Per una critica delle automobili

di Franco La Cecla

 

Ivan Illich individua senza mezze misure il carattere paradossale del mito per eccellenza della modernità, l’equazione più velocità = più libertà, e il suo corollario, auto individuale = via dalla pazza folla. Se c’è un simbolo che incarna per eccellenza la società neoliberale e che potrebbe essere uno stemma sulla bandiera di vecchi e nuovi governi è l’automobile come diritto di tutti. Il rombo del motore come inno all’individuo nasconde un sistema del trasporto che monopolizza ogni altro tipo di mobilità, e distrugge la capacità individuale di spostarsi con meno fatica e con meno spreco energetico. Illich mette il re a nudo: «Nei paesi dove non esiste un’industria del trasporto, la gente riesce a ottenere lo stesso risultato andando a piedi dovunque voglia, e il traffico assorbe dal 3 all’8 per cento del tempo sociale». La nostra società dedica invece un tempo enorme agli spostamenti, è vittima del funzionamento ingombrante e controproducente che ha come centro l’auto.

L’automobile è un ossimoro. La risposta individuale alla mobilità finisce per impedire all’individuo di spostarsi: il traffico e l’imbottigliamento non sono un effetto secondario del sistema, ne sono l’essenza. Già negli anni sessanta la cosa era talmente chiara da diventare il tema centrale dei film di Fellini – 8 e mezzo per esempio – e di Jean-Luc Godard. Julio Cortazár ne fa il centro della sua riflessione in un racconto paradossale: lo spostamento in auto nel fine settimana diventa un safari di stanziali sull’autopista.

La gente finisce per passare in auto gran parte del tempo che pensava di risparmiare. In più paga un tributo di denaro e di energia smisurato rispetto ai vantaggi e ai chilometri percorsi. L’industria del trasporto è controproduttiva, più si espande e più costruisce la fine della mobilità.

Al lettore di oggi dovrebbe apparire molto fastidioso, trentadue anni dopo la prima stesura di questo saggio, rendersi conto che le cose sono molto peggiorate: la nostra società è ancora vittima dell’automobile e l’automobile ormai è un soprammobile da città che ha perso qualunque carattere anche vago di utilità. Basta osservare gli spot ossessivi che invadono tutto il campo della pubblicità televisiva. L’auto è proposta non come mezzo per spostarsi, ma come opera d’arte, la gente si volta a guardarla come se fosse una bella donna, suscita stupore e soprattutto regala – almeno apparentemente – un vantaggio sul prossimo: l’invidia che suscita negli altri essere visti alla guida di un’auto siffatta. Oppure la promessa è ancora «via dalla pazza folla», con gigantesche Suv e 4×4 che conquistano i pochi boschi e le poche montagne rimaste. La cosa ancor più ferale è che la critica sociale all’automobile non esiste quasi più: sembra essersi rassegnata al dato di fatto – proprio oggi che siamo agli sgoccioli energetici e ambientali e che il disastro urbano è giunto al limite –, oppure provoca solo una leggera scalfitura a un sistema che ormai diamo quasi tutti per scontato e al quale siamo regolarmente costretti a metter pezze e tappare falle. E cosa dire della triste storia di un’associazione mondiale per l’ambiente che vende alla Fiat il diritto di chiamare «panda» proprio un’auto?

L’effetto è fare credere ai più che l’ecologia sia solo una questione di stile di vita e di scelta – de gustibus – e non l’ultima uscita possibile.

Ivan Illich aveva scritto questo testo con il titolo Energie et equitè, su invito del direttore di «Le Monde», a seguito del successo che in tutto il mondo qualche tempo prima aveva avuto I limiti dello sviluppo. Si parlava allora (nel 1973) – se ne parla ancora – di crisi energetica, di fine prossima del petrolio. Rispetto ad allora sappiamo con certezza che il nostro clima è stato alterato indelebilmente dalla concentrazione di CO2 nell’atmosfera, che il livello degli oceani si sta alzando e che i Poli si stanno sciogliendo. Sappiamo poi – lo sanno anche i negazionisti alla Crichton – che la nostra vita quotidiana è peggiorata, che le città sono camere a gas e incubi ad aria condizionata, che le automobili hanno «okkupato» gran parte dello spazio che dovrebbe essere riservato a una convivenza piacevole e sana e che di tutto questo le industrie automobilistiche, i governi, gli amministratori se ne infischiano e fanno pagare ai cittadini i costi. Come se tutto ciò fosse inevitabile, il prezzo richiesto da un progresso che nel 1973 poteva ancora avere dei fedeli ma che oggi è veramente solo glamour, cinismo ironico delle brand e fatalismo dei politici. Nell’agenda di nessun politico c’è l’eliminazione del traffico privato dalle città, né esiste un solo paese d’Europa dove la contrazione del numero di vetture circolanti venga vista come un necessario, inevitabile provvedimento. Ancora una volta, come trent’anni fa, vince la miopia, il brevissimo termine di una civiltà che nel suo insieme si sta suicidando e sta uccidendo il mondo. Antropologi e filosofi ci spiegano che forse è questa la nostra deriva naturale. La nostra società ha rinunciato da tempo a credere che il mondo possa essere salvato, la sua distruzione sistematica è la visione coerente di una ricerca dell’abisso. Solo nella distruzione e nelle rovine riconosceremo la nostra potenza. Oggi gli stessi profeti di sventure sono scavalcati dall’ovvietà di chi pensa che la visione realista del mondo ne implica la distruzione. Siamo figli di un postcolonialismo della speranza che irride chiunque proponga o pensi a soluzioni. Qui l’unica soluzione applaudita è il prolungamento dell’agonia, la deriva di un magnifico fatalismo che crede che la storia sia un materassino sgonfio a cui appoggiarsi in mare fin quando regge. Nemmeno il pessimismo oggi ha senso. Non è mondano, nel senso più profondo di questa parola. Media, ideologie del potere e del contropotere, derive normalizzatrici e ambizioni finanziarie ci insegnano quotidianamente che non è più lecito domandarci dove andiamo.

Ivan Illich aveva la freschezza sferzante di chi osava affrontare le cose che nessuno ancora intuiva, di chi smontava la miopia di un regime basato sull’ovvia continuazione di sé. La sua critica radicale mirava a svelare l’imbroglio nascosto nel quotidiano, il sogno di dipendenza su cui era ed è costruita la nostra società. Per lui l’automobile è l’ennesima tentazione di perdita dell’autonomia, un sogno alimentato dalle discrepanze economiche e dalla rincorsa tra le classi, ma tutto mirato a eliminare il potere reale della gente sulla propria vita. Illich ci ha insegnato con un’intera vita che la storia dell’occidente, dalla deformazione della Chiesa alla sua pantomima in veste statale e poi di mercato, è una storia di rinuncia all’autonomia, il devolvere la propria anima e il proprio corpo a un’entità superiore. Come avrebbe mai potuto essere accolto dalle chiese marxiste, cattoliche, integriste di destra e sinistra? Che tipo di messaggio accettabile avrebbe potuto offrirci se non quello di chi, come teologo e uomo di chiesa, sapeva bene da dove proveniva il marcio? Corruptio optimi pessima, solo un uomo innamorato del Cristo e della Chiesa poteva indicare quale mostruosità essa fosse diventata. Niente a che fare con il sistema della mobilità? Oggi la mobilità è una fede molto prima di essere una pratica e un diritto. La mobilità detta ragioni aristocratiche, decide chi veramente vale e chi no. È la nuova morale cosmopolita, il destino ubiquo di coloro che si preoccupano dell’umanità. Gli altri sono i poveracci che si dibattono tra metropolitane affollate, code interminabili alle frontiere, su pateras e zattere ridicole che colano a picco al primo colpo e che si danno bellamente in pasto ai pescecani.

Illich ci ha raccontato la storia della distruzione della città come spazio delle uguali opportunità dall’automobile in poi. Con l’automobile la città che era risorsa primaria viene sottratta ai più e al suo posto si organizza uno spazio della circolazione che nulla ha a che fare con lo spazio democratico della polis. L’automobile espropria secoli di diritti d’uso, commons che garantivano fie re, mercati, ambulanti, vita intensa e ricca di faccia a faccia. Inventa un handicappato, il pedone, qualcuno che viene definito da una mancanza. E inventa le riserve, i recinti chiusi dove questa minoranza può circolare, le zone pedonali. Offre in cambio l’isterica fissità dello sguardo sul parabrezza, l’idiotismo di chi seduto crede, accelerando, di vivere una grande avventura. Il corpo è il primo oggetto di ridicolizzazione. Quel corpo che aveva dominato cavalli e cammelli, che si era servito del regno animale come simbiosi di una nuova mobilità viene invece umiliato, diventa protesi di una protesi, intelligenza, attenzione prestata a una macchina perché funzioni. L’eroismo dell’umano al volante ha bisogno di gladiatori, di piloti di Formula uno che facciano sentire anche l’impiegato che spreca la sua vita nel traffico un corridore in procinto di effettuare il sorpasso della vittoria. Tra Valentino Rossi, Schumacher e un operaio alla catena non c’è nessuna differenza. È l’umilazione del corpo che presta il cervello e solo quello alla macchina. Chi vuole costruire una mitologia della velocità e della competizione deve alla fine nascondere i corpi dei piloti, meglio che si riducano davvero a delle tute aereodinamiche, che il loro cervello sia solo la forma di un casco. Non è un caso che nei cartelloni pubblicitari delle auto di grossa cilindrata e in buona parte degli spot televisivi dietro al parabrezza non vedete nessuno. L’ideale è la macchina che si è inghiottito il pilota. Mentre l’uomo a cavallo era la rappresentazione di un antropocentrismo, l’uomo al volante è l’inno al motore.

Abbiamo vissuto senza dubbio periodi migliori: c’è stato un gran momento della storia dell’umanità dove la dignità del cavaliere sul suo cavallo ha significato un rapporto tra intelligenze, un dialogo di domesticazione dell’andare, dove il passo, il trotto, il galoppo hanno cambiato la fruizione del mondo. Lì è avvenuta la rivoluzione dei sensi, lì e poco dopo sui treni: un mondo che sfreccia veloce ai vostri lati. Per poter essere sentita, la vertigine della velocità deve ancora inglobare e coinvolgere il corpo o deve offrirgli la possibilità di fruire con i sensi. La velocità in auto oltre i trenta orari è solo fissità in avanti, solo sprezzo del pericolo, ma non sensorialità. Le auto di oggi vi promettono di stare in poltrona, di non accorgervi nemmeno del pericolo che correte o fate correre agli altri.

Nel dialogo col cavallo l’uomo si è fatto animale intelligente, non protesi di un animale ma doppio corpo, corpo doppiamente forte e intelligente e senziente. Basta rileggersi il Grande Sertão di João Guimarães Rosa per imparare cosa ha significato quel montare, quel passo o quel trotto nella storia del pensiero e della sensibilità. Difficile rimontare a quella dignità, non per nulla le automobili scimmiottano, ancora oggi, i cavalli. E la gloria di chi «sente il motore» o di chi chiama con un nome di donna la propria auto è un magro premio di consolazione che si paga molto caro.

L’automobile è la presa in giro più colossale del secolo, degli ultimi due secoli. Promessa di libertà e di incremento di potere dell’individuo è diventata espropriazione di ogni possibilità reale di movimento, pantomima ridicola di una poltrona con le ruote che tutto sommato sta ferma. Il coro solitario delle pubblicità televisive recita ormai solo il mantra delle automobili, tutte uguali nella linea e nelle prestazioni, tutte filmate in paesaggi incontaminati, mentre la vita quotidiana ti piazza con vendetta e ghigno il conduttore di Porsche accanto al contadino che guida la lapa a un semaforo della Brianza. Oggi il traffico è solo parodia, presa in giro definitiva di chi anche solo un momento prima ci ha creduto. Magari fossimo ancora ai tempi del sorpasso di Gassman.

Alla fine della guerra gli ingegneri aereonautici tedeschi si fanno perdonare elaborando auto che hanno motori di aerei, la Porsche, la Ferrari, l’Alfa Romeo. Il rombo dei motori diventa la poesia nuova, primaria. Magari potessimo ancora sentire i brividi nell’ascoltare quei ruggiti! Siamo invece oggi figli scafati di un mondo che sa di non poter credere più né a velocità né a spostamento. Ci rimane l’effetto moda. Stare fermi, il più possibile, in macchina per farsi vedere. Quello che avevano già capito i chicanos quando nelle città californiane organizzavano gli slow rider, parate di grandi auto con motori ridicoli e altissime soffici sospensioni. L’automobile oggi avrebbe bisogno di grandi luna park in cui spendersi e in cui mostrare la propria parodistica paradossalità: parchi, riserve chiuse per metterci dentro tutti coloro che hanno comprato una grossa cilindrata e una Suv, che si scatenino nel riflesso e nella competizione, che calpestino ogni asfalto e sterrato e che lascino finalmente in pace le nostre città e i nostri paesaggi. Dategli la possibilità di distruggere, la capacità di imitare i tank che entrano a Gaza o a Bagdad, e vedrete come lo spettacolo cui le Suv sono destinate finalmente si compirà. Non è un caso che le auto oggi assomiglino sempre di più ad auto di diplomatici o a veicoli da guerra. Presuppongono un paesaggio di paesi bombardati da attraversare con vetri fumè. L’auto è oggi il disprezzo del mondo là fuori, il poterne chiaramente fare a meno. È la fruizione distratta di pedoni, leoni da safari, puttane da marciapiede notturno e blackbusters di periferia.

L’auto è l’impero occidentale, è l’avanzare inesorabile dell’asfalto e del calore che porta con sé. Si chiamava Tropici senza motore un libro fotografico che il Touring Club pubblicò negli anni settanta. Vi si testimoniava un mondo che stava per essere stravolto, ma che raccontava ancora di equilibri, di odori per strada non ancora scacciati da gas di scarico, di una compresenza di molti modi di spostarsi e di andare.

Dimentichiamo spesso che ancora oggi l’auto giunge in contrade lontane e ne distrugge paesaggi, ricchezza di possibilità di spostamento e democrazia urbana. L’auto sarebbe utile se fosse un mezzo tra altri per spostarsi, ma questo è un assurdo. L’auto contiene insito il monopolio, la distruzione di tutte le altre forme dell’andare.

Venite portati su un risciò-cyclo ad Hanoi in mezzo a un mare di biciclette. Vi sentite in colpa perché qualcuno pedala e voi no. A una curva maledite il vostro conduttore perché si sta immettendo in senso contrario in un flusso di bici che vi vengono contro. Eppure non accade nulla. A quella velocità e in mezzo a una velocità omogenea ci si può scansare facilmente, si glissa tra gli altri corpi e tra le altre bici. Appena nel sistema entrano i motorini gli incidenti mortali diventano così alti da far dire ai giornali di Hanoi che ci sono oggi lo stesso numero di morti che nei giorni peggiori della guerra del Vietnam. Appena nel sistema entrano le auto tutto si blocca e diventa un intrico nel quale si odono solo le grida supponenti dei clacson. Appena la velocità supera i trenta orari e ai corpi su bici si sostituiscono le lamiere la gente si fa molto più male e gli stessi privilegiati in macchina sono vittime del blocco che creano.

Se c’è un’illustrazione della deficienza del credo progressista, dell’idea che più veloce, più individuale e più numeroso significa fare andare avanti la società, è proprio un ingorgo. L’auto non è meglio, è semplicemente un’ipotesi sbagliata che diventa l’unica possibilità appena si affaccia in una società.

Illich ci ricorda che la bicicletta è un’invenzione contemporanea a quella dell’automobile, non è venuta né prima come qualcosa di tradizionale né dopo come onda eco contestataria. È anch’essa un omaggio all’individuo ed è l’inno alla meccanica, alla capacità di ruote e rondelle di cambi e bielle di moltiplicare la spinta umana, di rendere miracolosamente redditizio lo sforzo umano che già lo è di per sé (anche l’uomo del risciò o del cyclo lo sa). È una soluzione funzionale perché ha la velocità giusta per una città, riesce a districarsi in mezzo ad altre mille bici, non ha un problema di occupazione di spazio, non prevede l’eliminazione dell’uomo che cammina né l’invenzione del pedone. Era un’idea geniale, ma qualcuno ha trovato immediatamente il modo di metterla dentro una riserva per handicappati: piste ciclabili si chiamano. La bicicletta è il modo inventato per dare il massimo della libertà a tutti e il massimo della democrazia a una città. Non richiede che le strade divengano piste né che i centri storici vengano condannati perché ostili alla circolazione. Oggi l’effetto più controproducente del monopolio automobilistico è l’aver negato la credibilità della convivenza di automobili e urbanità. Nemmeno le grandi riforme urbanistiche dell’Ottocento con i grandi boulevard e la città disegnata per assi di percorrenza «tengono più». L’auto postula la fine della città, non ne ha bisogno, se ne serve solo come tappa per parcheggiarvi per un po’, ma della qualità dei suoi spazi e soprattutto della fruibilità di strade e piazze non se ne fa nulla. Per l’auto l’unica vera città è un autogrill, l’idea che la città è da fruire come piazzola di sosta o come luogo di passaggio. L’ipotesi, praticata da tutto il movimento Moderno per l’Architettura con in testa Le Corbusier, è che la città sia destinata a finire per dare luogo a degli «snodi», a dei nuclei molto concentrati di servizio agli spostamenti in auto.

Questa ipotesi è talmente poco credibile però che l’unico risultato ottenuto dell’auto è stato non già di eliminare il centro, ma di allontanarlo ingigantendo le periferie. L’auto ha allontanato la città come possibilità di godimento, è stata la causa e non la soluzione della crescita urbana, ha dilaniato e slabbrato una forma che è diventata una massa senza intelligenza né criterio. Nella carrellata del pensiero attuale della classe degli architetti è grottesco quanta poca comprensione ci sia dell’impossibile convivenza tra auto e città. Le soluzioni funzionali, le sopraelevate, i parcheggi sotterranei, i raccordi e le tangenziali, i tunnel e via dicendo servono solo ad aumentare il traffico. Una strada aperta al traffico è una strada destinata a riempirsi.

Architetti, urbanisti e amministratori continuano a giostrarsi nella mediocrità di soluzioni e proposte a breve e brevissimo termine. I primi potrebbero avere la capacità immaginativa per capire che siamo alla fine e che nessuno s’illude più, ma non hanno il coraggio di essere radicali e intelligenti. Preferiscono essere i «designer» della città, quelli che ne aggiustano i ritocchi e il colorino, mentre la qualità urbana va a catafascio. La rinascita delle città passa per lo sgombero delle strade dalle auto che se le sono prese senza pagare a nessuno questo diritto. Nessuno ha mai deciso che le strade dovessero appartenere all’auto e non ai cittadini. È tale il costo in termini di degrado urbano e igienico, sanitario e ambientale che le tasse di circolazione sono una cifra ridicola rispetto allo spreco e alla devastazione che alimentano.

Tutto ciò lo sappiamo bene, anche se Illich ci mette alle corde. Allora perché questo sistema vince ancora, perché la gente continua a illudersi dell’utilità dell’automobile? Perché tra velocità – apparente, solo promessa – ed equità sceglie ancora la prima? Si crede ancora che l’auto e il sistema a essa connesso, il sistema dell’accelerazione apparente (ne fanno parte i treni veloci che hanno come effetto controproduttivo di rallentare tutti gli altri treni) sia una soluzione alle «urgenze». Se uno deve andare in ospedale? E i vecchi che non hanno le gambe per camminare? E i bambini? Bisogna dire che se ci sono categorie punite dal sistema sono proprio queste tre. Un’ambulanza diventa molto spesso un feretro vista la vischiosità e l’impenetrabilità del traffico urbano. E quanto a vecchi e bambini le città sono diventate paurosamente prive di queste due classi, nuove riserve sono state inventate per rinchiuderli dove non diano fastidio, si chiamino scuole, ospizi, giardinetti o centri per «attività ludiche». Una città dove non si può giocare per strada, dove gli anziani non possano stare seduti o appoggiati a osservare la vita che gli passa accanto e che li coinvolge, una città che ha eliminato la plurifunzionalità degli spazi pubblici è un parcheggio.

Eppure la gente ci crede ancora e mai come oggi le auto sono state oggetto di desiderio. Certo, in un regime di scarsità si desiderano le cose, le poche cose che restano. E siccome alla TV si vedono ormai solo pubblicità di auto (per i costi altissimi degli spot), esse sono diventate l’unico orizzonte offerto. Il nostro immaginario è talmente colonizzato che l’utopia mortale che ci stringe ci sembra l’unica realtà possibile. La vigliaccheria degli intellettuali, degli ambientalisti e degli architetti – perché nessuno come loro potrebbe sapere meglio raccontare che di qui non si esce se non con un salto radicale – fa il resto.

Eppure è così poco di moda immaginare una città più umana e democratica, così impopolare chiedere che l’auto venga relegata a quelle invenzioni che hanno fatto il loro tempo e che ormai sono solo bla-bla. La gente ha creduto per secoli che i corsetti fossero indispensabili, che mangiare frutta facesse male, che lavarsi allontanasse i buoni umori e che il miglior modo per educare i figli fosse prenderli a sberle: poi ha smesso.

Illich ci ha sempre provocato con capovolgimenti impopolari, ci ha ricordato cosa avevamo perso per un piatto di lenticchie e ci ha messo in guardia contro i pericoli di sistemi che si propongono come soluzione di tutto e finiscono per mettere la nostra vita in prigione. Per questo, il suo pensiero è impopolare anche oggi, anche oggi è troppo poco ripreso nella sua critica radicale a scuola, medicina, mondo del lavoro, neutralizzazione delle differenze culturali come base delle differenze di sesso.

Che questo libretto sia utile a chi voglia riassaporare il gusto di andare controcorrente. Forse è possibile, forse, come le bici ad Hanoi, richiede solo una grande capacità di sgusciare tra la cretinaggine delle auto e il flusso generale che solo apparentemente può bloccarci.