Superata una certa soglia di consumo d’energia, l’industria del trasporto detta la configurazione dello spazio sociale. Le autostrade si espandono, ficcando cunei tra i vicini e spostando i campi oltre la distanza che un contadino può percorrere a piedi. Le ambulanze spingono le cliniche al di là dei pochi chilometri in cui è possibile portare in braccio un bambino malato. Il medico non viene più a casa perché i veicoli hanno fatto dell’ospedale il posto più giusto per stare malati. Basta che dei camion pesanti si arrampichino fino a un villaggio delle Ande perché sparisca una parte del mercato locale. Poi, quando nella plaza arriva la scuola media insieme con la strada asfaltata, sono sempre più numerosi i giovani che si trasferiscono in città, finché non rimane più una sola famiglia che non sogni di ricongiungersi con qualcuno, laggiù, a centinaia di chilometri, lungo la costa.
A velocità uguali corrispondono effetti ugualmente distorsivi sulla percezione dello spazio, del tempo e delle potenzialità personali, nei paesi ricchi come in quelli poveri, per differenti che possano essere le apparenze superficiali. Dappertutto l’industria del trasporto foggia un nuovo tipo d’uomo adatto alla nuova geografia e ai nuovi tempi che essa fabbrica. La differenza tra il Guatemala e il Kansas è che nell’America centrale alcune province non hanno ancora preso contatto con i veicoli e perciò non sono ancora degradate dall’asservimento a essi.
Il prodotto dell’industria del trasporto è il passeggero abituale. Costui è stato catapultato fuori del mondo in cui la gente continua a muoversi da sé, e ha perso la sensazione di stare al centro del proprio mondo. Il passeggero abituale è conscio dell’esasperante mancanza di tempo provocata dal quotidiano ricorso all’auto, al treno, all’autobus, alla metropolitana e all’ascensore, che lo costringono a percorrere in media trenta e più chilometri al giorno, spesso intersecando il proprio cammino, entro un raggio di otto chilometri. È stato sollevato per aria. Sia che vada in metropolitana o in jet, si sente sempre più lento e più povero di qualcun altro e pensa con rabbia ai pochi privilegiati che possono prendere delle scorciatoie riuscendo così a non subire la frustrazioni del traffico. Se è bloccato dagli orari del suo treno per pendolari, sogna un’automobile. Se è in automobile, sfinito dall’ora di punta, invidia il capitalista di velocità che corre contromano. Se deve pagarsi l’auto di tasca propria, non riesce a dimenticare che i comandanti delle flotte aziendali girano alla ditta le fatture della benzina e mettono sul conto spese le macchine prese a nolo. Il passeggero abituale è il più esasperato di tutti dalla crescente ineguaglianza, dalla penuria di tempo e dall’impotenza personale, ma non vede altra via d’uscita da questo pasticcio che non sia chiedere una dose maggiore della medesima droga: cioè più traffico con mezzi di trasporto. Aspetta la sua salvezza da innovazioni tecniche nella concezione dei veicoli e delle strade e da una diversa regolamentazione degli orari; oppure spera in una rivoluzione che crei un sistema di trasporto veloce di massa gestito dalla collettività. Né in un caso né nell’altro calcola quanto costi farsi portare in un futuro migliore. Dimentica che sarà sempre lui a pagare il conto, sotto forma di tasse o di tariffe. Trascura i costi occulti che comporta la sostituzione delle auto private con trasporti pubblici egualmente rapidi.
Il passeggero abituale non riesce ad afferrare la follia di un traffico basato in misura preponderante sul trasporto. Le sue percezioni ereditarie dello spazio, del tempo e del ritmo personale sono state deformate dall’industria. Ha perso la capacità di concepire se stesso in un ruolo che non sia quello del passeggero. Drogato dal trasporto, non ha più coscienza dei poteri fisici, psichici e sociali che i piedi di un uomo posseggono. È arrivato a prendere per un territorio quel paesaggio sfuggente attraverso il quale viene precipitato. Non è più capace di crearsi un proprio dominio, di dargli la propria impronta e di affermarvi la propria sovranità. Non ha più fiducia nel suo potere di ammettere altri alla propria presenza e di dividere consapevolmente con loro lo spazio. Non sa più affrontare da solo le distanze. Lasciato a se stesso, si sente immobile.
Per sentirsi sicuro in uno strano mondo in cui tanto le liaison quanto la solitudine sono prodotti dei mezzi di trasporto, il passeggero abituale deve adottare una nuova serie di credenze e di aspettative. «Incontrarsi» significa per lui essere collegati dai veicoli. Giunge a credere che il potere politico discenda dalla portata di un sistema di trasporto o, in sua assenza, sia il risultato dell’accesso allo schermo televisivo. Ritiene che la libertà di movimento consista in un diritto alla propulsione. Crede che il livello della democrazia sia in correlazione con la potenza dei sistemi di trasporto e di comunicazione. Non ha più fede nel potere politico delle gambe e della lingua. Di conseguenza non vuol essere maggiormente libero come cittadino, ma essere meglio servito come cliente. Non tiene alla propria libertà di muoversi e di parlare alla gente, ma al suo diritto di essere caricato e di essere informato dai media. Vuole un prodotto migliore, non vuole liberarsi dall’asservimento ai prodotti. È dunque indispensabile ch’egli riesca a comprendere che l’accelerazione da lui ambita è frustrante e non può che portare a un ulteriore declino dell’equità, del tempo libero e dell’autonomia.