polizia e feriti. L’inchiesta intanto s’allargava, e coinvolgeva presunti complici, presunti favoreggiatori, presunte connessioni internazionali. Insomma – stando alle indiscrezioni – una possente struttura che aveva per scopo un colpo mortale all’unità dello stato. In effetti in un floppy disc scoperto nelle perquisizioni s’era trovato un progetto di costituzione e un programma d’azione per il futuro del veneto indipendente. Un Doge presidente eletto dal Maggior consiglio, Ministri con il nome antico di provveditori, una serenissima Armata con forze terrestri, aeree e navali. La serenissima Repubblica avrebbe dovuto negoziare un concordato con la chiesa, e prevedere nella sua Magna charta la proibizione dell’aborto e dei matrimoni misti oltre che delle associazioni di parte, dalla Massoneria ai sindacati. Da ciò che gli incursori avevano fatto, e da ciò che i loro mandanti o simpatizzanti si proponevano era derivata – come è norma nei processi celebri – una dilatazione della vicenda francamente spropositata, se posta a confronto con la levatura culturale, economica e politica degli imputati. Ma tant’è: la legge, lenta a muoversi, una volta avviata diventa anch’essa un tanko o tankone, e poco sembra importarle che si tratti di schiacciare un bisonte o una formica.

Il 9 luglio (1997) la corte d’Assise di venezia presieduta da Graziana campanato lesse la sentenza di primo grado: sei anni di carcere ai più anziani e più autorevoli membri del commando, Gilberto Buson, Flavio contin,Fausto Faccia, Antonio Barison; quattro anni e nove mesi – con la concessione degli arresti domiciliari – per i ventenni Moreno Menini, christian contin, Luca peroni e Andrea viviani. I giudici s’erano attenuti alla ragionevolezza: avevano mantenuto ferma l’impostazione dell’accusa – e dato credito alle finalità eversive dell’assalto – ma avevano anche tenuto conto del goliardico dilettantismo al quale l’assalto stesso era stato ispirato. Restava spazio per altre attenuazioni in appello. Fu questa la valutazione del sindaco di venezia Massimo cacciari: «I quattro ragazzi sono a casa, per gli altri la detenzione potrà essere rivista». Ma il presidente della Regione veneto era meno accomodante: «persone condannate per una sciocchezza mentre Felice Maniero fa la bella vita nei night e Toni Negri si fa intervistare dai giornali». (Toni Negri, condannato come istigatore del terrorismo, eletto deputato e scarcerato grazie a pannella, esule a parigi, s’era consegnato alla giustizia italiana che esigeva da lui l’espiazione d’un residuo di pena. Anche dal «caso» Negri, oltre che dal «caso» sofri, aveva preso spunto un dibattito sull’opportunità – o la non opportunità – di cancellare con un’amnistia i vecchi reati di terrorismo.) Risoluto Roberto Maroni, «presidente del governo provvisorio della padania»: «Non appena arriverà la padania i ragazzi di venezia saranno liberati con tutti gli onori». E Bossi? Tonitruante e fumoso: «Hanno punito otto sprovveduti caduti in una trappola, travolti da un giuoco terribile, ben più grande di quanto potessero pensare. Non è stato celebrato il vero processo, quello contro i generaloni che hanno organizzato questa barzelletta. Avevano bisogno di una messinscena, di un teatrino per lanciare un messaggio chiaro al Nord: guai a chi mette in discussione lo stato oppressivo. Gli otto imputati sono sostanzialmente innocenti, i veri colpevoli in aula non c’erano».

All’eventualità che una siffatta armata clandestina – ma vogliosa di notorietà – fosse in grado di spiantare lo stato, sia pure uno stato poco incline a dimostrarsi tale, si deve dare scarso credito. Non verrà dai predatori di campanili il segnale rivoluzionario che sfascerà l’Italia unita. Tutte le caratteristiche del blitz, dalla caratura umana dei suoi arditi alla tartarinesca megalomania degli scopi, induce al sorriso piuttosto che al timore, tanto meno al panico. La riduttiva serenità con cui Napolitano – allergico per temperamento ai toni allarmistici – valutava l’episodio era condivisibile. Talune invocazioni a non abbassare la guardia di fronte al pericolo secessionista sapevano di ritualità antifascista, democratica, resistenziale e via dicendo, sul terreno stucchevole dell’ovvio. Eppure un qualche motivo di inquietudine c’era, se si poneva mente a passate sottovalutazioni d’altri fenomeni: come i fermenti sessantottini e post-sessantottini che erano una parodia di rivoluzione ma che avevano generato – ammantandosi d’ideali «rossi» – la stagione del terrorismo. Le potenzialità insidiose di carnevalate come quella di venezia potevano essere dedotte senza eccessive forzature da un dato certo dell’attualità: dal dato cioè che i movimenti ribelli e terroristici più duraturi e più difficili da domare sono, nel mondo, quelli ispirati da particolarismi etnici e regionali; l’ETA in spagna, l’iØ nell’irlanda del Nord, il crogiuolo bosniaco. E se vogliamo allargare lo sguardo ad altri continenti, i Tamil nello sri Lanka e i conflitti tribali in Africa. Un paragone tra l’Italia e paesi remoti è, sia chiaro, insostenibile. Restiamo in Europa: per ricordare che ai governi spagnoli è riuscito di sgominare il Grapo, che era l’equivalente locale delle Brigate rosse: le fiammate rivoluzionarie fondate sull’ideologia hanno durata limitata, perché i credenti del verbo sono pochi, senza una vasta base popolare. Ma l’ETA, radicata nel territorio, e in quel territorio sorretta da un notevole consenso, resiste e continua a insanguinare la spagna.

Queste considerazioni, che non vorremmo inducessero in equivoci, vanno molto al di là del modesto ruggito d’alcuni spelacchiati leoni di san Marco senza unghie: attorno ai quali – dopo la cattura e l’incriminazione – si è raggrumata una solidarietà diffusa di gente del Nordest, con offerte di denaro (anche del LIFE, Liberi imprenditori federalisti europei) per la difesa e per le famiglie: e con operai che lodavano l’assalto al campanile come «uno sciopero ben riuscito» perché «se non fai niente quelli di Roma non ci pensano proprio a smuovere le acque». La vigilia del combattimento quale l’avevano vissuta i kamikaze serenissimi avrebbe meritato la penna d’un Goldoni. Rusteghi sciocchi, indotti a imbracciare il fucile e a tentare di rendere agibile il tanketo – impresa impossibile – da cattivi maestri.

E qui il discorso ritorna, gli piaccia o no, a Bossi. Poco importa, in quest’ottica, che il veneto non si consideri padania e che la Liga sia cosa diversa dalla Lega e anzi la rinneghi, considerandola concorrente e quasi nemica. Nell’ambito nazionale il profeta della secessione è Bossi, i numeri elettorali lo gratificano – là dove Bossi conta – molto più di quanto gratifichino altre forze politiche che pure si comportano da protagoniste, e fiondano su prodi i loro diktat. Bossi è la spia sguaiata e astuta d’un malessere diffuso: e ha reso chiara l’esigenza che a quel malessere si rispondesse con misure che ne vanificassero i germi. Un problema politico, ma forse ancor più un problema d’amministrazione. Quel malessere deriva soprattutto dall’inerzia arrogante del leviatano burocratico.

I comportamenti del senatur impongono a chi voglia seguirli e interpretarli ostacoli logici e labirinti linguistici d’impervia decifrazione. Ma, lo ripetiamo, la sua strategia sembra ormai – o forse è meglio usare il condizionale? – d’una chiarezza abbagliante. Gli inserimenti nel palazzo romano, le alleanze e i sostegni a questo o quel governo – prima Berlusconi, dopo il «ribaltone» Dini – appartengono al passato. In parlamento i leghisti ci stanno di malavoglia, come spettatori o intrusi, perché quello è un parlamento altrui, non il loro. Una perdita di tempo la Bicamerale, una truffa le promesse di federalismo. Secessione, e solo secessione, è la parola d’ordine. Se i sindaci del Nordest si riuniscono l’11 maggio 1996 sotto la presidenza di Massimo cacciari – primo cittadino di venezia – per chiedere il federalismo entro sei mesi, e sottolineano i rischi di secessione e di disobbedienza civile (quel monito, lanciato un anno prima dell’assalto a san Marco non fu abbastanza ascoltato) questo è per Bossi solo fumo negli occhi. Infatti proprio l’indomani di quel convegno Mantova, capitale della padania, fu sede di un’assemblea in cui venne proclamato il «Governo del Nord», affidato a Giancarlo pagliarini: che con la sua aria da sacrestano non pare tagliato per essere il condottiero – pardon, il vicecondottiero – della rivolta antiromana. Bossi procedeva imperterrito con la consapevolezza che, nel bene e nel male, solo lui era la Lega, e che i frondisti o transfughi o dissidenti – come irene pivetti, fondatrice d’un partitino per pochi intimi – finivano tra gli oggetti smarriti della politica: e alternava periodi di quiete mugugnante a subitanee minacce. Ironizzasse pure il presidente del senato Nicola Mancino sulla padania: «che cosa è, questa padania? chi ne ha tracciato i confini? chi l’ha distaccata dal resto del paese? Bossi sa bene che l’80 per cento dei suoi elettori non vuole la secessione: figuriamoci poi gli elettori che non hanno votato la Lega. Bossi corre dietro alle farfalle d’una secessione costituzionalmente impossibile».

Farfalle o no, Bossi insisteva. Nell’agosto del 1996 esprimeva a mezza bocca l’intenzione di far saltare in aria i ripetitori della RAI al cui vertice s’era insediato il nuovo consiglio d’amministrazione, e poi chiedeva alla commissione di Bruxelles quali procedure dovessero essere seguite perché la padania potesse entrare nell’unione europea; in settembre celebrava gli aneliti d’indipendenza con una kermesse di tre giorni lungo le rive del po e infiammava i fedeli con vaticini indipendentisti e con il progetto d’una Guardia nazionale padana. Il 15 dello stesso mese leggeva con roca solennità, presenti i «Ministri» del suo governo ombra, la dichiarazione d’indipendenza della Repubblica federale della padania, e pronosticava negoziati con il governo usurpatore di Roma nel 1997. L’escalation verbale di Bossi era incontenibile ma ripetitiva. Alla vigilia d’un congresso della Lega (14 febbraio 1997) avvertiva che i leader degli altri partiti ne sarebbero stati esclusi perché «se venissero dovremmo stare attenti al portafogli». In un’altra occasione avvertiva truculento che «l’esecutivo padano deciderà se la polizia del Nord sfilerà a venezia con il mitra in spalla». Organizzava una «marcia del sole», dieci camper con bandiere padane (fiore verde a sei petali) che da pontida muoveva per attraversare le regioni del Nord e diffondere il verbo umbertino. Avvistava le trame d’un terrorismo romano pronto a colpirlo: «I servizi sono ritornati a fare il loro lavoro, si sono schierati, pensano che il regime si sia consolidato attorno a D’Alema che ha sostituito craxi. Il nemico da battere ora è la Lega, che vuole il cambiamento... Un giuoco molto pericoloso, ci può scappare il morto». Alcune procure esaminavano le parole del senatur per ravvisarvi, e non era difficile, ipotesi di reato (istigazione alla secessione, attentato all’unità dello stato), la sede milanese della Lega veniva perquisita dalla polizia con inusuale spiegamento di forze e con svenimento di «Bobo» Maroni, ma il senatur non si lasciava intimidire: «I padani devono essere giudicati da magistrati padani. È ora di smetterla con i processi politici fatti da chi non è padano. La Lega smaschererà questi signori con la camicia nera e li indicherà per quello che in realtà sono: delinquenti razziali. Da Mani pulite in poi le procure e i tribunali hanno agito solo per fini politici». Rimproverava all’ex sindaco di Milano formentini, singolare apostolo del secessionismo-unitario, d’essere stato troppo buono con i meridionali. Però l’umberto inseriva nella sua strategia apocalittica segnali di compromesso: così riincontrava Berlusconi, dopo un lungo gelo, ad Arcore. E ammoniva, quasi paterno, gli «amici romani»: «voi dovete fare un monumento alla Lega perché ha razionalizzato delle spinte emotive che, se lasciate a se stesse, vi avrebbero già spazzato via».

Nell’attesa che i padani decidessero con un voto «vero» del loro destino, Bossi aveva indetto per il 25 maggio 1997 un referendum dimostrativo e autogestito: in undicimila «gazebo» allestiti un po’ dovunque – al Nord s’intende – il popolo leghista o simpatizzante aveva potuto deporre una scheda che attestasse la volontà d’indipendenza. Quattro milioni e 815.000 i votanti – proclamò in una conferenza stampa il senatur – e solo una quarantina d’imbroglioni aveva deposto più d’una scheda. L’affluenza – davvero notevole se le cifre diffuse erano genuine – gli aveva dato la carica. «Domenica il popolo ha girato le carte, è ribellione. Se fossimo stati quattro gatti ci avrebbero già messo in galera.» invece le schede furono impacchettate con la speranza di poterle un giorno affidare alle mani del segretario generale dell’oNu (inutile congetturare su ciò che il segretario del l’oNu ne avrebbe fatto). In un’intervista al risorto «Borghese» (diretto da Daniele vi-mercati che di Bossi era stato il biografo e il ghost writer, insieme avevano firmato più d’un libro) l’umberto aveva rincarato la dose: «Il potere romano deve decidere, o il referendum decisionale o la guerra civile... Contro di me ci sono centinaia di processi, voglio proprio vedere se il regime intende proseguire sulla strada della repressione. Se è così si accomodi: io porto centinaia di migliaia di persone davanti ai tribunali e allora finisce davvero male. La mano corre alla fondina». Dopo che l’ANsA ebbe diramato una sintesi dell’intervista la Roma ufficiale insorse, invocando misure immediate contro il (presunto) pistolero: che si affrettò a smentire mentre una solida amicizia andava in frantumi. «Queste frasi sono di pura fantasia e rientrano nel linguaggio immaginifico spesso utilizzato da vimercati, magari nel tentativo d’incrementare le vendite di un giornale che non vende.» Dura la replica di vimer-cati: «confermo il contenuto dalla prima all’ultima parola. Aggiungo anzi che in alcuni passaggi il linguaggio di Bossi è stato anche più crudo».

La smentita dei politici alle interviste che suscitano un putiferio appartiene ai riti del palazzo e non ha in generale molto credito. Tanto meno ne ebbe questa volta, perché vimercati era stato durante anni un trascrittore accurato dei detti bossiani, e perché «la mano alla fondina» non era gran che diversa da precedenti espressioni dell’umberto. Infatti lo scenario da western padano che Bossi aveva – ma lui negava – prefigurato fu preso molto sul serio. Le Alte Autorità della Repubblica – a cominciare da scalfaro che ha un repertorio inesauribile d’appelli alla concordia nazionale e di deprecazioni per chi vuole infrangerla – strigliarono Bossi. Con ripetute omelie il capo dello stato – cui i lumbard riservavano, nelle più paludate cerimonie, salve di fischi e d’insulti – incitò la magistratura a non essere spettatrice indifferente di comportamenti illegali. Sotto le grandinate accusatorie Bossi ha l’aria d’essere a suo pieno agio, come un labrador nell’acqua. Ci ha fatto l’abitudine. Lo volevano incriminare? E lui prometteva «elezioni padane» per il 26 ottobre del 1997, istituiva sei banchi per il cambio delle lire in «scudi padani» e creava un posto di frontiera simbolico tra il prato di pontida e «Il resto d’italia». Non risparmiava, nei suoi sfoghi provocatori, nemmeno Giovanni paolo ii, «Il papa polacco che ha investito nel potere temporale, nello ioR e nei marcinkus, che ha investito nella politica dimenticando il suo magistero di spiritualità e di evangelizzazione». Ben altra tempra, nel Bossi-pensiero, quella di Giovanni XXIII (non per niente un lumbard purosangue) che «dichiarava la neutralità vaticana dalla politica». Subissato di critiche, Bossi aveva attenuato e chiarito (si fa per dire) senza davvero ritrattare.

Oltretutto il senatur, sboccato ma furbo, coglieva in alcune delle prediche che gli venivano rivolte ambigue profferte d’alleanza: e capiva che, se ad una qualsiasi alleanza si fosse deciso, sarebbe diventato – per chi lo voleva al suo fianco – non più un eversore e un terrorista in pectore, ma un esuberante profeta che aveva anticipato alla sua maniera spigolosa i futuri sviluppi della politica italiana. Il reprobo era tale per tutti finché rimaneva arroccato nel suo orgoglioso isolamento. Nei cori d’indignazione era facile cogliere una nota ipocrita, e alcuni osservatori – tra essi sergio Romano – l’avevano denunciato. Se uno si prende la briga di ripercorrere l’itinerario politico di Bossi ne coglie con facilità i contorcimenti: ma con facilità ancor maggiore coglie i contorcimenti di chi gl’impartisce lezioni di patriottismo e di coerenza. Questo discorso vale anzitutto per Berlusconi che non è uno sprovveduto e dunque sapeva con chi si metteva quando sancì, nell’imminenza delle «politiche» dalle quali uscì trionfatore, il patto Forza italia-Lega. L’uomo del tricolore non esitò a prendersi come compare il secessionista. «Dette il principale Ministero della Repubblica» ha scritto Romano «a un suonatore di jazz [gli interni a Roberto Maroni, N.d.A.] e promosse alla presidenza della camera, la terza carica dello stato, una giovane novizia, volonterosa ma inesperta [irene pivetti, N.d.A.].» per il cavaliere Bossi era – almeno stando alle esternazioni, cosa ne pensasse nel suo intimo è impossibile sapere ma agevole supporre – un roccioso e affidabile compagno di strada. Berlusconi lo vedeva dunque in positivo, e l’opposizione di sinistra, con ovvia logica speculare, in negativo: Bossi era un incolto e pericoloso razzista, una mina vagante che metteva a repentaglio la democrazia nata dalla Resistenza. Alle celebrazioni milanesi del 25 aprile 1994 – enfatizzate a dismisura dai «progressisti», benché non si trattasse d’un anniversario «tondo», in odio al cavaliere – Bossi non poté sfilare in corteo: i pasdaràn dell’antifascismo lo cacciarono con lanci di monetine e vociferazioni ingiuriose.

Poi sopravvenne il «ribaltone» (o nella dizione berlusconiana il «tradimento» di Bossi) che ebbe gli elogi di Massimo D’Alema e di Rocco Buttiglione, temporaneamente associati per far cadere il governo. D’improvviso i difetti di Bossi sbiadirono a sinistra – e anche sul più alto colle di Roma, dove vennero pronunciate parole d’elogio nei suoi riguardi – e parvero intollerabili al centrodestra. D’Alema ravvisò nella Lega – ma ravvisò per poco – una costola della sinistra. Anche le teste d’uovo dell’intellighenzia – alcune delle quali avevano manifestato il proposito d’emigrare da un paese in mano alle destre e ai leghi-sti – scoprirono che nel senatur c’era del buono, un leader venuto dal popolo, un autentico antifascista, un riformatore. (il 25 aprile del 1995, mezzo secolo giusto dopo la Liberazione, Bossi poté avere la sua dose d’applausi e d’abbracci nell’imponente comizio milanese.) i tecnici del governo Dini, quintessenza del centralismo burocratico romano (che è la bestia nera di Bossi) non avvertivano particolare insofferenza per le posizioni della Lega (e a sua volta Bossi pareva non notare che quel governo era in antitesi con tutta la sua predicazione). La Lega sosteneva Dini, e Dini – impegnato strenuamente a sua volta nel sostenere Dini – non aveva troppo da ridire sugli atteggiamenti della Lega. S’è infatti visto, all’inizio di questo libro, come il Guardasigilli Filippo Mancuso fosse stato in pratica zittito, nel consiglio dei Ministri, perché pretendeva che la magistratura s’interessasse delle trasgressioni di Bossi. Gaffeur instancabile e rompiscatole fazioso, Mancuso aveva molte colpe: ma la sua più dirompente iniziativa sarebbe stata gratificata, solo che l’avesse ritardata d’alcuni mesi, da battimani scroscianti. Arrivata la stagione dell’ulivo, al Bossi che s’era messo in proprio e che tuonava di non volerne più sapere di parentele politiche toccò il ruolo incontrastato di grezzo vilain della scena pubblica italiana, il malvagio dal ghigno bieco che tutti gli spettatori dovrebbero odiare e che magari finiscono per preferire a protagonisti per benino (Bertinotti è invece il cattivo alla cipria e al cachemire, un cocco dei salotti).

Ma sospettiamo che basterebbe un niente, un accordo sottobanco, per riscattare Bossi agli occhi dell’uno o dell’altro schieramento. E quel niente è stato ipotizzato proprio dal senatur in vista d’una tornata di amministrative (autunno 1997). Pur distinguendo tra Forza Italia – frequentabile – e AN («con i fascisti mai») Bossi s’è detto disponibile a un accordo per la designazione del candidato a sindaco di venezia, e magari anche ad accordi più estesi e duraturi. Poneva al polo quattro condizioni perché l’intesa si realizzasse: doveva dire sì al referendum per l’autodeterminazione della padania, all’abolizione dell’ergastolo per chi attenta all’unità dello stato, all’elezione dei magistrati e all’abolizione della trattenuta in busta-paga per i sindacati. Ma aggiungeva, sornione: «capisco che nella pratica chiedo cento per portare a casa cinquanta, ma è evidente che ormai il processo è avviato. Per ottenere il cambiamento sono pronto a trattare anche col diavolo» (e il diavolo potrebbe essere il Milan ossia Berlusconi). È bastato questo perché generali e colonnelli dell’opposizione spiegano, con pudiche riserve e arzigogoli protettivi, che la Lega era una costola della destra, e che non andava sprecata l’occasione di recuperare un elettorato i cui voti sono stati posti da Bossi nel freezer. Toccava all’ulivo, adesso, di fare la faccia feroce, ammonendo che con i secessionisti non si dialoga, e che lo zotico Bossi non aveva diritto d’accesso al salotto buono della democrazia.

Nessuno vuol negare che la questione politica posta da Bossi sia seria. L’Italia ha una maggioranza popolare moderata e una maggioranza parlamentare di sinistra. Giusto sottolinearlo, ma non occorre un Tocqueville per accorgersene. Questo dato di fatto non cancella tuttavia le intemperanze secessioniste di Bossi, così come non le cancellava il suo sostegno al governo Dini. Senonché – l’abbiamo detto e ridetto – basta una viratina di Bossi, a destra o a sinistra, perché a destra o a sinistra lo si mondi (quasi) d’ogni peccato, o si proceda a sottili distinguo tra Lega e leghisti. L’incombere perenne di revisioni politiche e storiche degne dell’Enciclopedia sovietica e dei suoi aggiornamenti inquina i sermoni di tutti i fustigatori del palazzo, e le loro scomuniche.