«Io non ci sto più»: così si è ribellato Antonio Di Pietro quando, nel luglio del 1997, un’ennesima colata rovente d’insinuazioni l’ha investito: e le sue parole erano pressoché identiche a quelle pronunciate nel novembre del 1992 da uno scalfaro infuriato per i tentativi di coinvolgerlo nell’«affare SISDE». Non era, quella di Tonino, la rituale espressione di fiducia nella giustizia «che farà il suo corso», ma una dichiarazione di guerra al sistema – giudiziario e politico – che consentiva questo tiro al bersaglio. Uno scoppio d’ira provocato dal riaffiorare, in una nuova e lunga testimonianza del costruttore Antonio D’Adamo, di accuse già emerse in parte nei vari dossier che addebitavano all’ex PM frequentazioni dubbie e comportamenti leggeri: accuse riattizzate dalle torrenziali e spesso oscure intercettazioni telefoniche che avevano come protagonista il finanziere pacini Battaglia (con la famosa disputa su uno «sbancato» che poteva essere «sbiancato»). La lettera con cui Di Pietro respinse le insinuazioni aveva – al pari d’altri suoi interventi e documenti – il tono della perorazione emotiva piuttosto che quello della confutazione. «Non so e non voglio nemmeno sapere cosa abbia riferito l’ingegner D’Adamo ai magistrati di Brescia e se effettivamente abbia potuto spingersi fino al punto di inventarsi di aver ricevuto miliardi da pacini per dividerli con me! se così fosse (ma ne dubito, tanto sarebbe assurdo, a meno che non si trovi sotto la pressione economica o il ricatto di qualcuno) ne risponderà davanti a Dio e, forse, alla giustizia umana. Per quanto mi riguarda si è appena concluso – con l’ultimo appello – il mio primo calvario giudiziario. La miriade di assoluzioni e di archiviazioni conseguite dimostrano incontrovertibilmente l’attività calunniosa posta in essere nei miei riguardi in questi anni di vendette. Il prezzo pagato per aver fatto solo il mio dovere (si badi bene, anche nei confronti di coloro che conoscevo e questo, fino a prova contraria, dovrebbe essere un merito) è – a questo punto – davvero troppo alto, ed io non ci sto più.» Erano particolarmente significativi, in questa prosa toccante, due punti: quello in cui Di Pietro manifestava, con un «forse» pesantissimo, il suo scetticismo sulla possibilità che la legge punisse chi propalava falsità; e quello in cui, pur senza nominarlo, indicava chiaramente in silvio Berlusconi l’istigatore e il «ricattatore» dell’ingegner D’Adamo. Un ennesimo incrociar di lame nel duello infinito tra il cavaliere e Di Pietro.
Al ritorno in scena della pittoresca compagnia d’amici o ex amici di Antonio Di Pietro si era arrivati dopo un prologo sconcertante (ma sconcertante è tutta la «giudiziarizzazione della politica», secondo la definizione coniata da un dottor sottile, o politicizzazione della giustizia, che sono le due facce della stessa medaglia). Nel maggio del 1997 aveva sbalordito i cittadini, e gettato nella costernazione i carabinieri, l’arresto del colonnello Michele Riccio: a lui e ad alcuni suoi collaboratori era stata mossa dalla procura di Genova l’accusa di «associazione per delinquere finalizzata allo spaccio di stupefacenti». Riccio non era un ufficiale qualsiasi. Il generale Dalla chiesa l’aveva avuto al suo fianco, come uomo fidatissimo e coraggioso, era il capo indiscusso del Ros ligure (Raggruppamento operativo speciale dei carabinieri), s’era meritata una medaglia d’argento al valor militare, aveva concluso operazioni brillanti contro i mafiosi e in particolare contro gli spacciatori di stupefacenti. Un pentito, e infiltrato, del quale Riccio s’era assiduamente servito, era il chimico Angelo veronese: un esperto che, schiavo a sua volta della droga, era capace quanto pochi di raffinarla e di trovare i canali giusti per lo smercio e per arrivare nei santuari dei boss. Stipendiato come «collaborante», rifornito di cocaina dal suo protettore con le stellette, ma insoddisfatto e mugugnante, il maestro dei doppi e tripli giuochi Angelo veronese s’è messo a un certo punto contro il protettore: ed ha addebitato a Riccio metodi d’indagine disinvolti fino alla millanteria e alla menzogna. Per cogliere allori ed encomi il colonnello non avrebbe esitato a «costruire» alcuni dei suoi successi e a distribuire droga «trattata» con abilità, per rivitalizzarla, dal veronese: il che avveniva in un locale della caserma genovese dei carabinieri. Poiché la situazione economica del Riccio è stata esaminata al microscopio, senza che vi si trovasse traccia d’arricchimenti sospetti, sembra proprio che il colonnello fosse un trasgressore della legge ma non un corrotto, uno che maneggiava e smerciava cocaina per avvicinare e sgominare, con metodi da trafficante, i trafficanti. Azzardiamo queste ipotesi su un’inchiesta in corso, attingendo ai segreti di pulcinella – che possono essere fuorvianti – delle carte custodite negli uffici giudiziari. Ogni sentenza definitiva è sospesa, e del resto anche le sentenze definitive sono nella consuetudine italiana soggette a valanghe di dubbi.
Il «caso» Riccio sarebbe stato ricordato con disagio nell’Arma, e con amarezza fuori – ma non più di questo – se nell’ambito dell’Arma fosse rimasto. Due propellenti lo issarono invece in un’orbita politica. Il primo consisteva nella partecipazione di Tiziana parenti, come sostituto procuratore a savona verso la fine degli anni ottanta, alle indagini della squadretta di Riccio. Dopo quell’esperienza la parenti ne aveva avuta un’altra – breve e burrascosa – nel pool di Mani pulite, ed era successivamente passata tra i sostenitori di Forza italia: candidata nelle liste berlusconiane aveva conquistato un seggio alla camera e, lasciata definitivamente la toga, s’era messa in vista per il grintoso attivismo e per le frecciate insistenti al suo capo d’un tempo, Francesco saverio Borrelli, e all’ex collega Antonio Di Pietro. Proprio ai trascorsi savonesi della parenti Angelo veronese aveva fatto ampi riferimenti nelle sue rivelazioni di pentito del pentitismo: insieme a lei immischiando nei ricordi ilda Boccassini, che con Borrelli aveva avuto aspre divergenze ma che al pool era poi tornata da figliola Prodiga, o meglio da primadonna. Nella tela del veronese le due «rosse» – per il colore dei capelli e per matrici ideologiche: anche la parenti viene dalla sinistra – si fronteggiavano fiere e impudenti. Tiziana parenti – ripercorriamo per sommi capi la versione fornita dal piccolo chimico della mala – avallava le iniziative del colonnello, e non si limitava a questo: legata affettuosamente a un maresciallo che di Riccio era allievo, non rifuggiva da qualche sniffata nel suo ufficio. Quanto alla Boccassini, nulla era per lei eccessivo se si trattava d’inguaiare l’odiata parenti. E così, avvicinato il veronese in un corridoio del palazzo di Giustizia di Milano, l’aveva sollecitato a non andar troppo per il sottile nel dare addosso alla ex collega. Avrebbe perfino promesso al veronese un compenso di mezzo miliardo, qualora avesse «lavorato» a dovere la Tiziana.
Non vogliamo inseguire tutti i risvolti dell’intrigo, con le immancabili smentite e querele: ci limitiamo ad accennarne alcuni. Le «pressioni» della Boccassini su Angelo veronese erano state confermate dal colonnello Riccio, il quale aveva tuttavia sminuito, riducendola ad una battuta, l’offerta di denaro. Secondo il colonnello, veronese aveva voluto soltanto ricordare il premio di mezzo miliardo concesso a un altro e più noto pentito, il Balduccio Di Maggio del processo Andreotti. Era poi divampata, tra boccassiniani e parentani, la querelle del tailleur. Descrivendo l’abbigliamento della Boccassini il giorno in cui s’erano incontrati, veronese aveva parlato d’un tailleur giallo, e Borrelli – che senza esitare s’era schierato con ilda – l’aveva beccato: un tailleur di quel colore la Boccassini non l’aveva nel suo guardaroba. Ma nei verbali pubblicati dai quotidiani del tailleur non v’era traccia, come mai Borrelli ne era al corrente? Niente di strano, ribatté lui: essendovi delle ombre su un PM del suo pool aveva voluto compiere una verifica e si era messo in contatto con la procura di Genova, titolare dell’indagine. La spiegazione non appagò i critici, anzi li aizzò: per avere agito in modo analogo – ossia per aver chiesto a Milano se Renato squillante fosse indagato – il povero coiro era stato messo in croce, tanto che, volendolo sottrarre a umilianti indagini, Flick l’aveva nominato direttore delle carceri, e in quell’incarico era morto: e il PM Misiani era stato trasferito. Forza italia, che cavalcava con ardore la tigre antiboccassiniana, aveva stigmatizzato anche una frase del procuratore capo di Genova vito Monetti cui era stato chiesto se le dichiarazioni di Angelo veronese non danneggiassero l’immagine della parenti. «È più danno all’immagine questo che il passare dalla sinistra a Berlusconi?» aveva ironizzato incautamente il magistrato. Nella mischia s’era buttato Antonio Di Pietro riproponendo in versione aggiornata un proverbio contadino del suo Molise: «Meglio una Boccassini che cento parenti». Anche lei in proverbiese – ma d’impronta pisana – Tiziana aveva replicato: «Meglio un morto in casa che un Di Pietro fuori dall’uscio». Piacevolezze tra ex magistrati.
Mentre Angelo veronese sparlava a Genova delle due rosse, una vecchia conoscenza di Tangentopoli, ossia l’ingegnere Antonio D’Adamo, usciva a Brescia dal riserbo prudente cui s’era per lungo tempo attenuto – davanti ai PM aveva invocato la facoltà di non rispondere – e arricchiva di particolari inediti il copione che potrebbe avere per titolo «le tentazioni d’un giovane povero». Il giovane povero è Di Pietro già impegolato – l’abbiamo raccontato – in rapporti pasticciati con l’assicuratore e malversatore Gorrini: e chiamato in causa – sia pure con successive affannate ritrattazioni – da pacini Battaglia. Come Gorrini, anche D’Adamo avrebbe prestato a Di Pietro un centinaio di milioni – restituiti dopo qualche anno – e inoltre gli avrebbe dato in uso un centralissimo attico a Milano, un’automobile, un telefonino. Briciole, anche queste, in confronto alla famosa storia dei quindici (o dodici) miliardi con cui pacini Battaglia aveva foraggiato D’Adamo le cui imprese erano in serie difficoltà. Si sospettava insomma che pacini Battaglia desse a D’Adamo perché D’Adamo era intimo amico di Di Pietro, che proprio a Di Pietro D’Adamo avesse passato una parte del gruzzolo, e che questo ingente passaggio di quattrini fosse legato a favori giudiziari. La vecchia costruzione d’accusa contro Di Pietro non mutava sensibilmente, con i mattoni portati dall’ingegner D’Adamo, se non per un elemento rilevante: questa volta la testimonianza non veniva da uno – come silvio Berlusconi o cesare previti – che avesse il dente avvelenato con il pool di Mani pulite in generale e con Di Pietro in particolare, e nemmeno da un affabulatore scaltro come pacini Battaglia: veniva da uno che era stato nella cerchia delle persone più vicine all’ex PM; cerchia che includeva il sindaco e cognato di craxi paolo pillitteri (per lui Di Pietro era Nini), il gesticolante avvocato Geppino Lucibello, l’«elemosiniere» della Dc milanese Maurizio prada e il capo dei vigili urbani di Milano (e patito delle corse di cavalli) Eleuterio Rea.
In questa occasione si formò attorno a Di Pietro un quadrato che tuttavia era, come mai in precedenza, scarso d’organici. Le frasi di Borrelli in sua difesa sottolineavano il distacco tra chi – come il procuratore capo di Milano – ha della giustizia una concezione sacrale trasmessagli dagli avi e chi, come Di Pietro, ne ha una concezione casereccia, buon senso cucinato alla molisana. Di Pietro, ammise Borrelli, aveva amicizie imprudenti. «credo che si spieghino» aggiunse un po’ sprezzante «anche con la sua storia personale, con il lavoro che faceva prima di diventare magistrato. Per un poliziotto è possibile che i livelli di prudenza siano diversi, che certi rapporti disinvolti siano considerati normali, perfino che facciano parte in qualche modo del mestiere. Altra cosa però è affermare che Di Pietro abbia preso dei soldi per influenzare in un senso o nell’altro il corso delle indagini. Io a questo non credo.» il docente di castellanza scadeva, in questa lucida e perfida diagnosi, al livello d’un capace questurino all’antica. Altro che simbolo di Mani pulite. Ancor più duro Antonino caponnetto, padre nobile del pool antimafia di palermo: «un servitore dello stato non può accettare nulla, mai. Di Pietro avrebbe dovuto rifiutare qualsiasi offerta. Per un magistrato anche un prestito è inammissibile». Ne aveva saputo qualcosa il PM di Asti Aldo Ferrua, condannato in primo grado a due anni di reclusione – e in appello assolto con formula piena – perché il proprietario indebitato e prossimo alla bancarotta d’un autosalone gli aveva venduto un’Alfa 33 al prezzo ridotto di quattordici milioni e mezzo (anziché i venti milioni e rotti di listino). Scagionato, ma dopo due anni che gli hanno segnato l’esistenza, Fer-rua aveva qualcosa da ridire sulla diversità dei metri di giudizio usati per lui e per Di Pietro.
Era un Di Pietro con le ali piuttosto impiombate – ma la sua popolarità sembra inossidabile – quello della nuova estate dei veleni. Su di lui s’avventò silvio Berlusconi asserendo che in base alle prove da lui spiattellate alla procura di Brescia un comune cittadino sarebbe finito in galera. Il cavaliere si gloriò anche d’aver convinto D’Adamo a vuotare il sacco. Su questa ammissione piuttosto sfrontata s’innestò un’ennesima disputa tra oppositori e sostenitori di Tonino: i primi accaniti nell’esigere che si facesse luce su quanto Gorrini, e pacini Battaglia, e D’Adamo avevano dichiarato; i secondi interessati piuttosto ai mezzi dei quali silvio Berlusconi s’era servito per trasformare un sodale di vecchia data dell’ex PM – quale era D’Adamo – in un delatore (e, si sottintendeva, in un delatore bugiardo). Con il che si torna alla lettera di Antonio Di Pietro che abbiamo trascritto all’inizio del capitolo («pressioni economiche» e/o «ricatto»). D’Adamo, magnate dell’edilizia assillato dai debiti e disperatamente bisognoso d’aiuto, s’era dovuto piegare a quanto Berlusconi gli dettava. In realtà le due posizioni contrapposte non erano inconciliabili: era verosimile, anzi probabile, che l’ingegnere fosse diventato un «pentito» in stato di necessità: per la quasi totalità dei pentiti le cose stanno così. Ma restava insoluto il punto fondamentale: pentendosi, raccontava la verità o raccontava frottole? Non si può dire che sotto questo aspetto la sdegnata risposta di Di Pietro sia stata esauriente. Avrebbe potuto semplicemente negare che il prestito di D’Adamo, o l’appartamento, o l’auto, o il telefonino gli fossero mai stati offerti, e mai fossero stati accettati. S’era limitato a negare d’aver intascato una qualsiasi parte o briciola dei miliardi di pacini Battaglia, e bisogna aggiungere che gli sviluppi successivi dell’inchiesta confortavano questa tesi. Ma le vicende di Tonino sono tutte così, su di esse plana – si tratti delle dimissioni dalla magistratura o dei «favori» impropri o dell’ingresso in politica – un velo d’ambiguità, o di reticenza oracolare, infranta poi con tempismo straordinario da colpi di scena.
Il soccorso miliardario a D’Adamo apparteneva alla «pacini Battaglia story», ossia a un viluppo di conti esteri e di operazioni d’alta ingegneria finanziaria sul quale la magistratura ha appuntato in varie sedi la sua attenzione: ma chissà se e quando ne verrà a capo. Di sicuro molto dopo la pubblicazione di queste pagine. Sentito a più riprese dai PM di Brescia pacini Battaglia scagionò risolutamente Antonio Di Pietro, dal quale ebbe un attestato di correttezza: sapeva, questo sì, dell’ottimo rapporto tra D’Adamo e l’ex PM. Ma i miliardi che avevano preso il volo erano stati versati in vista d’un colossale contratto – novemila miliardi – con la Libia: contratto poi sfumato. Anche D’Adamo negava che a Di Pietro fosse toccato qualcosa dei miliardi di «chicchi», ma era meno reciso nell’escludere che Di Pietro fosse ignaro dell’operazione. Proprio in questi frangenti Di Pietro in difficoltà diede prova delle sue risorse e della sua capacità di recupero. Lo si voleva prigioniero in un cerchio di fango e inservibile, almeno momentaneamente, come primattore della politica: nella politica attiva e militante entrò invece d’impeto – con la prospettiva d’un seggio in senato – grazie ad uno stratagemma che non si sa bene a chi debba essere accreditato: ma che aveva un tocco d’ingegnosità birbona.
Il collegio senatoriale di Firenze-Mugello era vacante perché il suo titolare, pino Arlacchi, aveva ottenuto l’importante incarico di vicesegretario generale dell’oNu con competenza sulla lotta alla criminalità. Diventava perciò necessaria una elezione supplettiva da tenersi nel novembre del 1997. Chi candidare? chiunque va bene, da quelle parti, se lo sponsorizza la sinistra: all’ulivo era andato, l’ultima volta, il 67 per cento dei voti. Ma nel modesto appuntamento elettorale D’Alema e Di Pietro videro un’opportunità insperata. Tonino aveva un provvidenziale biglietto d’ingresso in parlamento senza dover attendere la fine della legislatura. In una cena il leader del PDS e l’oggetto del suo desiderio formalizzarono, a meta luglio (1997) l’intesa. «coerentemente con l’impegno già assunto a suo tempo nel governo» scrisse Di Pietro in una lettera «dichiaro la mia disponibilità a riprendere la collaborazione col centrosinistra, accettando la candidatura con l’ulivo al fine di consolidare e rafforzare l’ala moderata dello schieramento.» Di Pietro aggiunse che avrebbe rinunciato se fosse stato deciso il suo rinvio a giudizio: rinvio a giudizio, precisò a scanso d’equivoci, che poteva avere un unico significato: «vorrà dire che in questo paese c’è un gruppo di delinquenti che costruisce false accuse per fermare le persone per bene». Se costretto a rinunciare, l’avrebbe fatto come vittima d’un complotto.
Berlusconi, e altri di Forza italia, insinuarono che Di Pietro volesse indossare, grazie ai voti del Mugello, quella corazza giudiziaria che è l’immunità parlamentare: ma il sospetto era poco attendibile. L’immunità parlamentare è stata molto ridimensionata, nel 1989: i magistrati non possono procedere all’arresto d’un deputato o d’un senatore, o intercettarne le telefonate, o ordinare perquisizioni senza l’autorizzazione delle camere, ma per il resto hanno mano più libera che in passato. Ben altra era la posta della partita tra Di Pietro e i suoi «nemici». Fu anche sottolineato che Di Pietro infrangeva, con la candidatura, molte passate promesse, vennero riesumate alcune sue solenni dichiarazioni. 21 febbraio 1995: «Io sono un uomo di istituzioni, non entro in politica e non entro in nessuna competizione elettorale». 30 gennaio 1996: «signori politici, fate il vostro giuoco. Io in questa mano non ci sarò né direttamente né indirettamente: non mi candiderò e non sponsorizzerò nuovi movimenti». 3 luglio 1997: «Non salgo su alcun carro». Invece saliva. Ma queste evoluzioni appartengono alla storia d’ogni personaggio pubblico, e se ne son viste di ben più stupefacenti. Il moralismo dà legna al fuoco delle polemiche, ma aiuta poco a interpretare la politica: e Di Pietro era ormai un soggetto politico di primo piano. Il colpo di mano aveva tramortito il polo e scosso l’ulivo. La gente del Mugello aveva mugugnato – quel decisionista di destra non corrispondeva proprio all’identikit del suo senatore ideale – ma si sapeva che al momento di deporre le schede nell’urna i malumori sarebbero stati dimenticati dai più.
Fastidiose ma non pericolose erano per D’Alema le critiche all’interno del PDS. Alessandro Natta osservava che «ai miei tempi questo calciomercato non c’era», claudio petruccioli riteneva che Di Pietro avrebbe dovuto aspettare l’epilogo delle sue traversie giudiziarie, ingrao e occhetto erano perplessi, ma si trattava di battitori liberi della sinistra. Più rilevanti erano, politicamente, altri no o altri ni. Contro, senza esitazioni, s’era subito detto Fausto Bertinotti: «una scelta insensata». Rifondazione comunista non avrebbe votato per lui. Contro, dopo un dibattito interno che aveva visto prevalere la linea dell’intransigente Manconi, anche i verdi. Disponibili ma a disagio i popolari e i diniani. Quel Tonino che dichiarava di voler rafforzare il centro moderato dell’ulivo poteva farvi razzia – i sondaggi lo attestavano – e ridurre al lumicino i piccoli partiti che nel centro erano accasati. Per placare le ansie dell’inquieto Marini, D’Alema gli aveva spiegato che imbarcando Di Pietro l’ulivo poteva disinnescarne le potenzialità esplosive. (Noncurante invece il veterano ciriaco De Mita: «Di Pietro decide di entrare in politica dalla porta di servizio. Lui ormai non è più un Ronaldo, è come Baggio. Somiglia a quei ciclisti che partono per vincere e che durante la corsa vengono raccolti dall’ambulanza. Finirà come Dini».) Nel centrodestra – dove le lacrime del vedovo inconsolabile Mirko Tremaglia, che avrebbe voluto Di Pietro al posto di Berlusconi, portavano una nota patetica – fioccavano sarcasmi venati di costernazione. Secondo Berlusconi la mascherata era finita. Divertente Fini: «Disse che il suo cuore era con noi. Glielo avranno trapiantato». Un elogio al cianuro arrivava a Di Pietro da Francesco cossiga: «Questa di Tonino è una decisione naturale, coerente, chiarificatrice. Da tempo lo spingevo ad entrare in politica... D’altronde era un politico anche quando faceva il PM... Io vorrei che si candidassero anche gli altri magistrati del pool che hanno acquisito un’analoga legittimazione politica».
Le sorprese non erano finite, anzi erano appena cominciate. Con una tecnica mutuata da quella dei presidenti calcistici – se l’inter compra Ronaldo il Bologna compra Baggio – Fausto Bertinotti escogitò, per neutralizzare la trovata di D’Alema, una contromossa di sicuro impatto sui media, se non sui disorientati elettori del Mugello. Il PDS voleva Di Pietro senatore? Ebbene, Rifondazione comunista gli avrebbe opposto sandro curzi: un comunista indelebile, in terra comunista, contro il reazionario dell’ulivo, spregiatore del parlamento e dei partiti. La sortita bertinottiana – che suonava come uno schiaffo a D’Alema – anticipava successive e ben più dirompenti iniziative del segretario rifondatore. Ma si stentava a capirlo, mentre l’ulivo svettava sul panorama politico. Si pensò anche questa volta, equivocando, a una lizza salottiera, la rivoluzione del cachemire.
All’ombra di falce e martello curzi era rimasto durante tutto il suo lungo percorso politico e professionale. Il debutto giornalistico l’aveva fatto nell’immediato dopoguerra, imperando stalin, a Radio praga: dai cui microfoni si raccontava agli operai e ai contadini italiani quanto fossero sfortunati dovendo vivere in un paese capitalista e senza le inestimabili gratificazioni del «socialismo reale». Rientrato in Italia era stato giornalista dell’«unità» e poi della RAI: e aveva svolto una intensa attività sindacale nella categoria. Era, secondo copione, antidemocristiano e antiamericano, e vaticinava sconfitte e lutti per il capitalismo. In un congresso della stampa s’era lanciato in una appassionata esaltazione del tricolore insidiato dalle sagome minacciose delle unità navali statunitensi incrocianti nel Mediterraneo. Questo dogmatico che Guareschi avrebbe definito trinariciuto era però dotato d’intelligenza flessibile e di capacità organizzative eccellenti. Mettendolo a capo del tg3 – quando la terza rete era stata appaltata ai comunisti – il pci aveva fatto un en plein. Il telegiornale di curzi – Telekabul secondo i detrattori – non lasciava indifferente nessuno. Lo si amava o lo si odiava, ma se ne parlava, e l’effetto Telekabul divenne travolgente quando il populismo di curzi si sommò al populismo di Michele santoro, con le ruggenti piazze televisive di Samarcanda, le folle meridionali che invocavano pane e lavoro, gli studenti che esaltavano la rivoluzione e volevano una poltroncina burocratica.
Di tanto in tanto curzi si presentava ai telespettatori in prima persona. Il suo opinionismo non era raffinato, la sua pronuncia romanesca – con i rituali appelli alla «ggente» – non era impeccabile, ma la calvizie e la rotondità del volto, che ricordavano sia il tenente Kojak sia l’omino di burro di pinocchio, ne avevano fatto un personaggio. Il Tg3 era diventato un fortino di sanculotti pronti a tutto, se il capo ordinava: e questo lo rendeva poco maneggevole per la sinistra ufficiale. Abbandonata la RAI, curzi era stato assunto da cecchi Gori, un direttore scomodo per un padrone anche lui scomodo. Infatti durò poco. Ma non gli erano mancate da ogni parte – finita malamente la parentesi cecchi Gori – le offerte per esibirsi in diagnosi televisive degli avvenimenti, anche se le sue passate diagnosi non erano state proprio azzeccate: e i quotidiani l’interpellavano spesso. L’uomo, abile e a modo suo coerente, era rimasto insomma sulla cresta dell’onda, e Bertinotti ne aveva profittato. Chi meglio di curzi poteva insidiare Di Pietro? curzi – iscritto al PDS e non a Rifondazione – aveva spiegato che la sua candidatura era provocatoria, voleva restituire alla politica moralità e coerenza: se Di Pietro rinunciava, avrebbe rinunciato anche lui. Ma D’Alema non poteva scaricare Di Pietro dopo aver impegnato, per candidarlo, il suo prestigio. Infatti Tonino non si mosse dal Mugello: né fece sensazione, dopo l’accavallarsi di sospetti, d’indagini, di assoluzioni, il parziale voltafaccia di Eleuterio Rea che, in un ennesimo interrogatorio a Brescia, aveva accennato a un possibile trattamento di favore usato da Di Pietro, oltre un decennio fa, a sergio Radaelli, un manager coinvolto in un’inchiesta sulle mazzette all’ATM, l’azienda milanese dei trasporti pubblici.
A Di Pietro e a curzi doveva aggiungersi, nel Mugello, almeno un altro candidato serio. Era impensabile – anche se di stranezze ne abbiamo viste tante – che il polo in odio a Di Pietro convogliasse i suoi elettori sull’uomo di Rifondazione. Poiché la gara era, per chiunque portasse i colori del centrodestra, disperata, si supponeva che la scelta del polo sarebbe caduta su uno scialbo e onesto signor nessuno. Chi la pensava a questo modo – ossia quasi tutti – non aveva fatto i conti con la fantasia del cavaliere: che alle trovate di D’Alema e di Bertinotti seppe opporre una malandrinata delle sue. Altro che signor nessuno: per i colori di Forza Italia avrebbe corso Giuliano Ferrara. Pochi giorni prima di quest’annuncio Ferrara aveva lasciato la direzione di «panorama»: se n’era andato, chiarì, non per dissidi con l’editore o con la redazione ma per stanchezza: e inoltre per il desiderio di seguire assiduamente la sua creatura prediletta, «Il foglio». La stanchezza era passata d’incanto quando Berlusconi gli aveva proposto, con una telefonata, d’affrontare Di Pietro: e lui, Ferrara, prometteva d’incalzare Tonino – e quando incalza, con la sua stazza fisica e polemica, è temibile – sui soliti e inesauribili temi dei cento milioni, delle Mercedes, delle pessime amicizie. La troupe elettorale del Mugello, così completata, era perfetta per uno show televisivo. I tre protagonisti erano diventati famosi grazie al piccolo schermo, la battaglia non era d’idee ma di video; il risultato appariva largamente scontato ma ciò che importava era lo spettacolo. Al grottesco della recita non si faceva caso. Eppure la bandiera della sinistra è impugnata dalla mano d’un Di Pietro che delle sue simpatie per la destra non ha mai fatto mistero, e la bandiera del polo dalla mano d’un Ferrara che fu un comunista duro in una famiglia d’intellettuali comunisti. Togliatti l’aveva tenuto sulle ginocchia, era stato consigliere comunale del pci a Torino. Poi era passato a craxi, e da craxi – mai da lui rinnegato, e gli fa onore – a Berlusconi: che l’aveva nominato Ministro per i Rapporti con il parlamento del suo governo. Giri di valzer: del decisionista moderato prestato all’ulivo e del comunista pentito prestato al polo.
Nonostante curzi, nonostante Ferrara, l’ingaggio di Antonio Di Pietro è stato per l’ulivo un colpo grosso – dal punto di vista dei consensi – almeno fino al momento in cui scrivevamo queste ultime pagine del libro. La sua immagine resiste in maniera Prodigiosa all’usura del tempo e degli avvenimenti, il suo partito ne surclasserebbe altri dal glorioso blasone, il suo apporto consente all’ulivo di pronosticare, anche senza Rifondazione, futuri successi: garantiti dall’ammucchiata straripante che abbracciando i postcomunisti socialdemocraticizzati, gli ex democristiani scampati alla fornace di Mani pulite, gli ex socialisti redenti, il sindacato ragionevole, gli imprenditori comprensivi o attendisti, gli gnomi di BankItalia e l’uomo nuovo d’impronta peronista, coprirebbe tutte le articolazioni importanti della società italiana. L’accorrere italiano in soccorso del vincitore farebbe il resto. Una strategia astuta, forse anche sapiente, senza dubbio disinvolta quella di Massimo D’Alema: anche se più adatta al buonismo omnicomprensivo di Romano Prodi che alla «cosa 2», ossia al disegno d’un unico partito della sinistra, così come è il labour in Gran Bretagna e come è la socialdemocrazia in Germania. Di Pietro è una forza, che rischia di diventare una forza eccessiva e ingombrante. Alcuni osservatori pessimisti – o realisti – hanno prospettato l’ipotesi inquietante che un ulivo così allargato possa instaurare una forma morbida di regime, una riedizione della Dc pigliatutto. «Gli altri partiti sono inutili» aveva sentenziato un giorno Mario Missiroli «nella Democrazia cristiana ci sono già tutti, dai fascisti ai comunisti.» Lo strapotere delle coalizioni è di norma scongiurato in Italia – fortuna o disgrazia che sia – dalle loro risse interne: era accaduto nello scudo crociato, è accaduto in un ulivo al quale Di Pietro porta, insieme ai voti, un’ulteriore zavorra di contraddizioni: sulle quali saprebbe far leva, per trasformarle in fratture insanabili, un’opposizione robusta, compatta. Tutte qualità che dalla vittoria dell’ulivo al gran passo di Tonino erano mancate al centrodestra. Dove Berlusconi, leader d’un partito che si richiama agli ideali liberali, che in alcuni suoi esponenti di spicco liberale è senz’altro, ma che conserva troppe connotazioni aziendali e personali, ha dovuto subire condizionamenti estranei ad una lotta politica genuina; dove Fini è insieme un alleato e un concorrente, e per compiacere il suo elettorato deve concedere molto al dirigismo, allo statalismo, all’assistenzialismo; dove i due tronconi postdemocristiani del CCD e del CDU portano nel Dna le tentazioni del trasformismo e dell’assistenzialismo statalista; dove, con l’appannarsi del carisma berlusconiano, le tentazioni centriste e centrifughe insieme diventano sempre più forti. L’ulivo ha il suo grande elettore in Bossi, che puntando sulla secessione e sull’isolamento, ghettizza una quota decisiva di voti sottratti all’area moderata, alla quale fisiologicamente appartengono.
A far pronostici si sbaglia facilmente, soprattutto in italia. Ci sembrava tuttavia certo, prima della crisi di governo con la cui cronaca chiuderemo queste pagine, che il seggio senatoriale potesse diventare per Di Pietro il trampolino di lancio che gli era indispensabile in vista delle prossime elezioni presidenziali, ossia dell’elezione popolare diretta di chi andrà al Quirinale dopo scalfaro. Il congegno delle candidature presidenziali, quale è stato delineato dalla Bicamerale, rende difficile l’entrata in lizza d’un comune cittadino. L’intoppo sarà superato grazie al Mugello. Allora, a bocce ferme – ferme per noi che dobbiamo pur scrivere la parola «fine», nella realtà le bocce sono in continuo movimento – Di Pietro potrebbe essere, e in cuor suo sicuramente ritiene d’essere, il candidato naturale dell’ulivo alla massima carica dello stato. Sempre allora – in una riproposizione politica del duello giudiziario sul quale abbiamo troppo dovuto insistere – Berlusconi rimarrebbe forse, benché malconcio, il suo naturale antagonista.
Sarebbe, ammettiamolo, una curiosa sfida. Nessuno dei contendenti – l’ha rilevato Eugenio scalfari – esce bene dalla singolar tenzone tra il cavaliere del biscione e il Grande Moralizzatore di Tangentopoli. Non ne esce bene silvio Berlusconi che s’è improvvisato paladino del garantismo, ed ha fatto della giustizia un tema essenziale delle sue battaglie politiche. Non ci sarebbe nulla da obiettare se Berlusconi non fosse coinvolto in una serie di procedimenti penali in cui lo si accusa di aver concorso nell’alterazione dei bilanci societari, di aver autorizzato la consegna di denaro alla Finanza, di aver finanziato illecitamente alcuni partiti. Sono, queste, disavventure dalle quali nessun imprenditore di rango è esente, e la FIAT – ce ne siamo occupati – vi è invischiata. Nulla dunque di straordinario in una Italia dove la mazzetta e i foraggia-menti erano – meglio scrivere «sono» – pane quotidiano. Oltretutto la magistratura ha cominciato a riconoscere – in contrasto con la tesi del pool di Mani pulite e della procura di Torino – che le aziende dovevano soddisfare le richieste dei potenti insaziabili e dei finanzieri infedeli, perché se le avessero respinte sarebbero state sottoposte a una vera persecuzione: erano, almeno in alcuni casi, vittime d’una concussione, non colpevoli di corruzione. Quand’anche le cose stessero in questi termini, rimane sconcertante il ruolo d’un elargitore di tangenti che s’improvvisa sacerdote della legalità. Né Gianni Agnelli né Romiti osano farlo. Romiti protesta per un tormentone d’inchieste che considera vessatorio, ma senza atteggiarsi ad apostolo del diritto. Il nonsenso della posizione berlusconiana è apparso evidente anche ad esponenti di spicco d’Alleanza nazionale. Il «conflitto d’interessi» che impaccia ogni mossa del cavaliere non è un’invenzione maligna, è un fatto. Allo stesso modo è un fatto che molti milioni d’italiani vedono in Berlusconi un uomo nuovo, risoluto, creativo, generoso – un vero imprenditore, non un cinico affarista – e per queste qualità sono disposti a sorvolare sul conflitto d’interessi. Ma sorvolare non equivale a cancellare, soprattutto se l’assedio al cavaliere – politico, mediatico e giudiziario – è incessante, e rinfresca le memorie.
Per Di Pietro il conflitto non è d’interessi, è d’immagine: l’immagine dell’intrepido nemico e flagellatore dei corrotti che mal si concilia con l’altra d’un magistrato-poliziotto, abile, attivo, ambiziosissimo, ma immerso in una fanghiglia maleodorante di frequentazioni dubbie, di compromissioni sgradevoli, di leggerezze censurabili. Non ci avventuriamo in ipotesi sulla destinazione dei miliardi di pacini Battaglia. A lume di naso esprimiamo il parere che un Di Pietro coinvolto in traffici di quell’entità non avrebbe avuto bisogno di farsi prestare cento milioni, o un’auto o un telefonino, e l’appartamento se lo sarebbe comprato. Le trasgressioni che gli vengono addebitate – e che un Gip di Brescia aveva archiviato, prima che D’Adamo rompesse il silenzio, come penalmente irrilevanti – si addicono a un giovanotto di campagna ansioso di diventare qualcuno, e di vivere come vivono i vip, non a un disonesto ammassatore di quattrini. Però la fulgida limpidezza dell’eroe è intorbidita, e non ci pare che lui abbia sempre agito al meglio per recuperarla. Le mezze frasi allusive non possono appartenere al bagaglio d’un cavaliere senza macchia e senza paura. Di Pietro, che ha perso i favori di molte «teste d’uovo» rinomate, mantiene pressoché intatti quelli del popolo indifferenziato. Assistiamo al paradosso di due personaggi ai quali l’intellighenzia va rimproverando senza requie errori e peggio e che tuttavia rimangono issati sulle vette della popolarità. Piacciono, e c’è da chiedersi se non piacciano più per i loro difetti – l’ottimismo e l’entusiasmo un po’ fanfaroni ma efficaci di Berlusconi, il populismo rozzo di Di Pietro – che per le loro indubbie qualità. Di candidati seri per il Quirinale ce n’è in teoria una caterva: tutti politicamente più agguerriti di Antonio Di Pietro e di silvio Berlusconi. Ma nessuno che abbia un paragonabile filo diretto con la «gente» o, alla sandro curzi, con la «ggente». Berlusconi invecchia restando, anche nel momento del suo declino, l’uomo nuovo; Di Pietro è a vita la bandiera di Mani pulite anche se l’omonimo pool l’ha scaricato, sia pure con le buone maniere.
Dopo la sortita di D’Adamo i cronisti avevano domandato a Francesco saverio Borrelli quali avrebbero potuto esserne le conseguenze per il pool di Mani pulite, e lui aveva replicato: «Ma noi cosa c’entriamo?». L’apparente candore di queste parole voleva sancire, con la secchezza che in Borrelli è caratteristica, la fine d’un equivoco. Antonio Di Pietro non è più riconosciuto da Borrelli come uomo simbolo del pool. Lo era diventato perché i suoi metodi rispecchiavano, nella fase aggressiva delle inchieste di Tangentopoli, un forte sentimento di massa, e lo era diventato perché i mezzi d’informazione l’avevano mitizzato. Questa infatuazione corale aveva messo in ombra sia Borrelli sia i colleghi di Di Pietro: non per caso era toccato a lui di leggere davanti alle telecamere un altro «non ci sto», quello del pool al decreto voluto da Berlusconi e dal suo ministro della Giustizia Biondi, e bollato come «salvaladri». Finita la stagione dei portenti, l’idolo degli italiani, il portabandiera della guerra alla corruzione, era diventato per Mani pulite un ingombro, e Borrelli aveva preso le distanze perché si capisse che gli incidenti giudiziari di Di Pietro – fossero o no frutto di calunnie – riguardavano ormai lui soltanto. Deplorava l’accanimento contro il suo ex sostituto, distinguendo peraltro tra i magistrati di Brescia – sulla cui azione non aveva nulla da ridire – e i sollecitatori di memoriali e di testimonianze d’accusa.
Senza Tonino il pool era stato ricondotto ad una dimensione e ad una funzione più tecnica. Non sappiamo se davvero la sua strategia comportasse – nel momento di massimo fulgore – una consapevole presa di potere, una occupazione giudiziaria della politica. Alcuni sintomi lo lasciano supporre. Se così fu, il gruppo di Borrelli agì su sollecitazione – potremmo dire su mandato – d’una pubblica opinione che, in preda a un delirio di speranze, scese in piazza per sostenere i PM di Milano, e incitarli a non andare per il sottile nella loro crociata. E i PM non delusero: intoccabili per il favore popolare, si posero non tanto contro quanto al di sopra della classe politica, imposero la rinuncia a provvedimenti che il parlamento deliberava, interpretarono secondo procedure «ambrosiane» le leggi. Furono un superpotere.
La controffensiva degli interessi minacciati aveva lo scopo di mettere al passo le procure invadenti. Dopo che i PM sono andati a spulciare anche i bilanci del PDS e delle «cooperative rosse», individuandovi le scappatelle d’obbligo, nessuno più nel palazzo aveva interesse a spronare i magistrati zelanti. Ma la giustizia italiana ha in se stessa, senza bisogno d’aiuti esterni, i germi della paralisi. Sono inesauribili i pretesti che alle manovre d’insabbiamento offre la babele delle nostre leggi, pascolo e santuario dell’azzeccagarbuglismo nazionale. E poi è quotidiano lo spettacolo delle risse e polemiche tra procura e procura, tra magistrato e magistrato, tra correnti delle toghe: e non si può pretendere che i cittadini diano credito illimitato – come hanno fatto nell’ora magica di tangentopoli – ai sacerdoti della legge se questi si esibiscono non in riti austeri ma in liti da ballatoio. Infine – ed è la considerazione più importante – gli entusiasmi hanno da noi breve durata: dopodiché l’italica ancestrale rassegnazione al peggio riprende il sopravvento. Non c’è tenacia nel perseguire risultati seri e concreti, restano al più altri effimeri slanci emotivi. Su di essi il pool di Mani pulite non può più fare assegnamento.
Non vorremmo essere fraintesi. Le procure non hanno abdicato. Sono anzi più che mai risolute nel far valere la loro presenza e la loro influenza, ma lo fanno con strumenti diversi dall’onda di piena che le aveva portate nel cuore del potere, espellendone altre istituzioni. Hanno sostegni tuttora solidi nel mondo politico, e hanno dalla loro parte la macchina della legge. I sostegni risultarono una volta di più evidenti nella bagarre della Bicamerale sulla bozza Boato per la giustizia: la bozza, che aveva all’inizio il consenso di una forte maggioranza parlamentare, era però sgradita ai magistrati, e tanto bastò perché la si imbalsamasse. Volendo poi richiamare alla realtà quanti si facessero illusioni sul loro disarmo, le procure di Milano e di palermo svolgono indagini che conducono in alto. Nel settembre del 1997 il pool di Mani pulite ha chiesto che la camera autorizzasse l’arresto di cesare previti, deputato di Forza italia. L’iniziativa dei PM milanesi veniva molto tempo dopo l’avvio della vicenda giudiziaria nata dalle rivelazioni di stefania Ariosto. Secondo Borrelli e i suoi sostituti la documentazione raccolta in svizzera attestava ormai in maniera inconfutabile che previti era stato al centro di una immane rete di corruzione, e aveva potuto contare sulla complicità dei giudici da lui foraggiati: grazie ai quali gli eredi di Nino rovelli, il «re della chimica» (il cui figlio maggiore, Felice, è stato estradato in Italia dagli stati uniti) avrebbero incassato una montagna di miliardi. I fatti erano vecchi, ma cesare previti poteva ancora, affermava il pool, inquinare le prove o fuggire. Dunque andava messo al fresco. La giunta per le autorizzazioni a procedere di Montecitorio non si pronunciò sulla questione per un motivo formale: l’istanza d’arresto non doveva essere presentata dalla procura, ma dal giudice per le indagini preliminari. In attesa che il Gip decidesse, previti – che insisteva nel sostenere di non aver commesso reati, e d’essere stato calunniato dalla «teste omega» – ottenne di potersi difendere davanti ai PM ilda Boccassini e Gherardo colombo.
La mossa della procura di Milano provocò una serie di reazioni divergenti e in qualche misura anche trasversali. Soprattutto a destra – ma con l’adesione di alcuni garantisti della sinistra – vi fu chi si preoccupò per l’ipotesi che un parlamentare finisse in galera, a distanza di anni dai reati contestatigli e per una severità mirata: il fumus persecutionis. I «giustizialisti» ribatterono sottolineando l’enorme gravità della trama criminosa che – se vera – sarebbe stata tessuta da previti e da altri, e che avrebbe portato la corruzione in uffici giudiziari di grande importanza, adulterando processi e sentenze. L’imputato previti non aveva, come tale, molti sostenitori, anzi quasi nessuno: il punto in discussione era l’opportunità dell’arresto.
Ma ve n’era un altro, di punto, che attizzava timori nel polo, e destava perplessità in qualche osservatore imparziale. «Non è me che vogliono, sei tu l’obiettivo» aveva detto previti rivolgendosi a Berlusconi. L’appello era senza dubbio interessato: buttando in politica i suoi infortuni penali, che apparivano pesanti e tutt’altro che immotivati, previti avvertiva Berlusconi ma scagionava se stesso. Il cavaliere era stato del resto prudente – e l’atteggiamento non gli era consueto – nel commentare l’azione del pool contro colui che pur aveva incautamente nominato Ministro della Difesa. Ma aveva ripetuto d’essere oggetto d’offensive giudiziarie senza quartiere, a Milano e a paler-mo. Lo si voleva corruttore e lo si voleva mafioso d’antica data: per raggiungere lui, diceva, ci si accaniva contro cesare previti e contro Marcello Dell’utri. Le indiscrezioni – vere o false che fossero – su indagini a carico del cavaliere per riciclaggio di denaro mafioso correvano da mesi in sicilia dove Forza Italia faticava a trovare candidati sindaci per le amministrative d’autunno (1997): forse in vista d’immancabili sconfitte o forse, insinuava Berlusconi, per i rischi con le procure che la candidatura comportava. Il cavaliere è un professionista del vittimismo – come le procure – e non conviene prendere per oro colato i suoi lamenti. Un dato è tuttavia certo: i travagli giudiziari di Berlusconi, dell’utri e previti hanno avuto inizio in coincidenza con una mobilitazione imponente di magistrati e di pentiti, dopo la nascita di Forza italia. È un dato che lascia intatta la solidità delle prove documentali raccolte per dimostrare che la corruzione aveva dimensioni impressionanti, e penetrava nei gangli vitali dello stato. Ma è anche un dato che fa riflettere. Finito il tempo delle emozioni collettive, resta la realtà d’una giustizia che non più a furor di popolo, ma a norma di legge – e si sa quanto le leggi siano manovrabili – condiziona la vita pubblica. Previti è, per verdetto dell’opinione pubblica, indifendibile. Ma in un paese decente non corre né l’idea che un sette volte presidente del consiglio, romano, sia stato un notabile mafioso né l’idea che sia mafioso il capo dell’opposizione, milanese. Per quanto screditata, la politica non può essere ridotta a questo.