La soglia sfuggente

Paradossalmente, l’idea di una velocità massima dei trasporti ottimale per il traffico sembra bizzarra o fanatica al passeggero incallito, mentre al mulattiere appare qualcosa di simile al volo d’un uccello. Una velocità quattro o sei volte superiore a quella di un uomo a piedi è una soglia troppo bassa perché il passeggero abituale possa ritenerla degna di considerazione, e troppo alta per trasmettere il senso di un limite a quei tre quarti dell’umanità che si spostano ancora con forza propria.

Tutti coloro che progettano, finanziano o organizzano l’alloggio, il trasporto o l’istruzione altrui, appartengono alla classe dei passeggeri. La capacità ch’essi rivendicano discende dal valore che i loro committenti attribuiscono all’accelerazione. I sociologi sono capaci di spiegare in termini di informatica gli ingorghi del traffico di Calcutta e di Santiago, e gli ingegneri sono in grado di progettare ragnatele di monorotaie ispirate ad astratte nozioni di flusso del traffico. Questi programmatori credono veramente nella possibilità di risolvere i problemi con criteri industriali, sicché la soluzione reale della congestione del traffico resta fuori della loro capacità di comprensione. La fede nell’efficacia della potenza impedisce loro di scorgere l’efficacia straordinariamente maggiore che si può ottenere astenendosi dall’usarla. Gli ingegneri del traffico debbono ancora mettere d’accordo in un unico modello simulato la mobilità della gente con quella dei veicoli.

L’ingegnere del trasporto non è in grado neanche di concepire la rinuncia alla velocità e un rallentamento inteso a permettere un flusso di traffico ottimale quanto al rapporto tempo/destinazione. Mai penserebbe di programmare il suo computer ponendo come postulato che in città un veicolo a motore non debba mai superare la velocità d’una bicicletta. L’esperto in sviluppo che dall’alto della sua Land-Rover guarda con compassione il contadino indio che porta al mercato il suo branco di maiali, non è disposto a riconoscere i vantaggi relativi dell’andare a piedi. Tende a ignorare, l’esperto, che quell’uomo ha evitato ad altri dieci abitanti del villaggio di perdere tempo per la strada, mentre l’ingegnere e tutti gli altri membri della sua famiglia, l’uno separatamente dall’altro, dedicano al trasporto una parte rilevante d’ogni loro giornata. Per chi è portato a concepire la mobilità umana in termini di progresso indefinito, non può esistere un tasso di traffico ottimale, ma solo un transitorio consenso su una determinata possibilità tecnica del trasporto.

La maggior parte dei messicani, per non parlare degli indiani e dei cinesi, si trova in una situazione opposta a quella del passeggero incallito. La soglia critica di velocità si situa completamente al di là di ciò che conoscono o si aspettano. Essi appartengono ancora alla categoria degli uomini che si spostano con forza propria. Qualcuno conserva il duraturo ricordo di un’avventura motorizzata, ma i più non sanno cosa sia viaggiare a una velocità vicina o addirittura superiore a quella critica. In due Stati messicani tipici, il Guerrero e il Chiapas, nel 1970 neppure l’uno per cento della popolazione ha percorso, anche una sola volta, più di sedici chilometri in meno di un’ora. I veicoli nei quali si stipano a volte gli abitanti di queste regioni rendono lo spostamento senza dubbio più conveniente, ma non molto più rapido che se si andasse in bicicletta. L’autobus di terza classe non separa il contadino dal suo maiale e li porta entrambi al mercato senza fargli perdere peso, ma questa esperienza di «comfort» motorizzato non dà come risultato una dipendenza da velocità distruttive.

L’ordine di grandezza in cui si colloca la soglia critica di velocità è troppo basso per essere preso sul serio dal passeggero e troppo alto per interessare il contadino. È perciò ovvio che non si riesca a vederlo facilmente. La proposta di fissare un limite alla velocità entro quest’ordine di grandezza si scontra con una caparbia opposizione: da un lato infatti porta allo scoperto l’intossicazione degli uomini industrializzati, schiavi di dosi d’energia sempre più forti, dall’altro chiede a chi è ancora sobrio di astenersi da qualcosa che non ha mai neanche assaggiato.

Proporre una controricerca non è solo uno scandalo, ma anche una minaccia. La semplicità mette in pericolo lo specialista, che si ritiene sia il solo a capire perché il treno dei pendolari parta proprio alle 8,15 e alle 8,41 e perché convenga usare una benzina provvista di certi additivi. Che attraverso un processo politico si possa trovare una dimensione naturale, ineludibile e che segni un limite, è un’idea che non rientra nel mondo delle verità del passeggero. In lui il rispetto per specialisti che neanche conosce si è tramutato in cieca sottomissione. Se si potesse trovare una soluzione politica per i problemi creati dagli esperti nel campo del traffico, allora si potrebbe forse applicare lo stesso metodo ai problemi dell’istruzione, della medicina, dell’assetto del territorio. Se dei profani attivamente impegnati in un processo politico potessero determinare l’ordine di grandezza delle velocità veicolari ottimali per il traffico, sarebbero allora scosse le fondamenta sulle quali poggia la struttura di ogni società industriale. Proporre questa ricerca è politicamente sovversivo; mette in discussione quel sovrano consenso sulla necessità d’uno sviluppo del trasporto che permette ora ai campioni della proprietà pubblica di definirsi avversari politici dei sostenitori dell’impresa privata.