L’approssimarsi della discussione sulla legge finanziaria non preoccupava più che tanto, fino all’autunno del 1997, Romano Prodi. Il DPEF (Documento di programmazione economica e finanziaria) approvato nel luglio precedente delineava i propositi dell’esecutivo: e prevedeva in particolare – consenziente Rifondazione comunista – ottomila miliardi di risparmio sulla spesa previdenziale. Inoltre la manovra – 25.000 miliardi, 10.000 di nuove entrate e 15.000 di tagli – era molto leggera se raffrontata ai quasi centomila miliardi rastrellati nel 1996 per l’acquisto del biglietto d’ingresso in Europa. Era una manovra che aveva le caratteristiche delle precedenti: i tagli erano a volte generici e sempre elastici, le entrate si basavano in parte su valutazioni ottimistiche di cespiti prossimi venturi. Il bisturi per gli interventi risanatori era stato reso meno affilato nella trattativa tra il governo e i grandi sindacati che, pur essendo ben disponibili e assennati come forse mai in passato, qualche concessione dovevano pur strapparla: e infatti la mutilazione della spesa previdenziale era passata da ottomila a cinquemila miliardi. L’opposizione era rassegnata ad una nuova dimostrazione di forza della maggioranza, magari con qualche punzecchiatura di emendamenti e di critiche che salvasse la faccia dei neo-comunisti. D’improvviso, in un ottobre infuocato anche meteorologicamente, l’attesa manfrina delle proteste declamatorie e dei voti a favore si trasformò in un inatteso e autentico dramma politico.
Dopo brontolii cupi il 28 settembre, in un’intervista all’«unità», il segretario di Rifondazione aveva detto con durezza che i suoi deputati non avrebbero votato la finanziaria di Prodi. Il giorno successivo cossutta rincarava la dose con un «Inevitabile la rottura della maggioranza, ci vorrebbe un miracolo»; e il 30 settembre Bertinotti tornava alla carica in tono apocalittico: «solo Dio può salvare il governo» («Ma Dio ha altro da fare» ribatteva clemente Mastella). Bertinotti faceva sul serio, il governo dell’ulivo, che si considerava ormai al riparo da colpi di mano, era in pericolo. Tra i parlamentari rifondatori s’avvertivano dissidenze (palese e netta quella di Ersilia salvato) ma il grosso seguiva i due leader. Nonostante tutto molti rimasero scettici sulla serietà degli ultimatum neocomunisti: e attribuirono lo scatto d’ira di Bertinotti all’idillio tra governo e sindacati (cofferati aveva perfino accettato l’immediata discussione del sistema pensionistico la cui intoccabilità era dogma per Rifondazione). Antonio Martino, esponente autorevole del polo, promise addirittura di sottoporsi al più avvilente degli interventi chirurgici se gli annunci di guerra fossero stati seguiti dai fatti (a crisi dichiarata tergiversò e fece bene perché in definitiva l’epilogo della crisi gli diede ragione). Prodi aveva dapprima glissato, con la sua tattica prediletta, sul problema, e s’era detto «non preoccupato». Ma di fronte a un cannoneggiamento di niet ammise che preoccupato lo era, e parecchio. «Questa è la crisi più pazza del mondo» lamentò, aggiungendo a beneficio di quanti l’esortavano a trattare: «Faccio fatica a parlare con chi mi prende a calci». Scese in campo – e in campo rimase costantemente, da quel momento in poi – oscar Luigi scalfaro, schierato senza riserve con Prodi: che del resto aveva dalla sua parte la quasi totalità dell’informazione, e senza dubbio la grande maggioranza del paese (inclusa la confindustria). «È incosciente chi mette i bastoni tra le ruote del paese per seguire interessi di parte» sentenziò il capo dello stato in una delle sue veementi prediche. Bertinotti versus scalfaro: duello non solo di idee, ma di erre mosce.
La maggioranza era andata in pezzi sulla legge che era la trave portante della politica governativa e l’opposizione, sorpresa e deliziata insieme per il gentile omaggio, chiese un dibattito parlamentare in cui fossero verificate le condizioni di salute della maggioranza. Prodi disse immediatamente di sì, la seduta alla camera fu fissata per martedì 7 ottobre. Quali erano i motivi dichiarati della disputa tra Rifondazione e l’ulivo? il primo è che cossutta e Bertinotti non s’appagavano delle possibili modifiche da apportare, cammin facendo, alla finanziaria. Pretendevano che essa fosse ritirata, e ristrutturata. Da come era – ossia, a loro avviso, una finanziaria che privilegiava i ricchi e penalizzava i poveri – doveva diventare una vera finanziaria di sinistra. Dunque nessun taglio alla spesa sociale, un impegno per la diminuzione dell’orario di lavoro a 35 ore a partire dal 2000, l’abolizione dei ticket a carico dei malati cronici, non il decesso ma anzi la rivitalizzazione dell’iRi: che avrebbe dovuto procedere all’assunzione di trecentomila giovani per lavori non precisati di pubblica utilità. E ancora uno stop alle privatizzazioni e la rinuncia a qualsiasi forma d’aiuto finanziario alla scuola privata. Nel discorso con cui avviò il dibattito di Montecitorio, Prodi si cimentò nell’impresa di salvaguardare la finanziaria – almeno nei suoi pilastri – e d’andare incontro alle richieste dei neocomunisti. Fu largo di riconoscimenti a Rifondazione per il contributo dato all’azione del governo, insistette sui ritocchi alle cifre, sottolineò grave e risoluto il danno enorme che una crisi avrebbe arrecato all’Italia proprio nel momento in cui i parametri di Maastricht venivano raggiunti, e il traguardo dell’Europa era a un passo. Nessuno di questi argomenti persuase Berti-notti che non poteva prestar fede – asserì – agli affidamenti generici («anche la Dc faceva finanziamenti a pioggia per l’occupazione: i seicentomila posti di lavoro di questa finanziaria somigliano al milione di posti promessi da Berlusconi»). «Almeno dateci qualcosa» invocava Bertinotti, quasi che non gli fosse stato dato niente. Tra l’ulivo e Rifondazione era tutto un ping pong d’evocazioni d’operai, cassintegrati e pensionati in angustie: che secondo l’ulivo aspettavano con ansia che la finanziaria andasse in porto, e secondo Bertinotti ne temevano come la peste le conseguenze. La Borsa non aveva dubbi: la caduta del governo sarebbe stata una jattura. Infatti le quotazioni scendevano a precipizio quando la rottura era data per certa, e risalivano ad ogni sintomo di schiarita, ma il saliscendi lasciava del tutto indifferente Rifondazione. Nerio Nesi, il suggeritore economico di Bertinotti, aveva detto: «La Borsa sta andando giù? Non me ne può importare di meno. Ho totale disprezzo per la Borsa italiana con tutti i suoi alti e bassi. Tanto lì dentro ci sono solo speculatori». Opinione sconcertante ma legittima, se non fosse che Nerio Nesi era stato nominato presidente della Banca Nazionale del Lavoro (quella dello scandalo, in nessun modo collegato a lui, di migliaia di miliardi per la filiale di Atlanta): e come tale aveva perorato nel 1984 l’ingresso della BNL in borsa.
Insieme al no di Bertinotti affiorarono nella discussione di Montecitorio l’alternativa secca di D’Alema («o passa la finanziaria o si va a votare») e la proposta compromissoria di Berlusconi che trovava eccellente ascolto nei piccoli partiti (ma non in Fini): per il bene del paese si poteva varare un governo di larga maggioranza che votasse la finanziaria e garantisse le scadenze dell’euro. Al termine degli interventi Prodi avrebbe dovuto replicare: prese invece tempo – tra le proteste del polo – riservandosi di riproporre l’indomani al senato la sua posizione e di tornare a Montecitorio il 9 ottobre. Era un modo per rinviare lo show-down finale e consentire ai volenterosi mediatori – ce n’era una caterva – di lanciare le loro esche.
L’8 ottobre parve che un’intesa fosse vicina. Bertinotti accennava a un patto di stabilità che vincolasse, per un anno, le due ali della maggioranza. Prodi era disposto a esonerare da ogni decurtazione le pensioni degli operai, e a trasformare l’IRI in una agenzia di coordinamento per le iniziative in favore dell’occupazione nel sud. Arrivato il giorno della verità, Prodi seppe essere, nella sua replica ritardata, malleabile e dignitoso insieme. Elencò puntigliosamente ciò che il governo era disposto a concedere, nel solito disorientante balletto di miliardi. Su un punto fu tuttavia intransigente: la finanziaria non sarebbe stata ritirata né la sua stesura ridotta a una copia irriconoscibile dell’originale. Tra le dichiarazioni di voto una sola contava veramente, quella di Rifondazione comunista affidata al copogruppo dei deputati, oliviero Diliberto. Con il gesto del «pollice verso» Nesi aveva anticipato, entrando in aula, il no del suo partito: successivamente articolato da Diliberto in argomentazioni prevedibili. Prima che s’arrivasse a un voto di sfiducia Prodi, pallido e calmo, si alzò per pronunciare poche parole: «Dopo la presentazione della risoluzione da parte di Rifondazione comunista con la quale questa forza ha sancito la crisi della maggioranza politica espressa dagli elettori il 21 aprile, mi recherò dal capo dello stato e presenterò le dimissioni». Il giuoco d’anticipo di Prodi non aveva nulla d’impulsivo. In mancanza d’una formale sconfessione parlamentare il presidente del consiglio poteva essere rimandato davanti alle camere, dopo le consultazioni del Quirinale, per essere definitivamente bocciato o promosso.
L’ondata d’anatemi, insulti, deprecazioni dalla quale Rifondazione fu sommersa dopo la sua azione di killeraggio era più che comprensibile. Con qualche eccesso, forse, negli elogi al governo Prodi, dipinto come il realizzatore d’una favolosa età dell’oro, e qualche eccesso d’autoincensamento nell’ulivo. Prodi ha messo a segno risultati economici importanti, come li hanno messi a segno – non tra i paesi «virtuosi» dell’unione Europea, ma tra gli spensierati del suo «ventre molle» – prima González e poi Aznar in spagna, e simitis in Grecia. I governi si sono comportati bene perché le regole e le scadenze dell’unione monetaria non potevano essere eluse. Ma le cifre dei conti pubblici italiani erano lì ad attestare progressi enormi. A questa strategia Rifondazione comunista opponeva soluzioni brezneviane e peroniste insieme, la conservazione plumbea del «socialismo reale» e le fantasie consolatorie dell’economia di piazza. Lo stato non doveva risparmiare su nulla (tranne che su qualche caso scandaloso di pensioni privilegiate), e invece doveva dare tutto: essere imprenditore di non si sa cosa (ma con valanghe d’assunzioni) ed elargitore d’aumenti. Problemi come la competitività industriale erano estranei a questa visione, una legge che riducesse l’orario di lavoro e l’iRi dispensatore di posti erano quanto occorreva per accrescere l’occupazione. Tutto questo era stato sperimentato numerose volte, in numerose versioni, e sempre aveva fatto fallimento. Ma Bertinotti e cossutta sapevano dove trovare i quattrini necessari per le loro iniziative, erano nei duecentomila o trecentomila miliardi di evasione fiscale. Bastava recuperarli, e problemi non ce n’erano. Che è come dire: perché l’amministrazione italiana funzioni a dovere basta che ogni dipendente pubblico lavori con zelo, onestà e competenza. Già, ma come ci si arriva?
L’infantilismo e il pressappochismo evidenti delle tesi di Rifondazione nascondevano tuttavia i problemi reali d’una sinistra divisa nella quale una delle sue due «anime», la pidiessina, aspirava all’egemonia, e l’altra, la neo-comunista, voleva preservare la sua identità, il suo mordente, il suo elettorato. Rifondazione sapeva che il peso dei lavoratori manuali diventa, nella società italiana, sempre minore, che i proletari della vulgata marxista non esistono quasi più: e allora puntava sul mondo studentesco con fremiti sessantottini, sugli emarginati, sui disoccupati intellettuali del sud, sugli immigrati. Le aspirazioni che Rifondazione deve interpretare sono profondamente diverse non solo da quelle del ceto medio (che anche nell’ulivo ha un ruolo determinante) ma da quelle degli operai che nella CGIL votano per cofferati. Stavano inoltre in sottofondo questioni – come le riforme istituzionali e la riforma elettorale – che per Rifondazione significano pressapoco la sopravvivenza: con il maggioritario secco Rifondazione sarebbe ridotta al lumicino. Cossutta e Bertinotti sono una strana coppia. Cossutta è un apparatchik di matrice sovietica, Bertinotti ha le sue radici ideologiche nel socialismo di Riccardo Lombardi: che era intelligente e di un’onestà cristallina: ma covava la voluttà dello sfascio, era contento come una pasqua se gli riusciva di mettere a soqquadro un governo, o il suo partito, o la sua corrente. Quell’insegnamento Bertinotti non l’ha dimenticato. Il male oscuro del governo Prodi veniva dunque da lontano, dalle desistenze che erano utili ma piuttosto disoneste, e da una maggioranza che di quelle desistenze era il frutto: e che metteva insieme gli inflessibili contabili di BankItalia e gli sbarazzini inventori dell’occupazione per decreto. Pare che all’estero Bertinotti sia piaciuto: è piaciuto anche Dario Fo, insignito del Nobel mentre Prodi annunciava il suo congedo dopo 514 giorni a palazzo chigi e mentre silvio Berlusconi rinunciava ad essere candidato premier per il polo nell’eventualità di elezioni ravvicinate, riservandosi i compiti di regista della coalizione di centrodestra. Bertinotti, Fo, anche Bossi sono, a modo loro, divertenti. L’Italia seria lo è molto meno.
Gli italiani rividero in televisione, con malinconia, lo stanco rituale delle consultazioni di scalfaro, mentre anche nelle fabbriche e nelle piazze montava la rabbia contro Bertinotti. Fu fischiato ad Assisi (proprio in quei giorni colpita duramente dal terremoto) dove partecipava a una marcia per la pace. Le tanto evocate tute blu si materializzarono a Roma quando una delegazione di metalmeccanici bresciani chiese perentoria che le due sinistre la smettessero di litigare. Allora gli italiani appresero con nauseato stupore dalla bocca stessa di Bertinotti che lo spazio per un «compromesso» esisteva ancora, bastava un po’ di buona volontà del governo. A dare una mano a Bertinotti era sopraggiunto, provvidenziale, il primo ministro francese Lionel Jospin sbandierando la proposta d’un disegno di legge per la settimana lavorativa di 35 ore, in Francia, già dal 2000 (si trattava per lui d’onorare una piuttosto sconsiderata promessa elettorale). In atteggiamento di bonaria rampogna Bertinotti – alla cui resipiscenza sembra abbia dato forte impulso cossutta, che vorrebbe addirittura Rifondazione al governo – diceva all’ulivo: vedete, m’avete imputato deliri utopistici, avete sostenuto che la riduzione dell’orario va ottenuta con lo strumento dei contratti e non per legge, e invece la Francia ci dà una lezione. Adeguatevi a Jospin sull’orario, e potremo ricucire lo strappo. (per verità siamo bravissimi, noi italiani, nello sbagliare da soli, senza imitare altri.) oltre che cossutta, premevano su Bertinotti quei dirigenti periferici del suo partito e del PDS che in vista delle amministrative d’autunno già si adoperavano con alacrità per nuove alleanze tra Rifondazione e ulivo, e dunque per nuove scandalose rinunce alla coerenza nel segno della poltrona.
Fu molto apprezzabile la freddezza con cui Prodi reagì all’avance bertinottiana ripetendo che la finanziaria era blindata, o prendere o lasciare (avremmo anzi preferito che l’avesse blindata prima, senza tante tortuosità e cedimenti): freddezza sottolineata da un lungo incontro con Di Pietro, che era anche un avvertimento a Rifondazione: badate, con un collettore di voti come «Tonino» di voi non ci sarà più bisogno, se si andrà alle urne. Bertinotti, che aveva voluto mettere definitivamente al tappeto il governo – e un colpo duro l’aveva assestato – era adesso nell’angolo. Non toccava più a Prodi di limare, correggere, rinunciare. Toccava a lui di mascherare, alla meglio, la capitolazione: debitamente registrata da un soddisfatto scalfaro. L’accordo, cui era assegnata la durata d’un anno abbondante – era l’idea di Bertinotti – prevedeva che: a) la finanziaria fosse approvata da Rifondazione così come Prodi l’aveva illustrata alla camera prima della crisi; b) l’orario di lavoro fosse ridotto, nel 2001, a 35 ore, con modalità fissate di concerto dai sindacati e dalle aziende; c) dal previsto giro di vite pensionistico fosse escluso il lavoro operaio e quello equivalente. E poi una agenzia per il sud – c’è da rabbrividire se si pensa alla cassa del Mezzogiorno e alle varie Agensud, insud, Fime – con il compito di coordinare gli interventi e gli incentivi. La maggior concessione spuntata da Bertinotti era la riduzione dell’orario di lavoro, subito deplorata dalla confindustria e accolta con mugugni dai moderati dell’ulivo. «ci sarebbe da preoccuparsi» scriveva scettico, e perciò ottimista, un commentatore «se non fosse che nessuna legge, e tanto meno una dichiarazione programmatica, ci potrà impedire, fra tre anni, di ripensarci.»
La vittoria di Prodi – e di scalfaro – era evidente, altrettanto evidente la sconfitta di Bertinotti che era stato incapace di valutare non solo gli umori del paese – «non gliene poteva importare meno», per usare l’espressione di Nesi – ma quelli della sua base. L’Italia poteva entrare in quell’Europa che a Rifondazione proprio non va a genio e che è stata la scommessa di Prodi, il governo non aveva abdicato né sconfessato i sindacati. Quella di Bertinotti era tuttavia una sconfitta, non una disfatta. Era riuscito a far mettere agli atti – l’aveva rilevato paolo Franchi sul «Corriere della sera» – che non si governa e non si legifera senza o contro i comunisti, ed aveva messo una zeppa nell’ingranaggio delle riforme istituzionali e della riforma elettorale, da lui considerate una minaccia. Significativo era, nel documento che sancì la pace, l’accenno a una «consultazione sistematica tra il governo dell’ulivo e Rifondazione comunista... Relativamente ai passaggi politicamente significativi della stessa azione di governo». Ossia, in soldoni: non doveva più accadere che Prodi s’accordasse con i sindacati scavalcando Rifondazione, e dandone per scontato l’assenso. Prodi ha negato che vi sia stato uno spostamento a sinistra della maggioranza: resta tuttavia la mina dei «diversi» che nella maggioranza sono inclusi e che può essere neutralizzata per un breve periodo, non disinnescata. S’è perpetuata l’anomalia di questa stagione della politica italiana: l’opposizione che il governo deve tenere a bada non è quella ufficiale, è quella interna alla maggioranza. L’anomalia durerà – quale che sia lo schieramento al potere – finché dureranno in Italia non solo regole imperfette avvolte da una giungla di cavilli, ma un costume politico bizantino, allergico alla chiarezza. Un costume che ci propina le quasi-crisi, le quasi-maggioranze, le quasi-riforme. E non c’è rimedio.