L’autore […] spera che i lettori vorranno usargli venia, se dalla concezione ch’egli ebbe del mondo e della vita troppa amarezza e scarsa gioja avranno e vedranno in questi tanti piccoli specchi che la riflettono intera.
Luigi Pirandello, Avvertenza
alle Novelle per un anno
Se le novelle di Pirandello troveranno ancora fortuna presso i lettori, e se, come mi auguro, qualche fortuna avrà anche questa loro edizione, sarà per l’esperienza di lettura incredibilmente ricca che esse procurano, per l’affollato mondo che schiudono, per il fitto ordito dei motivi che accolgono e per le innumerevoli sfumature di cui lo colorano.
Leggere un romanzo o un racconto è sempre un’avventura complessa, perché una storia, per singola ed eventualmente singolare che sia, ha bisogno, per svolgersi narrativamente, di evocare o istituire un mondo, sia che sontuosamente lo dipinga, sia che si limiti a tracciare i soli tratti bastanti a costituirne un simulacro. Non paia un’iperbole né un paradosso. Modifica, in modo analogo a quel che avviene quando si usa un obiettivo fotografico variabile, il nitore dell’immagine e la delimitazione della porzione di mondo inquadrata; varia, precisamente come accade in quel modo assolutamente nuovo del raccontare che è stato nel ventesimo secolo il cinema, la scelta dell’orizzonte narrativo, che può allargarsi ad affollato affresco collettivo, a storia di una comunità, e restringersi a vicenda privata di pochissimi o di uno solo. Ma, quale che sia la scelta, la parte o il ritaglio suggeriscono e adombrano, per via di inferenza, il tutto.
Percorrere per larga parte o per intero un corpus novellistico consistente significa compiere un’esperienza ancora diversa; e l’impressione, che non si può non riportarne, è tutt’altra. Un romanzo e un racconto sono un mondo che, per quanto esteso nel tempo e nello spazio, per quanto popoloso, si manifesta concentrato e ristretto intorno alla trama di una vicenda che ne costituisce l’asse; un corpo novellistico è una rete di numerosissime vicende separate e contigue che col loro insieme compongono una imago mundi particolarmente folta e densa, nella quale ognuna delle storie va a iscriversi. Gradirei che questo asserto non apparisse gravato dei pondi che fatalmente porterebbe se lo si pensasse legato alle teorie dei «mondi possibili» elaborate dalla logica modale; mi piacerebbe che venisse inteso nel modo più trasparente e ingenuo e che valesse come figura, facile da interpretare, di quanto un universo narrativo crea. Un racconto non esige, in media, uno sforzo di riflessione ingente, e tuttavia, per parziale e ristretta che possa essere la vicenda raccontata, suggerisce (non vedo verbo semanticamente più pertinente in forza della sua stessa etimologia) l’immagine intera e compiuta di un mondo: la sua leggibilità e comprensibilità sono direttamente proporzionali alla nitidezza di quest’immagine. Il che equivale a dire che la scoperta della luna da parte di un Ciàula non avrebbe senso, o sarebbe una storia idiota, se non avvenisse dentro un mondo, quello arcaico delle zolfare, gerarchizzato e chiuso, a suo modo perfetto, nel quale esistono i soprastanti collerici, i giovani picconieri ribelli, i vecchi tenuti al lavoro per carità (perché nello scoppio di una mina hanno perduto un occhio e un figlio), e i carusi più che trentenni, mezzi scemi, che hanno imparato a non aver più paura del buio della miniera e sono invece terrorizzati da quello della notte, e che perciò, affiorando da sottoterra, possono scoprire la luna come se non l’avessero vista mai e sentirsene consolati fino a piangere. Solo nel cerchio di quell’orizzonte antropologico e assiologico, in quello spicchio di realtà che è nella circostanza tutto il mondo, la storia di Ciàula ha un senso.
Il mondo di ciascun racconto, considerato isolatamente, è tutto il mondo; ma, a maggior ragione, il mondo che tutti i racconti, considerati come insieme plurale, come galassia di storie, valgono a costituire, è tutto il mondo. Il fatto non è privo di conseguenze per quella specifica esperienza che è la lettura del corpus novellistico pirandelliano. Quest’ultimo ha infatti, come analoghe fabbriche testuali, la proprietà di far risparmiare in gran parte al lettore la necessità di ricostruire e completare per inferenza ciò che, in ciascuno dei singoli racconti, resta implicito o taciuto, per l’ottima ragione che quanto resta implicito e congetturale in un racconto è verbalizzato ed esplicito in uno o più altri. E, nell’ambito di un corpus monoautorale, e dunque almeno da questo punto di vista omogeneo, ciò vale ugualmente per gli oggetti, i luoghi, i personaggi e gli eventi che vi hanno luogo. Le scene e la vicenda realizzate in un racconto evocano come virtualità, nella penombra dello sfondo e nel silenzio fitto d’echi della memoria di lettura, le vicende e le scene di altri racconti, per contiguità o distanza, per similarità o differenza. Ciascun racconto è in questo senso l’attualizzazione di una storia entro l’orizzonte delle storie altre e possibili che l’insieme circoscrive e delimita. Un corpus di novelle contiene, inseriti nella sua totalità, sia il proprio vocabolario che una propria grammatica narrativa e una propria retorica del narrare, sulla base delle quali ogni singola novella ordina sintatticamente la propria macroproposizione narrativa e costruisce il proprio specifico corso discorsivo. In questo non c’è, a priori, niente di meccanico e di prevedibile, nulla di preordinato e di rigido. Soltanto a posteriori, in ragione di certe ricorrenze e iteratività significative (di segni, di motivi, di sequenze, di figure), diventa possibile ricostruire una mappa di tracciati privilegiati e qualche tabella di frequenze troppo alte per essere casuali o neutre.
La lettura seriale, componendo progressivamente le specificità dei singoli testi in una globalità crescente, configura con particolare naturalezza uno spazio sovratestuale e intertestuale, un vero e proprio intertesto come luogo delle relazioni fra un testo e un altro, punto d’incontro fra un testo letto prima e uno letto successivamente, luogo fluido che non corrisponde né all’uno né all’altro e che però potrebbe persino generare, virtualmente, un testo differente e dal primo e dal secondo. Leggere un corpo novellistico è questo; perciò la differenza tra la lettura di una novella e quella di una serie di novelle non è quantitativa ma qualitativa.
In fondo al percorso di lettura, e in sede di riconsiderazione critica e interpretativa, non si apre la possibilità astratta di ricondurre la pluralità a unità, ma quella di detenere una visione plurale e relazionale. Si potrebbe osservare che una tale esperienza non è poi molto diversa da quella che compie chi ha la pazienza o la necessità di leggere per intero l’opera di un autore o quelle di più autori. Ed è vero, in generale. La peculiarità cui ho accennato consiste, da un lato, proprio nella monoautoralità e, dall’altro, nell’unità forte di genere.
La lettura è ascolto attento e rispettoso del testo, è per un verso una disposizione mentale remissiva e ricettiva; ma è anche attività di comprensione, dunque interpretazione, condensazione e memorizzazione. La lettura è, insomma, attività eminentemente metabolica che, una volta ultimata, mette il lettore nella condizione d’avere ancora davanti a sé, e fuori di sé, il testo, e d’avere nel contempo dentro di sé, come prodotto della complicata biochimica dell’atto, una memoria testuale che, più o meno fedele, non è comunque più il testo letto, sibbene una sua elaborazione. Come ogni memoria non artificiale e non artificialmente ottenuta, anche quella di lettura è selettiva e plastica.
Se ne renderà conto rapidamente chiunque vorrà intraprendere il viaggio attraverso l’universo novellistico pirandelliano. Constaterà che, nel passare di racconto in racconto, la memoria faticherà ben presto a tenere a mente personaggi, eventi e sequenze; stenterà moltissimo a rammentare il decorso di una narrazione letta per prima o per seconda, dopo averne lette venti o trenta; spesso non riuscirà a tenere distinti e ad allogare con precisione motivi e movimenti narrativi molto simili e ricorrenti. Proverà certo anche l’irritazione – peraltro stimolante – che chi scrive ha molte volte provata (pur essendo, chi scrive, uno che, in fede, ha iterato più volte e lungo tragitti diversi l’attraversamento della narrativa breve di Pirandello), quando, dinanzi all’agnizione certa di una somiglianza e persino di una identità, dovrà pazientemente andare a ritroso, e a tentoni, alla ricerca del simile o dell’identico, per trovarlo, infine, là dove meno avrebbe previsto di trovarlo. Soprattutto scoprirà, il lettore, che, proprio in ragione delle tante remote e labili parentele tematiche, i personaggi tendono quasi a evadere dai contorni della propria storia per invadere altre storie, e le singole storie tendono a scomporsi per rifondersi in un mondo di storie possibili che le contiene tutte. E si accorgerà che, a rileggere una novella già letta e quasi del tutto obliterata dalle tante lette successivamente, si ha l’impressione di riscoprirla nell’atto di rilevarne ex novo, e con stupore, tratti che la apparentano a parecchie altre e che non s’erano scorti alla prima lettura. Infine, ed è forse il dato più sorprendente, quante più volte si percorre il corpus delle novelle, tanto meno esso si fissa nella memoria come una serie di storie singole e autonome e tanto più vi si accampa come un tutto composito, multiforme, intricato, addirittura caotico, ma organico: una affollata allegoria del mondo e della simultaneità delle storie innumeri e diversamente simili che vi hanno luogo.
È dunque anche grazie alla debolezza e ai limiti della nostra memoria, incapace di conservare allineati ordinatamente e rigorosamente divisi cento o duecento testi, che la lettura di un universo novellistico (simile, per questo aspetto, alla lettura dei maggiori canzonieri poetici e di certe grandi raccolte di liriche) diventa un’esperienza più cospicua e fruttuosa di quanto l’umiltà della forma novella non prometta. Ed è a questa non comune esperienza che vale in primo luogo la pena di invitare i lettori. Ma, poiché è il novellatore Pirandello che viene riproposto, bisognerà affrettarsi a dire che non solo alle felici colpe della memoria di lettura si deve l’eccezionalità dell’esperienza; il più si deve all’autore e alla sua scelta o necessità di scrittura, e qualcosa, forse, anche ai pratici bisogni che non sempre il mestiere di scrittore gli consentiva di soddisfare.
Viene quasi spontaneo evocare l’immagine di un museo narrativo e quella delle molte sale che la novellistica riempie. L’immagine va precisata o, per meglio dire, la metafora va filata e continuata. Pirandello è dal principio alla fine un pittore di storie: il museo viene costituendosi da sé, pian piano, intorno al suo studio, e invade via via un numero sempre maggiore di stanze. A contenerlo, serve rapidamente un vasto palazzo che Pirandello non ha mai posseduto e che è dunque anch’esso una metafora. Il catalogo, sempre crescente, è folto e vario: allinea affreschi romanzeschi, ampie tele (romanzi brevi o lunghi racconti) e quadretti.
Molti dei moderni pittori di storie (Poe, Balzac, Čechov, Maupassant, Pirandello) hanno perlopiù lavorato senza avere in mente un progetto definito, senza un ordine preciso e senza badare alle relazioni che, più o meno vicini, i dipinti avrebbero finito per intrattenere fra loro. Solo dopo, quando le tele si sono accumulate e l’autore ha potuto allinearsene davanti un certo numero, gli si è affacciato pian piano il problema, volendo continuare a dipingere, di stabilire raffronti, di completare disegni restati a mezzo, di provare a variare la tavolozza, di cercare nuove tonalità o nuovi impasti. L’artista accosta due quadri già fatti, li confronta, ne intravvede un terzo possibile. Allora il pittore diventa anche il conservatore e l’ordinatore del proprio museo in fieri: toglie di volta in volta un certo numero di tele dall’allineamento casuale dettato dal tempo di composizione, alcune le ritocca o le rifà, e le dispone a suo piacimento in una stanzetta o in una sala loro riservata. Pirandello prese a farlo piuttosto presto, e nacquero le prime raccolte, durevoli o meno, soggette a un titolo comune. Così fu nel 1894 per il trittico di Amori senza amore, collocato da Pirandello in una cameretta che egli stesso, poi, avrebbe provveduto tacitamente a chiudere al pubblico. Così avvenne per le Beffe della morte e della vita, accorpate nel 1902-3 in due brevi serie e più tardi smembrate e ridistribuite. E così avvenne, nel 1902, per Quand’ero matto…, una raccolta a soggetto che ebbe sorte affatto differente. I quattordici quadri novellistici che comprendeva, infatti, vennero ridotti a otto nel 1919 e peraltro arricchiti di due titoli di altra provenienza e però ugualmente antichi; sette anni più tardi, vennero ulteriormente amplificati con due altri apporti, anche stavolta coevi, che andarono a costituire il nucleo della sala definitiva, reintitolata Il vecchio Dio e contenente, nell’insieme, le tele novellistiche più vecchie. La novella che ha dato il titolo alla raccolta nelle due prime occasioni e quella che lo presta alla raccolta definitiva sono sempre state proposte insieme e hanno infine solo cambiato di posto. L’evento non è tuttavia del tutto banale, poiché se il titolo della raccolta, coincidente con quello della prima novella, vuole fornire almeno una prima chiave di lettura della sala a soggetto, è innegabile che la chiave offerta nel 1926 sia tutt’altra. Nella numerazione progressiva delle «novelle per un anno», Il vecchio Dio occupa la decima sala, aperta nel 1926, ma ospita per intero lavori realizzati entro il 1903.
Queste sostituzioni di cartigli, questi traslochi di tele, queste discrepanze, più o meno occultate e occultabili, fra date di riordino e date di esecuzione – tutte occorrenze di tipo appunto assai più museale che non musaico – contribuiscono a dare un’idea di quanto tortuoso e ingannevole possa diventare il percorso di lettura di un corpo novellistico strutturato e di quanto quest’ultimo possa pretendere di discostarsi dalla pura e semplice pluralità dei testi che lo compongono. E questa entropia del corpus solleva intanto un interrogativo: quale è il percorso di lettura da rispettare? Quello imposto dalla sua configurazione museale ordinata o altri, suggeriti dal disordine originario oppure dal soggiacente ordine cronologico o ancora da energie magnetiche forti, quali le ridondanze figurali e tematiche e le isotopie narrative ricorrenti? Questa domanda, destinata a non avere una risposta univoca, ha trattenuto anche i più esimi mistagoghi (da Alvaro a Macchia), che mi hanno preceduto nel compito di introdurre al mondo novellistico pirandelliano, dal compromettersi: il vociferante e brulicante mistero del corpus non può essere spiegato preliminarmente né d’altronde imbracato alla fine nella rete di una solida postfazione, se non con atti luciferini di presunzione.
Si può, volendo, tentare il gioco critico brillante in cui s’è provato una quindicina d’anni fa Pietro Gibellini, ma l’esito è nel contempo un magnificato trionfo dell’ultima sistemazione museale avviata da Pirandello e una forzatura gratuita della volontà stessa, intimamente contraddittoria, dell’autore: se è lecito dubitare della pregnanza dei nomi-chiave che Pirandello ha apposto alle quattordici sale che è giunto a riordinare (la quindicesima, non autorizzata, è frutto del lavoro di sovrintendenti) – e dubitarne è più che legittimo dal momento che le sale sono quelle della fabbrica editoriale che gli venne offerta in sostituzione di quella che, a prestargli fede, avrebbe voluta –, ancor più aleatorie e dubitevoli sono le chiavi critiche che Gibellini ha puntualmente appese all’entrata di ognuna con la formula retorica della doppia titolatura articolata in interpretando e interpretante: «Scialle nero» o la madre-sorella, «La mosca» o delle nozze funebri, «Una giornata» o del tempo perduto ecc. Tanto più che a tutte quelle sale, e all’intero museo, presiede non la divisa della composizione, e pluribus unum, ma lo stemma inquartato della contraddizione.
Ciò premesso, conviene muovere dal principio e procedere con ordine.
Sul talento di Pirandello per la scrittura in versi è legittimo nutrire, senza che paia irriverente, fondate perplessità. E tuttavia egli cominciò come poeta, dichiarò e ribadì la propria intenzione e la propria volontà di essere esclusivamente poeta almeno fino al 1890 e si pose i trent’anni, dunque il 1897, come termine entro il quale ottenere come poeta un esito artistico che lo soddisfacesse. Non risulta che abbia mai detto né ritenuto d’averlo raggiunto; il che non lo trattenne dallo scrivere saltuariamente versi fin dopo i quarant’anni. Su tutt’altro versante, la documentazione di cui Alessandro D’Amico è venuto corredando la sua edizione del teatro pirandelliano retrospinge verso date molto più alte l’interesse di Pirandello per la scrittura drammaturgica e incrementa cospicuamente il catalogo dei lavori teatrali, ancorché perduti o distrutti oppure pensati e mai scritti. Agli anni ’80 e ’90 sarebbe da allogare la bellezza di diciotto titoli teatrali, concorrenti diretti, dunque, dell’ambizione lirica, dei quali peraltro soltanto quattro sono sopravvissuti. Infine, entro il termine del secolo, Pirandello aveva scritto anche una trentina di novelle e due romanzi: L’esclusa e Il turno, alle edizioni definitive dei quali l’autore volle apposte le date rispettive del 1893 e del 1895. Questo sommario-promemoria degli esordi è sufficiente a far dire che sarebbe velleitaria la pretesa di fissare vere e sicure priorità e aleatorio fondare su di esse un tentativo di scansione e periodizzazione.1 Questi passi d’apertura prefigurano invece abbastanza fedelmente quella che in fondo sarà tutta quanta la carriera creativa pirandelliana, nel corso della quale nessuna partitura scrittoria sarà mai considerata davvero chiusa e messa definitivamente da parte.
Men che mai quella novellistica. Il fatto di doversi basare quasi sempre sulle date di stampa piuttosto che su quelle di composizione induce forse qualche approssimazione nel diagramma, ma non lo stravolge. La curva d’intensità della produzione novellistica risulta abbastanza chiara. Vi si distinguono due successive parabole: la prima che va dal 1894 al 1907 e ha i suoi picchi di massima nel 1902 e nel 1905; la seconda che va dal 1909 al 1920 e mostra un profilo massimo, assai alto, nel quinquennio 1910-14. Nel non ricco decennio 1921-1930, un vero e proprio cavo d’onda caratterizza i sei anni dal 1925 in poi, mentre gli ultimi sei anni di vita dello scrittore segnano una ripresa dell’attività novellistica. Dall’andamento di questa curva, che sull’asse delle ascisse copre più di quarant’anni, non si possono trarre conclusioni straordinarie, ma due dati concreti e significativi sì. L’uno è un dato per così dire di banale fisiologia della creatività, per cui, trascurando altre variabili biografiche, la produttività novellistica è nel tempo inversamente proporzionale all’impegno che Pirandello dedica ad altre attività creative. Nel 1908, ad esempio, anno della stampa in volume de L’esclusa e dei due volumi saggistici Arte e scienza e L’umorismo, vede la luce una sola novella, Il guardaroba dell’eloquenza; al contrario, nel 1912, anno di semplice ristampa de L’esclusa, di pubblicazione della raccolta poetica Fuori di chiave – che contiene liriche scritte entro il 1910 – e di stampa della raccolta novellistica Terzetti, che contiene una sola novella inedita, Pirandello manda a stampa 16 novelle nuove. L’altro è viceversa un elemento che risulta dall’osservazione in trasparenza, dunque combinata, della produzione novellistica e del resto dell’attività scrittoria pirandelliana. Ed è già un dato da interpretare. Esso suggerisce, a ogni modo, assai più l’idea di una simultanea ed elastica sperimentazione di più forme e registri di scrittura che non quella, rigida, di un prima poetico e di un poi narrativo o di un prima novellistico e di un poi teatrale. Resterà vero che il primo impegnativo affondo di Pirandello nella prosa narrativa è la stesura del romanzo L’esclusa e che il racconto-romanzo Il turno nasce insieme alla decina di novelle del 1894-95. Ma è ugualmente vero che su «L’O di Giotto» del giugno 1892 Pirandello pubblica il suo primo atto unico, Perché?, e che tre racconti degli anni 1894-97, del tempo cioè del primo faticoso tirocinio, perverranno, in ordine cronologico inverso, al teatro. Alludo a L’amica delle mogli, a Il nido e a La paura. All’ultimo dei tre, anche qualora non corrisponda – come il ritrovamento dell’autografo de L’epilogo ha potuto far pensare – all’unico caso in cui una stesura teatrale precede quella narrativa,2 Pirandello ha guardato fin dal 1892 come al suo primo lavoro prossimo a diventar teatro,3 e si direbbe che solo il non essere andata l’impresa a buon fine l’abbia poi indotto a stampare La paura nel 1897 e nel 1898 l’atto unico L’epilogo, che nel 1910 diventerà l’«epilogo in un atto» La morsa e sarà finalmente rappresentato. Da Il nido, stampata nel novembre 1895, Pirandello volle subito provvedere a trarre «un dramma in quattro atti».4 Il dramma non scritto si chiamò poi Il nibbio e, nel romanzo del 1911, Suo marito, il medesimo (ancorché fittizio) dramma da fare, ricavabile da una omonima novella della protagonista Silvia Roncella, si intitola Se non così… (sebbene il maestro Maurizio Gueli avesse suggerito di intitolarlo Nibbio).5 Nel 1915, finalmente, Se non così… va in scena a Milano; nel 1917 viene stampato col titolo Se non così e nel 1919 torna sulla scena col definitivo titolo La ragione degli altri.
L’operazione più tardiva e più stanca riguardò infine L’amica delle mogli, il più vecchio dei tre racconti (1894), che Pirandello adattò per la scena nel 1926 per la propria compagnia del «Teatro d’Arte», e offrì in omaggio al protagonismo della giovane prima attrice Marta Abba. Resterà pur vero che il teatro cui Pirandello ha dovuto la propria fama è prepotentemente fiorito in una stagione avanzata e matura della sua carriera: vero e confermato così dall’anagrafe letteraria pirandelliana come dai tanti titoli vuoti che il catalogo delle opere drammatiche approntato da D’Amico deve ancor oggi allineare, come anche dall’unidirezionalità dei prestiti e dei travasi che legano la novellistica al teatro (una trentina di lavori teatrali, pari a due terzi della drammaturgia pirandelliana, è in varia misura, e senza alcuna contropartita, tributaria della narrativa). Questo dato significa peraltro che Pirandello è stato spinto dalle circostanze a trovare la misura e la cifra della propria scrittura narrativa assai prima di quando non gli sia stata offerta l’occasione concreta di provarsi nel teatro, e non sia stato da questa sollecitato a mettere finalmente a punto la propria lingua e la propria misura drammaturgica; e significa ciò molto più di quanto non significhi che un’intenzione teatrale e un interesse vivo per il teatro sono maturati in lui in un secondo momento.
I primi romanzi, e ancor più le novelle, non tanto dissodano un terreno e affinano un talento, non tanto insomma covano e incubano il teatro, quanto piuttosto costituiscono il teatro che Pirandello sa già fare, ossia quel teatro del mondo che, per diventare spettacolo compiuto agli occhi del lettore, richiede qualcuno che lo racconti. Il teatro che Pirandello imparerà a fare solo più tardi, con fatica, è quello che si racconta da solo, in cui nessuno parla tranne i personaggi e in cui i personaggi (gridino, commentino, dialoghino o si raccontino) agiscono e vivono quasi solo parlando. Le novelle di Pirandello (salvo casi singoli) non sono più teatrali di quelle di altri narratori suoi contemporanei né avanzano petizioni teatrali: sono racconti e funzionano come tali, ossia giocando fino in fondo la doppia partita della vicenda narrata e dell’ineliminabile atto di narrarla; né sarebbe difficile dimostrare come in più d’un caso l’adattamento necessario a transcodificarle in spartito drammaturgico, perentoriamente comportando la cassazione dell’atto narrativo, ha richiesto delle misure di compensazione che hanno gravemente compromesso l’amalgama o la tenuta di impianti narrativamente ineccepibili.
Così come è agevole constatare il migliore funzionamento dei lavori teatrali fin da principio concepiti come tali o legati alla narrativa solo da spunti o da dinamiche tematiche e non dalla necessità di convertire un’intera e organica macchina narrativa in macchina drammaturgica. Le lettere dello scrittore quasi esordiente procurate da Providenti attestano senza ombra di dubbio che Pirandello, innamorato del teatro,6 avrebbe voluto far teatro fin dai primi anni ’90, ma gli ci vollero più di vent’anni, nell’arco dei quali diventò perfettamente padrone della propria arte di narratore, per imparare a padroneggiare il passo solo apparentemente piccolo, e viceversa decisivo, che separa la narrativa dal teatro: per imparare a escludere senza provocare cortocircuiti il filo che porta e amplifica la voce narrante e per connettere invece e bilanciare linguisticamente i circuiti multipli dell’«azione parlata» teatrale. Diventato maestro d’arte nel raccontare il teatro del mondo, poté finalmente spendersi nella scommessa di lasciare che quel teatro si raccontasse da sé sulla scena. Narratore che s’era posto il problema del soggettivismo e dell’oggettivismo, autore tenuto in ansia dalla presenza inquietante di illustratori, attori e traduttori, quel passo gli era costato tanti dubbi e tanta fatica, che in seguito non rinunciò a giocarci intorno, quasi a esibire la nuova sicurezza derivatagli dall’averlo compiuto, e l’orgogliosa metateatralità dei Sei personaggi e di Enrico IV, di Ciascuno a suo modo e di Questa sera si recita a soggetto è là a renderne testimonianza.
Anche in un altro senso, tematico e dunque radicato profondamente, il teatro pirandelliano nasce insieme alla sua letteratura narrativa. E questa tematizzazione è notoriamente precocissima. Nel 1889, la seconda lirica della sezione Triste di Mal giocondo recitava:
Ecco la folla. – Chierici e beoni,
giovani e vecchi, femmine ed ostieri,
soldati, rivenduglioli, accattoni,
voi nati d’ozio e di lascivia, seri
uomini no, ma pance, lieti amanti,
bottegai, vetturini, gazzettieri,
voi vagheggini, anzi stoffe ambulanti,
donne vendute da l’inceder franco,
goffe nutrici, e voi dame eleganti,
quale strano spettacolo a lo stanco
di rimirar, non sazio, occhio offerite
così male accozzate in largo branco.
Oh vïaggio curioso de le vite
sciocche d’innumerabili mortali!
Oh per le vie de le città spedite,
che retata di drammi originali!…7
Non conviene gravare di troppe responsabilità questa visione del poeta ventiduenne né leggervi una dichiarazione d’intenti che sarebbe troppo nitida per essere presa alla lettera. Certo è, però, che una folla promiscua e caotica invade l’immaginazione dello scrivente, le si impone come spettacolo e le si offre come virtualità creativa. Non è detto ancora che quei «drammi» siano propriamente e senz’altro teatro, e tuttavia, fossero anche una semplice metafora d’uso, quest’ultima proverrebbe comunque, e non per caso, dal campo metaforico della teatralità.
E nel 1898, nella novelletta La scelta, il narratore racconta come il suo alter ego fanciullo, condotto per la festa dei morti alla fiera dei giocattoli, fosse irresistibilmente attratto dalla «baracca dove si vendevano le marionette», che erano la sua passione, e desiderasse portarsele via tutte, paladini di Francia e cavalieri Mori. Senonché, prezzo esoso a parte, l’aio Pinzone, che lo accompagnava, aveva cura di sconsigliargli ogni acquisto smascherando tutti quegli eroi: Orlando come pazzo furioso, Rinaldo come ladro, Astolfo come millantatore e Gano come traditore. Il narratore, che si rivela infine anche autore di romanzi e novelle, mestamente confessa a questo punto di frequentare ancora una fiera, «molto più grande», dove va a scegliere eroi ed eroine per i suoi racconti, e di portare in sé il fantasma frustrante di Pinzone che continua a metterlo sull’avviso contro l’«oro falso» e la «cartapesta indorata» della fiera del mondo e a sussurrargli: «Che virtù di resistenza vuoi che abbiano contro il tempo le creature dell’arte nate dai pensieri nostri dissociati, dalle azioni nostre impulsive e quasi senza legge, dai sentimenti nostri disgregati e nella discordia dei più opposti consigli; questi miseri, inani, affliggenti fantocci che può offrirti soltanto la fiera odierna?». Ambigua in bocca a un poeta, la metafora pare davvero afflosciarsi e trivializzarsi in bocca a un personaggio di romanziere e novellista. Si evocano le marionette, si parla di fantocci, ma qualcuno potrebbe obiettare, come obietterà nel 1921 il Capocomico dei Sei personaggi: «Ma tutto questo è racconto, signori miei!», e aggiungere all’obiezione l’insofferenza sprezzante che là vi aggiunge il personaggio del Figlio: «Ma sì, letteratura! letteratura!».
Più che giusto. Resta però la metaforizzazione del mondo come grande fiera e dei personaggi come marionette e come fantocci, ossia la loro tematizzazione come teatro. Ancora una volta: il narratore si mostra, metaforizzando, come il burattinaio che sceglie e fa muovere i suoi eroi; ma l’immagine conclusiva, che lascia intravedere i moti discordi che ne paralizzano la mano e riducono i suoi fantocci «miseri, inani, affliggenti», è pure l’immagine di un teatro di marionette dai fili recisi, di burattini «posati» (come spesso Pirandello più tardi dirà) che nessuna mano tiene più ritti, di uno spettacolo senza più burattinaio, dunque un’immagine che prefigura, non profeticamente ma tematicamente, il teatro. Il teatro pirandelliano del mondo, s’intende, quello in cui, assai prima di attingere le tavole di un palcoscenico o di venirvi buttati ed esposti, personaggi derelitti o solitari diventano burattinai di se stessi e da soli vestono e svestono maschere, recitano come automi una parte oppure ripudiano qualunque parte. Pirandello andrà anche oltre, in sede narrativa, quando illuminerà la ribalta di quel teatro minimo che è la scena soggettiva, quella in cui un unico soggetto, sdoppiandosi, recita come attore mentre una sua metà lo guarda da spettatore. In questo caso, non infrequente, la metà recitante non è né più vera né più fittizia di quella che guarda, dal momento che l’una potrebbe dire «io recito me stesso» e l’altra «io guardo me stesso» o che, in altre parole, è il soggetto a oggettivare se stesso. La formula che condensa questo evento altamente spettacolare – io mi guardo (spettatore) recitare (attore) me stesso (personaggio) – fornisce la più autistica e concentrata immagine del teatro; e su questo palcoscenico minimo precipita e si massimalizza ogni teatralizzazione della realtà.
Infine, nel 1904, in quella sede pregiata che è il maggiore fra i romanzi della prima stagione pirandelliana, uno spettacolo di marionette diventa una volta di più il pretesto per uno sbalzo metaforico e per una pervasiva allegoria:
– La tragedia d’Oreste in un teatrino di marionette! – venne ad annunziarmi il signor Anselmo Paleari. – Marionette automatiche, di nuova invenzione. Stasera, alle ore otto e mezzo, in via dei Prefetti, numero cinquantaquattro. Sarebbe da andarci, signor Meis.
– La tragedia d’Oreste?
– Già! D’après Sophocle, dice il manifestino. Sarà l’Elettra. Ora senta un po’ che bizzarria mi viene in mente! Se, nel momento culminante, proprio quando la marionetta che rappresenta Oreste è per vendicare la morte del padre sopra Egisto e la madre, si facesse uno strappo nel cielo di carta del teatrino, che avverrebbe? Dica lei.
– Non saprei, – risposi, stringendomi ne le spalle.
– Ma è facilissimo, signor Meis! Oreste rimarrebbe terribilmente sconcertato da quel buco nel cielo.
– E perché?
– Mi lasci dire. Oreste sentirebbe ancora gl’impulsi della vendetta, vorrebbe seguirli con smaniosa passione, ma gli occhi, sul punto, gli andrebbero lì, a quello strappo, donde ora ogni sorta di mali influssi penetrerebbero nella scena, e si sentirebbe cader le braccia. Oreste, insomma, diventerebbe Amleto. Tutta la differenza, signor Meis, fra la tragedia antica e la moderna consiste in ciò, creda pure: in un buco nel cielo di carta.
E se ne andò, ciabattando. […]
L’immagine della marionetta d’Oreste sconcertata dal buco nel cielo mi rimase […] un pezzo nella mente. A un certo punto: «Beate le marionette,» sospirai, «su le cui teste di legno il finto cielo si conserva senza strappi! Non perplessità angosciose, né ritegni, né intoppi, né ombre, né pietà: nulla! E possono attendere bravamente e prender gusto alla loro commedia e amare e tener se stesse in considerazione e in pregio, senza soffrir mai vertigini o capogiri, poiché per la loro statura e per le loro azioni quel cielo è un tetto proporzionato».8
Lasciamo pure da parte le bizzarrie del signor Anselmo e l’aroma teosofico dei «mali influssi» ch’egli paventa. È l’iterazione della metafora che interessa e non può essere frutto del caso: Oreste ridotto prima a marionetta automatica (dunque orba di burattinaio) e poi ridotto, da quello strappo nel cielo, all’invincibile impotenza di Amleto e al supplizio irridente dell’atto mancato. E fin qui siamo al passaggio dalla tragedia antica alla moderna, tragedia pur sempre. Ma il signor Meis va oltre nella reductio: parla di una commedia di marionette vanitose e felici e fa intravedere, apparentemente negandola, l’irreparabile e vertiginosa ridicolizzazione cui la loro futile commedia sarebbe esposta se il cielo di carta della loro fatuità si lacerasse mostrando tutta la sproporzione fra la smisurata immensità del vuoto e la burattinesca piccolezza delle loro «teste di legno». È questa la tematizzazione estrema del teatrino del mondo: una sorta di commedia al quadrato che, epicizzata da quello strappo, collassa su se stessa.
Il mondo come teatro umoristico, si potrebbe già dire. Se Adriano Meis può ravvisare in Terenzio Papiano «il prototipo di queste marionette», è perché Pirandello fornisce con Il fu Mattia Pascal il prototipo romanzesco di quel penoso teatro di marionette automatiche. E Mattia morirà invano due volte nel tentativo di evadere da quel teatro.
Se una teatralità sarà ravvisabile in prosieguo di tempo nella narrativa di Pirandello, sarà questa – tematica molto più che formale –, fondante piuttosto che prefigurante, per cui i suoi protagonisti più tormentati e scavati oblitereranno l’istanza narrante stessa che li partorisce, la ridurranno quasi, o del tutto, al silenzio e si accamperanno sulla scena del racconto soli e isolati quasi quanto i personaggi su un palcoscenico di teatro. Sarà, certo, più che ovvio riconoscere ne La carriola un puro monologo e ne La morte addosso un puro dialogo ma, al di qua di questi protocolli discorsivi così patentemente, e vorrei dire naturalmente, teatrali, la teatralità profonda dei due racconti consiste nella solitudine che i personaggi respirano, nella derelizione che li avviluppa, e che sono appunto le condizioni d’un mondo dominato dal caso, pieno di burattinai ottusi o velleitari, ma privo di un dio e di un ordine necessario, e perciò di un qualsiasi fine che dia senso ai destini individuali. E, se proprio si vuole, è questa l’istanza tematica che porrà la petizione forte del teatro, ossia della forma espressiva che, affollando la scena di innumeri personaggi senza autore, più di ogni altra è allegoria dell’umana derelizione.
Per intanto, tematizzati il mondo come teatro e la vita come «sciocca fantocciata»,9 Pirandello li racconta delegando ai suoi burattinai-narratori il compito di animare fantocci e marionette. Più in là, questi ultimi si animeranno da sé e, muovendosi e parlando, da sé si racconteranno. Contrapposti nel senso in cui da sempre si oppongono mimesi e diegesi, teatro e racconto pirandelliani sono conviventi e conniventi sull’asse tematico che omologa la vita e il mondo a un teatro dove tutti, ineluttabilmente, fingono e recitano, si abbigliano e si spogliano, si creano illusioni e se le vedono distruggere, immaginano una vita e inventano persone e le guardano dissolversi. Non è davvero un caso se, quando pure la narrativa pirandelliana si sarà schiusa e poi spalancata al teatro, quest’ultimo non la sostituirà e non la oscurerà. Anzi, l’immenso patrimonio inventivo accumulato dalla scrittura narrativa non verrà investito e messo a frutto che in parte dal teatro, e non risulterà affatto impoverito da questo investimento.
Il cimento pirandelliano della disarmonia e dell’invenzione si conserva integro e intero nella vasta fabbrica del suo museo narrativo e in particolare nelle folte sale della novellistica: dei grandi protagonisti del suo teatro, parecchi sono solo evasi da quel museo – e più d’uno porta le cicatrici dell’evasione – e i pochissimi che non ne provengono (valgano per tutti l’incorporeo Lamberto Laudisi, uomo senza storia, e l’anonimo reduce e inquilino della storia che per errore chiamiamo Enrico IV, la fuggitiva Donata Genzi e il dimissionario mago Cotrone) l’hanno tutti, e non sempre in incognito, visitato.
I macigni fondanti di una tradizione critica, cementati dalla storia, non sono facili da rimuovere. Non solo una storica attualità, quella degli anni ’20 e ’30 del XX secolo, ha reso omaggio al drammaturgo Pirandello, cui non era stata riconosciuta pari grandezza come narratore; ma, ben più autorevole, la storia posteriore del teatro novecentesco ha sancito il ruolo esemplare che la viva testualità teatrale di un’opera come Sei personaggi in cerca d’autore (sempre d’altronde citata e monumentalizzata, fingendo di non accorgersi o non badando al fatto che è quasi priva di riscontro anche nell’ambito del teatro pirandelliano) ha avuto nella vicenda della drammaturgia contemporanea. Non si dica dunque delle novelle, ma neppure i maggiori romanzi di Pirandello – e valga per tutti quello coronato dal maggiore e più duraturo successo, Il fu Mattia Pascal – hanno potuto aspirare a una postazione ugualmente alta nel secolo che s’era d’altronde annunciato con Ulysses di Joyce, con la Recherche proustiana, con Der Mann ohne Eigenschaften di Musil e, in casa nostra, con La coscienza di Zeno di Svevo.
Conviene imparare dalla volpe così cara a Pirandello e rinunciare all’uva: restino pure al loro posto i macigni diventati muraglia. Un’indicazione però, semplice come l’istruzione che invita a maneggiare un prodotto con cautela, può essere data dall’alto dei tre quarti di secolo che ci separano dalle vette più ardite del teatro pirandelliano e da quel bacino riempito e stivato pian piano che è l’ultimo e il più spericolato dei suoi romanzi. Ed è la seguente: non si cerchi più il teatro nelle novelle di Pirandello e non si cerchino più i cartoni narrativi nel suo teatro, nella presupposizione che l’unidirezionalità vettoriale delle metamorfosi che hanno tante volte transcodificato un racconto in commedia (e mai viceversa) sia, per così dire, la prova ontologica di una intenzione e di una ricerca per cui il racconto è strumento e tramite, e il teatro è il fine. Non è questa la relazione che lega novellistica e teatro, e non è un caso se di nessun testo teatrale pirandelliano si può ragionevolmente dire che sia la realizzazione di uno spunto fissato in forma di novella.
Le prove del fatto che Pirandello ha sempre pensato al teatro sovrabbondano, e diremo di più: l’epistolario giovanile lascia intendere con tutta chiarezza che egli pensava quasi esclusivamente come teatro sia ciò che scriveva e diceva d’aver scritto (e poi, chissà, distrusse) che ciò che immaginava di scrivere e forse non ha scritto mai. Nell’ordine dei fatti documentabili, è certo (e già se ne è accennato) che la novella La paura vide la luce un anno prima de L’epilogo, così come è certo che il racconto La signorina fu pubblicato nel 1894 mentre dell’omonima commedia in tre atti non è restata traccia. Ugualmente certo è però che nel 1892 Pirandello dava per scritti (vero o no che fosse) due testi teatrali, non due novelle. Aveva voluto e pensato teatro; scrisse e stampò due racconti prima di collocare L’epilogo su «Ariel», la rivistina settimanale dei suoi amici romani e sua, che bisognava nutrire.
Dietro questa apparente stranezza c’è in primo luogo la dura, concreta realtà del teatro com’era (e come forse è ancora), l’attenzione distratta e qualche volta la disinvoltura degli attori e dei direttori di compagnia, la totale inesperienza del giovane autore sconosciuto (che nel 1887, a Palermo, aveva potuto pensare di offrire una commedia siciliana in sette scene a Eleonora Duse che recitava La signora delle camelie, Sardou e Goldoni). Pirandello scrive (e dice di scrivere) teatro, candidamente convinto, o volendosi autoconvincere, che quanto viene scrivendo sia sempre lì lì per essere rappresentato. Si può ipotizzare che, oltre ai consigli di Capuana e di altri amici, le disillusioni in serie lo abbiano indotto a ripiegare sulla novella, genere più facilmente smerciabile anche per chi non potesse, al momento, vantare una firma prestigiosa? Si può, io credo. Era un modo per aggredire la fortezza della gloria, del successo e anche di una fama finalmente remunerativa da un altro lato, anche se, condotta così, accantonando per il momento l’assalto velleitario e trasformandosi in assedio, la campagna avrebbe richiesto molta più pazienza e molto più tempo. Ammettendo che la scrittura novellistica rappresenti almeno inizialmente una manovra di ripiegamento rispetto alla primitiva, ingenua strategia di un assalto frontale ai bastioni del teatro, saremo assai più vicini alla verità del rapporto fra drammaturgia e narrativa pirandelliana. Le novelle (e, beninteso, i romanzi) non sono torri, catapulte, arieti, scale, ma casematte sempre più munite, trincee sempre meglio fortificate, e finiscono col costituire un campo così attrezzato da essere sempre più autonomo e autosufficiente.
Fino agli anni ’90 Pirandello ha forse ancora pensato ai depositi novellistici come alle salmerie e alla polveriera che dovevano servire per l’attacco al teatro. Allo scadere del secolo, però, quei magazzini contenevano già materiale abbastanza prezioso (Se…, Sole e ombra, Il dottor Cimitero, Nonno Bauer, tre quarti dei Dialoghi tra il Gran Me e il piccolo me, Salvazione, Lumíe di Sicilia, Prima notte) da far presagire che avrebbe avuto tutt’altra e non strumentale destinazione. Fuori d’immagine, la novellistica, crescendo su se stessa ed emancipandosi, diventa un patrimonio che via via e di per sé si valorizza, che rapidamente smette d’essere riserva di teatrabili per diventare riserva aurea dell’inventio pirandelliana. L’autore vi attingerà a piene mani quando la cittadella mal nutrita e perennemente affamata del teatro alzerà bandiera bianca e sarà ben contenta di accettare le offerte della sussistenza pirandelliana, e tuttavia resta vero (ed era già vero molto tempo prima) che Pirandello, che avrebbe voluto fare teatro quando non aveva neppure cominciato a fare il narratore, superati gli anni del suo noviziato ottocentesco, non ha mai scritto una sola novella per cavarne un’opera teatrale. E, a rigore, a meno di non tirare i documenti per i capelli fino a scotennarli, non esiste una sola prova che ne abbia scritte con questo esplicito intento neppure prima. Viene spontaneo ribadire, semmai, che, messo appena il piede dentro il mondo raccontato, con l’occhio del singolare umorista che sarebbe diventato, ha subito scorto l’ineluttabile teatralità dei personaggi umani agitati dalla passione o dal dolore e la ricaduta penosa della loro emotività, per quanto sincera, in forma di eccesso verbale e gestuale: di recita, insomma. E ora lo sguardo estraneo dei narratori, ora quello severamente autoptico dei protagonisti più pensosi non mancano di sottolineare o lamentare questa immanenza del teatro sull’agire degli uomini, una sorta di coazione che li condanna a fingere o a sembrar fingere, a dar colore di falsità e di menzogna ai loro sfoghi più abbandonati. Non ci sarà dunque di che sorprendersi se, ancora nel 1929, per spiegare come Nikolaj Evreinov dimostri «che tutto il mondo è teatro e che […] tutti gli uomini recitano nella parte che essi stessi si sono assegnata nella vita o che gli altri hanno loro assegnata»,10 userà non parole di Evreinov ma proprie: quelle che aveva dette il Padre dei Sei personaggi parlando di «quel tanto che ciascuno recita nella parte che si è assegnata, o che gli altri gli hanno assegnato nella vita».11
Tematizzazione del teatro, si diceva. E semantizzazione umoristica della teatralità del mondo. La novellistica è anche tutto questo e, in forza della decantazione lenta, della distillazione di tutto ciò goccia a goccia nel corso dell’attività narrativa, qualcuno ha potuto dire che il teatro di Pirandello nasce adulto e maturo, quando viene il suo momento. Cosa certamente vera, perché il teatro di Pirandello non esisterebbe senza la faticosa disciplina – quasi una prolungata iniziazione – della narrativa. Ma la novellistica pirandelliana non sarebbe quella che è, in nessun senso, se non fosse ossessionata dallo spettro del teatro, dalle smorfie della teatralità, dai rischi della teatralizzazione.
Due rapidi esempi possono bastare.
Si usa dire che, nel 1918, dalla novella del 1913 Quando s’è capito il giuoco Pirandello ricava e sviluppa il dramma in tre atti Il giuoco delle parti. Superficialmente inteso, l’asserto è vero: la trama della pièce ricalca fedelmente quella del breve racconto. Siamo dunque in presenza di uno dei casi conclamati di riuso-transcodificazione totale. Ma proprio il raffronto, straordinariamente comodo, dei due testi nella loro interezza fa capire a prima vista che, nell’atto di riscrivere la vicenda per il teatro, Pirandello finisce per conservare solamente l’efficace e brillantissima fabula novellistica, ossia uno scheletro meticolosamente scarnificato. Nient’altro. Ne consegue che, anche a prescindere dalla metamorfosi novella-dramma (che è comunque sempre qualcosa di più profondo d’una commutazione da uno ad altro genere letterario), il racconto e la commedia ordinano eventi identici, mettono in scena la medesima storia e nel contempo sono due storie inconfrontabili. Proprio il raffronto ravvicinato dimostra che Il giuoco delle parti non rimette in causa e non scalfisce minimamente la perfetta chiusura narrativa a scatto della novella, e tuttavia non è propriamente una riscrittura e uno sviluppo del testo narrativo, ma una costruzione interamente nuova che dell’edificio narrativo preesistente riutilizza solo le fondamenta evenemenziali. Eppure i cinque anni che separano la novella dalla pièce non sono molti. Né, infatti, sono questi cinque anni a contare in modo particolare contano incomparabilmente di più due altri fatti: che la novella del 1913 era il prodotto, più che maturo, di un narratore che a quell’epoca di novelle ne aveva scritte all’incirca centosettanta; e che nel 1918 Pirandello, sapendo di poter concretamente pensare all’imminente messinscena del testo che avrebbe scritto, e volendo scriverlo per Ruggero Ruggeri che stava portando al successo nei teatri italiani Il piacere dell’onestà, non ritiene che l’impianto significazionale di Quando s’è capito il giuoco possa essere teatralizzato e proposto a quell’interprete. La novella di cinque anni prima, scritta non pensando affatto a una sua destinazione teatrale, non può servire al teatro: viene dunque smantellata per ricavarne l’unico pezzo utile, il motore evenemenziale intorno al quale montare tutt’altra macchina. A posteriori, è stato più volte detto che i protagonisti del dramma, l’elegante e impassibile Leone Gala, che sa disperatamente difendersi, e sua moglie Silia, figura di donna inquieta, rosa da un’angosciante insofferenza esistenziale, sono personaggi molto più intensi e complessi del bonario Memmo Viola e della sventata Cristina del racconto. È lecito sostenerlo, purché resti chiaro che Memmo e Cristina erano protagonisti assolutamente adatti alla macchina narrativa di Quando s’è capito il giuoco, il funzionamento della quale non prevedeva essenze più rare e più sofisticati ingranaggi. Forse Pirandello ci avrebbe dato torto, dal momento che nelle tante raccolte parziali e poi nelle «novelle per un anno» recuperò tantissimi suoi vecchi racconti, spesso anche quelli mediocri, ma non la novella del 1913. Può però anche darsi che ci avrebbe dato ragione e che non abbia voluto, riproponendo alla lettura la novella rapidissima e piena di verve di cui la commedia era tributaria, gettare olio sul fuoco delle perplessità e delle contestazioni che Il giuoco delle parti suscitò a lungo.
Del tutto diverso e assai più tortuoso il percorso inventivo che conduce ai Sei personaggi in cerca d’autore. La prima a cristallizzarsi è un’idea-sensazione remotissima, quella fissata a vent’anni dal frequentatore appassionato di spettacoli teatrali, nella lettera del 4 dicembre 1887, già richiamata, in cui Pirandello per la prima volta verbalizza l’impressione di non entrare mai solo in una sala di teatro, «ma sempre accompagnato dai fantasmi della sua mente, persone che si agitano in un centro d’azione, non ancora fermato, uomini e donne da drama o da comedia, viventi nel suo cervello, e che vorrebbero d’un subito saltare sul palcoscenico». E in questa confessione dello spettatore entusiasta gli elementi memorabili sono due: la piccola folla di personaggi che si stipa e urge nel teatro della mente, e la loro voglia di saltare sul palcoscenico a vivere la loro vita. Diciassette anni più tardi, il teatro del racconto ha sostituito il palcoscenico, ma la scena che vi si svolge non è affatto cambiata: il 28 maggio 1904 Pirandello scrive a Luigi Natoli: «[…] se le cure materiali e gli impegni sociali non mi distraessero, credo che resterei dalla mattina alla sera qua nel mio scrittoio, al servizio dei personaggi delle mie narrazioni, che mi fan ressa intorno. Ciascuno vorrebbe assumere vita prima dell’altro. Hanno tutti una particolare miseria da far conoscere».12
I tempi sono maturi perché lo scrittore conceda ai suoi personaggi le udienze che essi prepotentemente pretendono da lui, e nel 1906 il raccontino Personaggi, provatamente memore della lettera al Natoli, comincia infatti così: «Oggi, udienza. Ricevo dalle ore 9 alle 12, nel mio studio, i signori personaggi delle mie future novelle». Cinque anni dopo, l’incipit di un’altra novella, La tragedia d’un personaggio, darà come «vecchia abitudine» quella delle udienze e ne estenderà l’orario «dalle otto alle tredici». Ciò che però accomuna i racconti del 1906 e del 1911, e che conta di più, è un movimento narrativo ulteriore, nuovo, che distacca le novelle dai precedenti epistolari: il rifiuto. Per ragioni rispettivamente estetiche e deontologiche, sia il dottore in scienze fisiche e matematiche, Leandro Scoto, che il dottor Fileno, autore della Filosofia del lontano ed esule da un romanzo indegno di lui, vengono respinti dal narratore-autore. Hanno chiesto entrambi udienza perché sono in cerca d’autore e vengono entrambi rifiutati. E l’episodio si ripeterà ancora, nel 1915, nel primo dei Colloquii coi personaggi, quando l’angoscia della guerra avrà fatto sì che l’autore esponesse alla porta dello studio un avviso di sospensione delle udienze, senza riuscire con ciò a tener lontano un personaggio dei più petulanti, anch’esso convinto che da lui si potrebbe trarre un romanzo capolavoro. L’autore caccia anche lui, e brutalmente, sbattendogli in faccia la porta dello studio e chiudendovisi, ma quel fantasma romanzesco non ha difficoltà a entrare ugualmente e a farsi ascoltare fino in fondo perché è, come tutti i personaggi, un suo fantasma e, quel che è peggio, una sua voce di dentro, il suo doppio egotistico e vitale.
Posti i personaggi postulanti, e posto il motivo del rifiuto, si potrebbe pensare che niente ormai manchi dell’inventio che presiederà ai Sei personaggi. Ma non è così. Le tre novelle sono a pieno titolo racconti, nei quali un ruolo fondante e fondamentale viene coperto dalla figura del narratore-autore-protagonista. È lui a spettacolarizzare la scena, più spesso discreta e ovattata, della narrazione ammettendovi le figure del mondo narrato. Di solito sono i narratori-protagonisti, che si raccontano in prima persona, a scivolare con passo più o meno felpato da uno scrittoio (perlopiù metaforico) a un palcoscenico – quello della vicenda narrata – sul quale sono essi stessi personaggi e non (ancora) narratori. Nelle tre novelle pirandelliane, invece, il mondo narrato è quello della mente creante e della creazione narrativa, la sala d’attesa, se si vuole, o l’anticamera di qualunque racconto, dove vanno e vengono personaggi non ancora realizzati di tutti i tipi, amabili e odiosi, probabili e improbabili. E qualcuno di questi, via via, viene ammesso o si intrufola nello studio di colui che narra, sede dell’istanza narrante vietatissima, solitamente, ai personaggi narrati. È questo il gioco, umoristicamente metanarrativo, articolato nelle tre novelle. Un gioco che, sceneggiando il teatro della mente autorale, risulta appunto spettacolare e profondamente teatrale. Ciò non toglie che si tratti ancora, e a maggior ragione, di una teatralizzazione eminentemente narrativa proprio perché fondata sulla relazione sine qua non fra narratore-autore e personaggi.
E veniamo infine al superstite frammento dei Sei personaggi in cerca d’autore, «romanzo da fare». Il breve lacerto romanzesco, che venne reso noto solo nel 1934, è, quale oggi lo leggiamo, un testo che consta di due segmenti di datazione molto incerta13 e di dubbia compattezza, che probabilmente celano una stratigrafia ben più scistosa di quanto non paia. A ogni modo, il primo e più esteso segmento corrisponde davvero a due pagine di romanzo: si parla, nella enclave incipitale, focalizzata su un abituale cliente, del distinto atelier di sartoria femminile della signora Pace e delle giovani che occasionalmente vi vengono a fare, nei ritagli di tempo, del lavoro straordinario di tutt’altra natura, e si racconta poi l’irresistibilità umiliante del desiderio che spinge un uomo sui cinquant’anni (colui che sarà il Padre) a percorrere nervosamente le vie cittadine per salire a quel terzo piano. Quel che resta del romanzo è tutto qui. Qualcosa di più veniamo a sapere da una lettera di Pirandello al figlio Stefano, del 23 luglio 1917: «[…] ho già la testa piena di nuove cose! Tante novelle… E una stranezza così triste, così triste: Sei personaggi in cerca d’autore: romanzo da fare. Forse tu intendi. Sei personaggi, presi in un dramma terribile, che mi vengono appresso, per esser composti in un romanzo, un’ossessione, e io che non voglio saperne, e io che dico loro che è inutile e che non m’importa di loro e che non m’importa più di nulla, e loro che mi mostrano tutte le loro piaghe e io che li caccio via… – e così alla fine il romanzo da fare verrà fuori fatto».14 Posteriore di alcuni anni, pare, al segmento narrativo di cui abbiamo appena parlato, questa lettera, ben più importante di esso, prova alcune cose: che, intorno al luglio 1917, Sei personaggi doveva essere un romanzo teso a narrativizzare ancora una volta, quantunque in termini stranamente tristi e presumibilmente più intensi, il motivo del rifiuto: doveva anzi farne il motore della macchina romanzesca; e che una volta di più, e più che mai, sarebbe stata centrale e serrata la discorde dialettica fra autore e personaggi: «Sei personaggi […] che mi vengono appresso […] e io che non voglio saperne […] e loro che mi mostrano tutte le loro piaghe e io che li caccio via». Non si direbbe nulla di sorprendente affermando che, dalla triplice esperienza delle tre novelle sui personaggi, è maturata infine l’idea del romanzo dei sei personaggi «presi in un dramma terribile» e, nonostante ciò, ripudiati e cacciati dall’autore come da un dio sdegnoso, abulico e impassibile. Ma qui interviene il secondo e sintetico segmento che gli editori stampano, separato da uno stacco tipografico, di seguito al frammento di romanzo di cui sopra:
Il bello è questo, che han lasciato me e si sono messi a rappresentare tra loro le scene del romanzo, così come dovrebbero essere. Me lo rappresentano davanti, ma come se io non ci fossi, come se non dipendesse da me, come se io non potessi in alcun modo impedirlo.
Soprattutto lei, la ragazza. La vedo entrare… È una perfetta realtà creata da me, ma di cui non mi posso interessare, pur sentendone la profonda pietà che ne spira. Il caso della madre. Ma ci pensate? La sua vergogna davanti al figlio legittimo: non poterlo guardare giacché per poterlo guardare le bisogna annullare la vita degli altri figli, che sono i figli del suo dolore e della sua vergogna, di un’altra sua vita in cui egli non può entrare.15
Questo brandello di testo contiene uno scatto inventivo che né i tre precedenti racconti né la lettera a Stefano, sebbene contengano tutti la vicenda dei personaggi postulanti e del rifiuto, lasciano minimamente presagire. E tale scatto induce a congetturare che questi due capoversi siano sensibilmente più tardi del segmento narrativo che li precede e, probabilmente, successivi anche alla lettera a Stefano. Il primo dei due, in particolare, introduce una svolta decisiva. Senza necessariamente cancellare il motivo del rifiuto, che sarà infatti ancora presente e attivo (almeno in termini di pregresso movente) nella partitura drammaturgica dei Sei personaggi, esso prefigura con tutta evidenza un movimento ulteriore, e precisamente quello che trarrà i sei personaggi sul palcoscenico. Questo capoverso rizza già, di fatto, le quinte metaforiche di un teatro fra le quali viene relegato l’autore-spettatore che i personaggi rifiutati hanno finito per lasciare e ignorare, e che è già sul punto di venir sostituito dal Capocomico cui i sei personaggi disperati ricorreranno.
Questo scatto inventivo farà presto abbandonare l’idea del romanzo perché, dal momento in cui i personaggi prendono a rappresentarsi da sé come se non dipendessero più da nessuno e non ci fosse più nessuno intorno a loro, come se nessuno più potesse impedir loro di rappresentare il loro dramma terribile, quella «stranezza così triste» non postula più il racconto di un rifiuto, ma la derelitta, desertica vacuità di un teatro nudo. È così che, al posto del romanzo da fare, verrà fuori fatta la «commedia da fare». Proprio questo prezioso frammento dimostra, inserendosi come un cuneo fra le novelle e il dramma del 1921, che il romanzo dei sei personaggi non è giunto a essere più che un’intenzione e una larva di racconto e che i Sei personaggi in cerca d’autore che noi conosciamo hanno potuto nascere solo come teatro. Anche in questo caso, le tre novelle raccontano storie di personaggi, ma la vicenda dei sei personaggi senza autore è tutt’altra storia. Fileno e il vecchio Leandro Scoto bussavano invano, e pateticamente, alla porta dell’istanza autorale creativa; ma i sei erranti, legati l’uno all’altro da una fatale attrazione-repulsione, e tuttavia chiusi nella propria impenetrabile e incomunicabile soggettività, che trascinano di teatro in teatro la propria quête sempre insoddisfatta, compongono un’allegoria tragica delle relazioni umane e della paurosa solitudine che le perpetua non leggibile nei racconti presuntamente preparatori.
Si ammetta pure (personalmente penso sia da ammettere senz’altro) la congettura di un Pirandello giovane che, respinto dal teatro e dagli avventurosi mercanti di quel tempio, verso il quale lo trascinava una sua prima vocazione entusiasta e ingenua, si è sottoposto più per forza che per amore a un diuturno noviziato novellistico, e che il prolungarsi di quel noviziato ha poi dovuto accettare, spinto da necessità pratiche che non consentivano renitenze e dilazioni. Ancora nel 1904, quando aveva già pubblicato circa sessanta novelle, Pirandello, che aveva appena terminato anche Il fu Mattia Pascal e non aveva affatto ricominciato a pensare al teatro, si lamentava dell’etichetta che gli si veniva appiccicando: «Da che mi son messo a scriver novelle, son diventato di professione novellaro (come direbbero a Roma), e nessuno pensa più che cominciai da poeta e se per poco mi rivolgo a un editore per aver stampato un libro di versi, mi sento rispondere: “Se per un libro di novelle, sì; versi, no: i versi non vanno!”».16 E anche questo: dirsi poeta quando lo si chiama novellista, come più tardi dichiararsi narratore, quando tutti lo proclameranno scrittore di teatro, sarà a conti fatti un tratto dell’insofferenza pirandelliana per le formule e gli ismi cataloganti. Ma vale intanto a dimostrare che non si sentiva un vocato al racconto, che non si riconosceva novellista per il semplice fatto di essersi messo a scrivere novelle.
Ammettiamo dunque che furono gli ostacoli e le strettoie del mestiere della letteratura, e i vincoli imprevisti ma concreti di quello di vivere, a spingerlo verso la narrativa e verso la scoperta di doti che in principio non sapeva lui stesso di possedere. Sta però di fatto che nella narrativa, e in quella breve in particolare, Pirandello si trovò a riversare le energie eccezionali del suo talento di scrittore. La sua facoltà immaginativa più viva e fervida, e più personale, apprese a esprimersi sempre più spontaneamente nell’invenzione di storie, ossia in quello che è il genio specifico dei grandi narratori. La sua inventiva, mobilissima e instancabile, precocemente popolata, come s’è visto, dei fantasmi di «persone che si agitano in un centro d’azione», di «uomini e donne da drama o da comedia», si affollò rapidamente e naturalmente di uomini e donne da romanzo o da racconto. I casi della vita vollero che Pirandello fosse un novellaro coatto, un cottimista della novella, ma il caso ha voluto anche che una tale costrizione investisse uno scrittore nato per subirla e capace di vendicarsene con esiti artistici straordinari. Alla stretta del dover scrivere, Pirandello ha risposto con un vigore creativo la cui fecondità e originalità fa largamente aggio sulla coazione degli eventi.
Prima che gli atti unici L’epilogo e Lumíe di Sicilia ricevessero per primi il battesimo del palcoscenico nel dicembre del 1910, egli aveva mandato a stampa metà della sua complessiva produzione novellistica, all’incirca 125 racconti. E in questa prima metà c’è già tutto: le storie paesane semiserie come «In corpore vili» o Il vitalizio, La berretta di Padova o Corvo, 77-Asino, 23-Caduta, 80 (poi reintitolata Il corvo di Mìzzaro) o Un invito a tavola; le storie paesane chiuse nel loro drammatico o patetico realismo, come Lumíe di Sicilia, Prima notte, La mosca, Scialle nero, Il viaggio, «Leonora, addio!»; le agrodolci storie umoristiche, campagnole e urbane, siciliane e romane, come Dono della Vergine Maria, Salvazione (poi La maestrina Boccarmè), Notizie del mondo, Marsina stretta, Quand’ero matto…, Formalità, Acqua amara, Va bene, Pari, La vita nuda, Pensaci, Giacomino!; le storie amare dei reduci dell’epopea risorgimentale, come Sole e ombra, Le medaglie, Il guardaroba dell’eloquenza, Musica vecchia; le tristi storie borghesi dell’amore mancato o del disamore, da La ricca al trittico di Amori senza amore (L’amica delle mogli, L’onda, La signorina) e a Lillina e Mita (riscrittura de Il «no» di Anna), a Con altri occhi, Nel segno, La veglia, Una voce, Tutto per bene, Tra due ombre, Il lume dell’altra casa; le diatribe dei «filosofi», come Pallottoline! e Dal naso al cielo, i Dialoghi tra il Gran Me e il piccolo me e Il professor Terremoto; le silenziose tragedie dello spaesamento e dell’abbandono come Lontano o La balia o L’uscita del vedovo; storie segnate dalla violenza e dalla morte, in cui si uccide (Se…, Chi fu?, Il dovere del medico, Lo scaldino, Va bene) e ci si uccide (Sole e ombra, E due!, Nel segno, La veglia, Scialle nero, In silenzio). E molte altre, ancora diverse. Dal mortaio alchemico in cui le vite narrate vengono pestate a una a una, colano motivi densi e vaporano motivi volatili che, raggrumandosi o sublimando, si ricombinano e formano composti che sprigionano nuove storie. Non esiste, forse, una mimesi letteraria della simultaneità e della somigliante differenza delle vite umane (di quella comédie humaine la cui monumentalizzazione balzachiana e romanzesca Pirandello straordinariamente apprezzava)17 più aderente di quella che il corpus novellistico può offrire. Creando un cosmo vivente, il novellista mostra nel contempo il caotico formicolio delle vite che vi si accendono e bruciano.
Questa varietas narrativa, questa diversità di registri, di timbri, di colori verbali e di pasta vocale, di motivi dinamici e di modulazioni tematiche è senza paragone il lascito più sostanzioso e affascinante dell’arte pirandelliana. Il teatro che rese celebre Pirandello ci consegna (e ciò può essere detto senza ombra di ingiuria per chi ha scritto Il giuoco delle parti, i Sei personaggi, Enrico IV, Questa sera si recita a soggetto e quanto resta de I giganti della montagna) anche testi oggi irrappresentabili e resi quasi illeggibili dall’usura del tempo che ne ha eroso i moventi o fatto crollare i parametri assiologici, oppure dalle occasioni troppo prossime e fragili che li avevano partoriti (la confezione testarda di drammi «a protagonista-donna» per la bella Marta ha reso particolarmente deperibili i testi dell’ultimo decennio a lei dedicati), oppure dalla smania di riscatto di un autore profondamente e cupamente amareggiato dalla sorda ostilità, spesso invidiosa, che in Italia lo circondava, e molto più risentito di quanto fino a pochi anni fa non si potesse sospettare. Le partiture narrative brevi, viceversa, anche le più esili e le meno realizzate (e ve ne sono, fra le tante), contengono quasi sempre qualche piega sorprendente, qualche splendore inatteso, qualche colpo d’ala, appunto qualche combinazione e invenzione che non sa di replica.
Non è tutta ugualmente grande, la novellistica pirandelliana, ma è ancora tutta leggibile a distanza di ben più d’un secolo dai suoi esordi e settant’anni dopo la sua abbagliante conclusione. Non è la qualità, a ogni modo, a fare la differenza e a indurre ad additare alla rilettura piuttosto le novelle che non il teatro di Pirandello, quanto il fatto che, rispetto al tutto affollato e formicolante del mondo novellistico, il teatro costituisce soltanto un ritaglio, una ristretta porzione, e che la combinatoria drammaturgica, anche a tacere i prestiti più che cospicui attinti all’invenzione novellistica, risulta scarna a fronte della rigogliosità di quella narrativa. Come spesso fanno i grandi autori, Pirandello si travaglia e scava in profondità intorno a pochi grandi temi (l’identità e l’alterità: la loro costituzione, la loro dissoluzione, le loro relazioni; la contraddizione fra l’esiziale pulsione alla vita e la vitale pulsione di morte; la relazione soggetto-oggetto e la realtà als Wille und Vorstellung che ne promana – il sintagma schopenhaueriano, pur filosoficamente semplificato e qualche volta banalizzato, resta singolarmente aderente), e quei pochi temi elabora senza tregua, scomponendoli e ricomponendoli. Ma i temi sono inerti e immobili se non si fanno intervenire, a metterli in movimento e a vivificarli, motivi, moventi, eventi e vicende; se non li si fa incarnare in personaggi che ne diventano i veicoli e i soggetti. Il problema dell’identità, poniamo, resta invisibile e impredicabile fintanto che a renderlo predicabile e percettibile non ci sia qualcuno che l’identità ricerca, che la trova o la smarrisce nel corso di una sua storia.
È in questo modo che pochi temi partoriscono innumerevoli motivi dinamici, innumerevoli storie e una fitta popolazione di personaggi. Accumulandosi, i motivi simili si richiamano; moltiplicandosi, le storie tendono a ordinarsi per somiglianza o per differenza; per gli stessi motivi si stringono parentele e idiosincrasie fra personaggi nuovi e vecchi. È a tutto questo che si allude parlando della combinatoria novellistica come di un lussureggiare incredibilmente vivido e rigoglioso. Non deve dunque neppure sorprendere, dopotutto, che il teatro stenti a spiccare, sbocciando in mezzo a una simile fioritura.
Le grandi invenzioni della drammaturgia pirandelliana, che hanno non casualmente folgorato una scena teatrale spesso mediocre e alquanto routinière, non sono in discussione; né è da rimettere in questione l’ottica più che legittima di chi ha lavorato e lavora sul teatro pirandelliano in sede di storia del teatro e dello spettacolo novecentesco, e perciò dà giustamente rilievo a una diversa referenzialità e a differenti dossier intertestuali. Per quanto inestricabilmente interconnesse, quelle del teatro e della letteratura diventano nel nostro secolo storie sempre più divergenti e diversificabili. E possono restare tali anche in presenza di una personalità autorale come quella di Pirandello, che s’è espressa con pari imponenza nell’ambito di entrambe. Due sono le ottiche critiche da correggere senz’altro: quella che si affanna a ricercare prodromi narrativi di successive soluzioni teatrali, e che ragiona in termini di incubazione e preparazione, di relazioni ancillari o di servizio fra testi narrativi e testi teatrali; e quella che, trascinata dall’effetto ingannevolmente oggettivo della cronologia, legge nella complessiva anteriorità della narrativa e nella posteriorità del teatro la prova provata del fatto che in quest’ultimo si conservano gli esiti ultimi, dunque più maturi e maggiori, dell’arte pirandelliana.
Come già s’è visto, proprio i casi più evidenti di integrale riscrittura teatrale dimostrano viceversa che il precedente narrativo, nella sua autonoma chiusura testuale, non era prodromo di alcunché e che Pirandello, per così dire riattualizzandolo nell’atto di farne teatro, s’è certo ripromesso tutte le volte anche un progresso e un guadagno espressivo, ma si è costantemente esposto al rischio di un regresso. E ammesso che questa partita doppia, i cui conti la critica ha rifatti tante volte nel corso degli anni, abbia un senso, il bilancio si chiude più spesso in perdita che non in attivo. Talché neppure la cronologica posteriorità del teatro significa veramente qualcosa, dal momento che la scrittura teatrale esplode e si impone quando la carriera creativa pirandelliana mostra i segni della più piena maturità. Ben lungi dal significarla e inaugurarla, il teatro magnifica alcuni tratti di una maturità che la narrativa attesta con sontuosa dovizia, e di cui tornerà a essere testimone massima quando la fioritura teatrale paleserà segni di stanchezza e di appassimento. La novellistica in particolare non è affatto il guardaroba di un’eloquenza che esibisce a teatro le sonorità più nitide, i timbri più pastosi e le armonie più ardite. L’anonimo – colui che, guarito dalla sua lunga follia, si sottrae al deserto della propria vita mancata e della solitudine rifugiandosi nella quiete anestetica della Storia, che ne viene stanato da quei medesimi che lo avevano reso folle e che vi ritorna a costo di un omicidio e di parer pazzo – non è poi tanto diverso da quella signora ancora giovane e bella che ha ammantato di lindura ordinata e casta e di devota generosità la propria solitudine di abbandonata, e che in quel deserto non più lindo, non più casto e non più generoso viene ricacciata dal secondo e definitivo ripudio. Come dire che scriverà Enrico IV chi ha scritto Pena di vivere così, ma anche che scrivere un capolavoro del teatro come Enrico IV non è né più facile né più difficile, per il Pirandello maturo, che scrivere quella sorta di straordinario rovescio del flaubertiano Un cœur simple che è la storia della signora Léuca.
Si sta parlando degli anni 1920-21. Nel clima ben più amaro e disilluso della primavera berlinese del 1929, Pirandello chiuderà «in quattr’ore di fervidissimo lavoro»18 notturno Questa sera si recita a soggetto. Si tratta indubbiamente di una delle maggiori invenzioni drammaturgiche pirandelliane e di una delle più ambiziose, quella che propone, in un fuoco d’artificio di meccanismi di straniamento e in termini esplicitamente metateatrali, il suo ultimo contributo a un’idea del teatro, e che contiene, proprio nel finale, persino una sfida teatralizzata ai nuovi maestri della regia. In forza di queste intenzioni e ambizioni, la novella utilizzata come favola drammatica, «Leonora, addio!», viene riassunta, analizzata, smembrata e smontata nel laboratorio teatrale del dottor Hinkfuss come un qualsiasi pretesto, il fine propriamente teatrale essendo il montaggio dello spettacolo e non la rappresentazione di un testo. Ma proprio al finale della novella deve corrispondere il finale della commedia, quello in cui la vita nascente dal demone dell’arte deve prorompere e animare di vita il teatro, che non ha da essere soltanto spettacolo per gli occhi e non deve «manomettere tutto per ottenere un effetto», né può «scherzare con le passioni». Si spiega allora che la novella scelta a questo scopo sia un piccolo congegno narrativo perfetto nello sgranarsi crudele degli scatti evenemenziali che lo fanno muovere verso la fatale catastrofe. Rispetto alla grandiosa macchina drammaturgica di Questa sera si recita a soggetto, la novelletta del 1910 è un carillon apparentemente fragile e destinato a venirne stritolato. Questo non avviene, e Pirandello non vuole che avvenga, perché egli non riutilizza «Leonora, addio!» come un testo di servizio, ma appunto come archetipo dell’incandescenza emotiva che arde i personaggi-attori, come la fonte sorgiva e autentica dell’energia drammaturgica capace di produrre «il vero teatro». È futile e fuorviante considerare il racconto di vent’anni prima come la fonte o come uno spunto per Questa sera si recita a soggetto, e ugualmente futile guardare a Questa sera come a uno sviluppo della vecchia novella. Il testo del 1929 racconta, alla maniera di Pirandello, due storie che la grande fabbrica teatrale intreccia (vorrei dire emulsiona) indissolubilmente: la querelle del teatro contemporaneo e la storia di un dramma siciliano della gelosia. La natura arcaica, marginale e inattuale (e anche perciò archetipica) di quest’ultimo è probabilmente uno dei fattori che hanno fatto cadere la scelta su «Leonora, addio!» anziché sulle moltissime altre storie di cui Pirandello avrebbe potuto disporre; ma indispensabile è aver chiaro che «Leonora, addio!», frutto perfettamente maturo della maestria narrativa di Pirandello e racconto che nel 1928 egli aveva incluso senz’altro nel dodicesimo volume delle Novelle per un anno, non prepara né prefigura affatto la commedia del 1929, e che Questa sera si recita a soggetto non è, se non in ultima istanza, una teatralizzazione della novella.
Torniamo, ora, al 1903. Pirandello vive a Roma continuativamente da più di dieci anni; è sposato da nove, ha tre figli di otto, sei e quattro anni. Da quando, nel 1892, è tornato laureato da Bonn, ha scritto due romanzi e una sessantina di novelle. Dal matrimonio in poi, la sua famiglia, che è la famiglia di un giovane letterato non celebre il cui unico e insufficiente reddito proviene da un incarico di insegnamento, ha potuto vivere senza ristrettezze grazie ai sussidi paterni (gli affari di Stefano Pirandello erano stati prosperi in quegli anni) e alla rendita che alla moglie veniva da alcuni beni amministrati dal padre di lei, cospicuo commerciante, e dalla dote investita nelle imprese del suocero. All’inizio del 1903, una falda d’acqua sfonda e allaga la grande miniera di zolfo che il padre di Luigi gestiva presso Aragona. Male aggiunto al male, la lettera che annunciava la sciagura viene ricevuta e letta dalla moglie di Pirandello, allora trentenne, che alla notizia viene colpita da una subitanea paresi alle gambe. Nel giro di qualche mese il sintomo rientrerà, ma l’isteria farà posto ai prodromi di una forma di paranoia ben più grave, incurabile. Un anno più tardi Pirandello scriverà all’amico Angiolo Orvieto: «Una grande zolfara, che dava a mio padre e a tutti noi l’agiatezza, s’è allagata, e l’allagamento ha prodotto danni per più di quattrocento mila lire. La sciagura non è del tutto irrimediabile. Mio padre ha già speso in un anno circa duecento mila lire per la costruzione d’un acquedotto e d’un piano inclinato. Ora la zolfara comincia a votarsi, ma ci vorrà per lo meno un altr’anno, prima che si riprenda l’estrazione del minerale. Intanto io son rimasto… con tre figliuoli e la moglie… immagina tu in quale stato! Il misero stipendio di professore straordinario all’Istituto Superiore mi basta appena per pagar la pigione di casa».19 A questa spiegazione, segue la confessione di aver mandato una novella a «La Riviera Ligure» anziché al «Marzocco» per averne un compenso di venticinque lire, e la richiesta, imbarazzatissima, di un identico trattamento da parte della rivista fiorentina. Fino ad allora, Pirandello aveva dato a stampare gratuitamente le proprie cose.
Ho aperto questa finestra biografica sull’anno terribile al solo scopo di far presente come l’attività letteraria di Pirandello, che a quell’altezza vuol dire attività esclusivamente novellistica e romanzesca, sia da quel momento, e per molti anni a venire, indissolubilmente legata alle necessità economiche. Il bilancio familiare per l’anno 1904, che si può leggere in fondo al Taccuino di Coazze,20 elenca insieme i proventi dello stipendio e dell’attività di commissario d’esame e quelli delle collaborazioni letterarie. Cosa ovvia, se vogliamo; ma che consente di capire fino in fondo che cosa Pirandello volesse dire quando, nella lettera di cui sopra, diceva anche: «Io purtroppo, caro Angiolo, non solo non voglio riposarmi, ma non posso, non posso più», e che cosa in seguito vorrà dire la sua incessante battaglia per stampare e ristampare, per pubblicare rapidamente su riviste e quotidiani le novelle che veniva componendo a ritmo serrato e per raccoglierle prima possibile in volume. Il pittore di storie dipinge per vivere e le raccolte, prima di diventare museo da rivisitare, sono mostre messe insieme, qualche volta alla buona, per vendere qualche tela in più. Questa dimensione pratica e cogente non va persa di vista: non c’è solo la libera creatività del talento dietro le tante storie scritte, non ci sono solo ragioni artistiche, elettive affinità tematiche e moventi narrativi a promuovere le scelte compositive di questa o quella raccolta. Se nel 1906, messo nel frattempo a catalogo anche un primo capolavoro, Il fu Mattia Pascal, Pirandello avrà scritto quasi cento novelle e ne avrà riunite in sei volumi già 52, questo si dovrà certo alla sua vena straordinaria, ma anche ai vincoli stringenti di una famiglia da sostentare col proprio lavoro, senza altri sussidi.
Valsero tuttavia anche ragioni ideali ed estetiche a far sì che, una volta affiorato, il magma narrativo scorresse in rivoli così densi e numerosi. E ne valsero, credo, due su tutte. La prima è una convinzione, una ratio, cui Pirandello dette in progresso di tempo anche una dimensione per così dire teorica: la visione umoristica della realtà. Nella tradizione critica ne è stata costantemente sottolineata, e fin troppo enfatizzata, la curvatura cui Pirandello per primo ha attribuito il massimo rilievo con tutta una serie di immagini e di divise. Prima, tra queste, il celebre “sentimento del contrario”, variamente riformulato sia attraverso il motto bruniano In tristitia hilaris, in hilaritate tristis, sia con la definizione dell’umorismo come negazione del comico attraverso il comico, sia tramite i titoli bifronti di più di un racconto e più di una raccolta. Tutto vero, ma esposto a rischi di schematismo e di rigidità, e suscettibile di farsi intrappolare in macchinette logiche delle quali Pirandello prima di tutti scorgeva il pericolo.
Il lascito più cospicuo e fruttuoso, e più moderno, della meditazione pirandelliana si coglie se della visione umoristica si afferra l’altro carattere fondamentale: l’energia di scomposizione, di disaggregazione, di disarmonizzazione, vorrei dire di fissione dell’uomo e delle sue intime vicende; energia che sconnette e scardina la presunzione di conferire senso e ordine al mondo narrandolo. L’autore umorista racconta dunque, strenuamente, il disordine, la dissociazione, lo smarrimento e la perdita di senso. Questa visione è anche ideologia, per Pirandello, ed egli è venuto formandosela a partire da molto lontano: il saggio del 1908 che la verbalizza e la razionalizza non giunge soltanto quattro anni dopo Il fu Mattia Pascal, che ne è già un frutto, ma dieci anni dopo la novelletta La scelta, che ne è il primo manifesto. Questa visione è, volendo evocare un modello che fu peraltro sempre fulgidamente presente a Pirandello, profondamente e radicalmente antimanzoniana. Nega infatti la possibilità di rivelare e dire la verità, raccontando una storia, e afferma, semmai, la necessità di mostrare le molte verità di una storia e le tante storie che una verità può produrre. La fiducia che soggiaceva alle storie esemplari e, istituzionalmente, ai racconti brevi o brevissimi in quanto exempla è caduta. L’esemplarità è un modello d’ordine, come la morale delle favole: rappresentano entrambe la verità che risplende come premio o come punizione della fictio. Al loro posto, per Pirandello, ci sono favole senza morale certa e novelle non esemplari, ossia racconti allegoricamente inquietanti, mai risolutivi. Mattia Pascal, che s’è illuso di andare in traccia della verità, è costretto ad ammettere d’essersi mosso imboccando fin da principio il bivio implacabilmente autoriproduttivo della menzogna, che fatalmente falsifica ogni cosa. Condannato a non poterla più dire, la verità appare a lui stesso «incredibile»; peggio: gli si rivela «una favola assurda, un sogno insensato». La visione umoristica determina l’esplosione della Storia e la sua disseminazione in storie innumerevoli, tutte mutilate da quell’esplosione, tutte a loro modo amleticamente o macbettianamente assurde e insensate. L’irrefrenabile pluralità delle storie nasce anche da qui.
La seconda ragione, che sta alla base della proliferazione narrativa che per tanti anni ha tenuto in scacco e in quarantena la pur forte e precoce vocazione teatrale pirandelliana, è una petizione d’ordine per così dire estetico, un orgoglio autorale che Pirandello domò a fatica, e mai del tutto. L’esperienza di scrivere per il teatro aveva di fatto preceduto quella narrativa. Egli aveva più volte provato a offrire ad attori e capocomici le sue «scene siciliane» e L’epilogo, e aveva visto accendersi entusiasmi passeggeri e prevalere poi disinvolte dimenticanze, reticenze, dilazioni sine die. Aveva toccato con mano, insomma, il pragmatismo spicciolo dei mestieranti del teatro, per i quali i testi ridiventano mezzi e che perciò li valutano in termini di previsioni di successo o di insuccesso e come occasioni utili o meno a questo o quello per primeggiare. E pian piano aveva preso consistenza nella sua mente un’idea dei diversi ruoli che intervengono nella creazione e poi nel destino vitale dell’opera d’arte. Un ruolo, il primo, il suo, era quello dell’autore, di colui cioè che concepisce e realizza l’opera e che la consegna finita, perfetta, a un editore e ai lettori oppure, se di teatro si tratta, agli esecutori. Ed era venuto maturando la persuasione che anche in quest’ultimo caso, nel caso del teatro, la creatura uscisse dalle mani del creatore intera e compiuta in ogni suo particolare, pronta in tutto e per tutto per essere esposta e rappresentata. Nulla poteva esserle aggiunto e niente le si poteva togliere. Se vogliamo, possiamo dire che pensava il teatro con la mentalità estetica di un narratore o di un artista figurativo. Di conseguenza – già se ne accennava – cominciò a vedere nei direttori di compagnia, negli attori, negli scenografi, più tardi nel regista (figura nuova che si faceva avanti), dei traduttori e degli illustratori che, per un verso, sull’integrità dell’opera non avevano diritto d’intervenire, per un altro ne minacciavano continuamente, con le loro manchevolezze o la loro genialità e bravura, l’autenticità stabilita una volta per tutte dal creator spiritus dell’autore. Questo è quel che ho chiamato orgoglio autorale, un orgoglio che il teatro quasi inevitabilmente mortifica e che la scrittura narrativa viceversa esalta.
Rifiutato inizialmente dal teatro e dai teatranti, Pirandello trova compenso nell’autorità piena e inconcussa che all’autore e ai suoi delegati riconosce costituzionalmente il racconto. Dopo il 1909, anno in cui comincia a collaborare al «Corriere della Sera», Pirandello dovrà in più occasioni sperimentare i limiti pratici che a quella autorità assoluta possono imporre la proprietà e la committenza; ma intanto l’arte del raccontare avrà avuto tutto il tempo di gratificare con molte soddisfazioni l’orgoglio dell’autore e la sua libertà di travestire e infiltrare nel mondo narrato i suoi portavoce, le sue spie, i suoi alter ego sotto i panni di narratori critici e interpreti o di personaggi plenipotenziari privilegiati. Si capisce bene cosa Macchia voglia dire quando sostiene che, a differenza di quel che accade nelle Mille e una notte, nei racconti di Margherita di Navarra o nel Decameron, sillogi o libri che una ferma cornice e la «voce di chi racconta» tengono uniti e rendono compatti, nel corpus pirandelliano delle novelle «nessuno parla, nessuno racconta». Si capisce, e in quel senso ristretto è vero. Più in generale, però, non solo non è vero affatto, ma è l’esatto contrario a essere vero: nella ridda delle tante storie, tutti parlano e tutti raccontano, e l’affollato e plurale mondo delle novelle è caratterizzato anche dalle innumerevoli voci che narrano, che commentano, che interpretano e smantellano interpretazioni altrui, che sembrano a volte voci ventriloque di protagonisti fino all’istante in cui, con un atto di parola minimo, separano la propria sorte di personaggi esclusivamente parlanti da quella dei personaggi che parlando agiscono e soffrono. Le novelle sono anche il luogo di questa dissonante polifonia di atti di narrazione, camera di compensazione (vastissima e piena di echi) per l’apnea autorale silenziosa che il teatro aveva per il momento felicemente negata a Pirandello e che più tardi egli avrebbe mostrato spesso di patire, se è vero, ad esempio, che il Lamberto Laudisi che inventerà nel 1917 per Così è (se vi pare), bizzarro non-personaggio e protagonista fatto quasi solo di parole, è un po’ la teatralizzata quintessenza delle tante voci, spesso anonime, che nel corpo novellistico si mettono al nostro fianco e narrano le storie, come ciceroni iscritti nel quadro. Non c’è d’altronde novellatore che non debba anche fingere, per narrare, personaggi che sono innanzitutto voce e parola. Nella interlocutività e dialogicità della vita quotidiana, chiunque parli, tanto più chiunque scriva, presume la propria trasparente e intera presenza nelle cose che dice e nel modo di dirle; ma intanto, senza affatto voler fingere o mentire, si finge e scolpisce il proprio profilo in quella capocchia di spillo che è il pronome «io», che altro non è che il simulacro pensato, verbale o scritto dell’identità di colui che scrive o parla. Nel racconto, questo ineliminabile fenomeno del comunicare per mezzo della parola si fa arte e invenzione, e uno scrittore di racconti, oltre che disegnare un’infinità di attori e di maschere, che sono i protagonisti delle storie, istituisce anche una vasta galleria di personaggi che, da dentro quelle storie oppure da fuori, le narrano; che sono lì per questo.21 Questi personaggi hanno il compito di ricostituire e assumere su di sé, fittiziamente, la naturale oralità del raccontare e il gesto comunicativo di chi narra ad altri una vicenda. Sono questi i ciceroni cui alludevo. Sono accompagnatori obbligati, indispensabili e irrecusabili (poiché nella realtà quotidiana, come in letteratura, non c’è storia raccontata senza qualcuno che la racconti), discretissimi a volte e pressoché invisibili, e a volte invece ciarlieri e insinuanti, e dotati di una identità corposa, ricca di tratti, caratterizzata con una intensità non inferiore a quella dei personaggi protagonisti. Uno alla volta, sono loro a guidarci nel dedalo delle tante vicende, loro a sollecitarci a proseguire o a invitarci a sostare. Ciascuno di loro è il custode e il depositario esclusivo di una storia, e raramente incontriamo qualcuno di loro una seconda volta, alla soglia di un’altra vicenda. Sono loro, con la loro voce, a illuminare per noi le scene, a disporvi i personaggi, a farli agire. Senza di loro ci sarebbe soltanto buio e silenzio, non esisterebbero storie perché non esisterebbe affatto la narrazione. Se noi diventiamo visitatori assidui del loro museo di storie, finiamo per acquisire un vantaggio sulla loro conoscenza, totale ma esclusiva, di una singola vicenda e per saperne, per così dire, più di loro, per conoscere, cioè, anche le storie che ognuno di loro, preso singolarmente, non sa. Ed è anche così che i singoli e separati ritagli di mondo che essi ci mostrano si compongono, nella nostra memoria, in un mondo raccontato entro il quale sappiamo a ogni istante dove siamo e dove non siamo.
Nel ricalcarla, non desidererei che la sottolineatura di questo fenomeno venisse recepita soprattutto, o addirittura esclusivamente, nella sua valenza narratologica, sebbene ogni singola voce narrante e la loro virtuale coralità siano anche un fenomeno innegabilmente e a pieno titolo narratologico. C’è una ragione più forte e più gravida di senso, quando si parla di Pirandello, per suggerire ai lettori delle sue novelle un ascolto particolarmente attento delle voci affabulanti. Questa ragione si chiama umorismo. Quest’ultimo è un registro specifico o una maniera peculiare di predicare la realtà e di raccontare storie, è un modus dicendi che non si accontenta delle relazioni normali e prevedibili, e che come tali si offrono a un facile riconoscimento, fra le cose e fra cose e parole; che perciò, mentre smonta le relazioni tra fatti e le rimonta in modo bizzarro, o alla rovescia, in certo modo strania di continuo le parole con cui predica quei fatti e ne descrive le relazioni. Ciò che vale per gli spostamenti metonimici, o per i cortocircuiti metaforici in termini di singoli segni o di sintagmi, vale in una certa misura per l’umorismo in termini di discorso e di racconto. A scanso di equivoci: il discorso umoristico non è né metonimico né metaforico, ma opera per spostamenti e slogature, tramite impreviste associazioni disgiuntive e legami per dissimilia. Mostra le cose sotto una luce radente e inattesa e, per mostrarle, adopera le parole come se fosse la prima volta: in questo senso si diceva che strania senza sosta.
Non tutto è umorismo in Pirandello. Anzi, l’umorismo si nutre della linfa sottratta all’abbondante humus realistica che lo circonda e copre delle sue strane fronde un terreno concimato di realismo (Pirandello, memore di un poemetto pascoliano e di Heine, ha detto che «come un vischio maligno, si sveglian le idee e le immagini in contrario» e che «la pianta sorge e si veste d’un verde estraneo e pur con essa connaturato»);22 e la diversità umoristica è esaltata proprio dallo sbalzo che il fondo realistico le conferisce, poiché l’umorismo non nega né occulta la realtà, e tanto meno ambisce a istituire una realtà altra: esso denuda la realtà predicandola altrimenti e svelando come il realistico sia non la parola che fedelmente aderisce al nudo e crudo reale, ma un guardaroba codificato e ossificato di maschere del reale: maschere ideologiche, concettuali, morali e maschere verbali. Il realistico parla una lingua che rispetta e riflette quelle maschere, che le riproduce; e da sé non potrebbe smascherarsi. L’umorismo è appunto lingua viva capace di scalfire la dura porcellana di quelle larve, e l’umorista è la voce in grado di articolarla e modularla. L’umorismo è dunque atto di parola che tende sempre a essere soggettivo e discorso che non oblitera mai (mai fino in fondo, a ogni modo) l’istanza che lo proferisce. Pirandello, che s’è sforzato a suo modo di definirlo (di fatto fornendo, per exempla e per perifrasi descrittive iterate e variate, non una persuasiva definizione ma una lussureggiante e preziosa dchiarazione di poetica), si sarebbe adontato dinanzi a un’immagine dell’umorismo come fatto di linguaggio e di parola, perché l’avrebbe considerata una riduzione di esso a retorica. E per lui la retorica era tecnica scolastica appunto da retori, ossia da ciarlatani esperti del parlare ore rotundo, ed era un veleno capace di uccidere ogni arte e ogni poesia.
Era l’opinione sua e, un po’, quella del suo tempo: Benedetto Croce, suo nemico storico (ancorché sdegnoso), non era molto lontano da lui nello sceverare puntigliosamente la poesia dalla letteratura come il grano dal loglio. Oggi, nel parlare dell’umorismo come di un modus loquendi, possiamo tranquillamente riconoscere che esso, senza essere retorica, implica una retorica e, se così volessimo dire, una retorica dell’antiretorica, il cui bersaglio primo è la retorica del realismo o, meglio, il realismo come retorica occulta. Implica una retorica in quanto il realismo, e tanto più il naturalismo, sembravano avere la pretesa di mostrare la realtà senza parlare,23 ossia di scrivere parole che erano le cose stesse. L’umorismo ugualmente ambisce a cogliere la realtà, ma la ritiene molto più complicata, ingannevole e renitente a mostrarsi; non crede affatto che le cose stesse, gli eventi e gli uomini soprattutto, si scoprano alla pur meticolosa osservazione nella loro verità, ma piuttosto nella loro realistica apparenza. Per l’umorista, le segnature non sono iscritte nelle cose: è lui a dover segnare e incidere le cose per farne colare almeno una porzione di verità e renderle più comprensibili. È per questo che, parlando nel 1905 di Alberto Cantoni, Pirandello lo definiva «un critico fantastico» e aggiungeva che tale è «ogni vero umorista».24 E l’unico strumento di cui l’umorista disponga a quel fine è la parola, ma non la parola-riflesso, l’illusoria parola che pretende di far parlare le cose, bensì la parola soggettiva che, per penetrare dentro le maschere mute delle cose, le scava e le trapassa parlandole. Non è questione di «soggettivismo e oggettivismo nell’arte narrativa» (problema di estetica e di storia delle poetiche che Pirandello aveva affrontato nel 1908); è che, essendo quella dell’umorista una fantasia critica e l’umorismo racconto critico della realtà, la marca soggettiva che l’aggettivo contiene (nonostante tutte le responsabilità e le utopie d’obiettività di cui è stata gravata l’attività giudicante del krínein) tende naturalmente a tradursi nella soggettività del discorso umoristico. Non esiste umorismo in natura, non esistono una figura, uno spettacolo, un evento, una situazione che possano esser detti di per sé umoristici; l’umorismo consiste soltanto nel discorso con cui qualcuno predica una situazione, un evento, un’immagine, una creatura.
Nell’unica, emblematica novella del 1908, l’anno dell’Umorismo, si legge di un certo Bonaventura Camposoldani (il cui nome è già un programma) che protegge un vecchio, tale Bencivenni (e, in barba al suo nome, gliene era incolto malissimo), da lui soprannominato, a torto e a ragione, Geremia, «perché veramente il povero vecchio meritava d’essere protetto: reduce dalle patrie battaglie, superstite di Villa Glori e – per modestia – morto di fame».
È tutto assolutamente vero, ma il discorso di chi racconta ha scucito la realtà di quei fatti e la ricuce (con quel «veramente» testimoniale e asseverativo, che è di chi vuole si creda che sta parlando con la mano sul cuore; con quelle «patrie battaglie» in cui si sente riecheggiare la retorica bolsa dei rituali commemorativi; con il sarcasmo tanto più feroce quanto più ellittico di quell’inciso causale, «per modestia») in maniera tale che essa non ha più nulla di realistico e svela viceversa la verità paradossale del reale. Potrebbe essere pateticamente realistico che un uomo scampato all’olocausto eroico delle camicie rosse di Menotti Garibaldi sia restato per modestia un miserabile; è invece pienamente umoristica la sorte ossimorica di quel «superstite di Villa Glori […] morto di fame». Nel passo in questione, il discorso appartiene per intero all’istanza narrante, ma mantiene volutamente una certa equivocità, come se la scrittura volesse veicolare, sovrapposte e a bella posta mescolate, l’ottica del narratore, esterna, e quella, interna e del tutto diversa, di Camposoldani. L’umorismo scaturisce anche da questo, e dal valore completamente differente che le parole e le espressioni virtualmente hanno a seconda che si attribuiscano al personaggio o a chi narra. Il gioco si prolunga nel capoverso successivo: «A voltare la pagina, un po’ sciocco era anche stato, per dire la verità. S’era presa in moglie la vedova d’un suo fratello d’armi morto a Digione; s’era tirati su quattro figliuoli non suoi; la moglie dopo cinque anni gli era morta; i tre figliastri, appena cresciuti, lo avevano abbandonato; ed era rimasto solo, così vecchio, nella miseria, con la figliastra femmina, amata come una figlia vera». Anche senza il preambolo giudicante, il realismo dei fatti patirebbe una forzatura dall’iperbolicità degli stenti e delle sventure del povero Geremia; ma quel preambolo ribalta davvero il mondo. Umoristica è qui proprio la gratuita assiomaticità del giudizio, la scucitura evidente tra quest’ultimo e i fatti. Il narratore autentica quasi a malincuore la stolidità del vecchio patriota; la dà però per accertata al di là di ogni dubbio dal suo comportamento e dalla conseguente catena dei casi della sua vita. La via crucis di Bencivenni potrebbe benissimo essere la vicenda di un uomo di cuore, generoso e sfortunato. Rievocata come la prova provata della sua sciocchezza, la realtà di quell’esistenza resta la medesima ed è nel contempo tutt’altra. Non cambiano i fatti, è il loro segno a risultare invertito a opera esclusiva della voce che li racconta criticamente, ossia umoristicamente. Il narratore, non coinvolto ed estraneo alla storia narrata, ha fin da principio ritratto il Camposoldani come un uomo «addestrato meravigliosamente» a prendere all’amo gli uomini attratti da un qualche ideale, consentendo in tal modo di inferire con facilità che cosa un simile personaggio pensi di uomini vissuti per intero nell’aura di un grande ideale. Per uno come lui non fa davvero specie che un patriota eroico e modesto sia un morto di fame, ed è sicuramente uno sciocco chiunque dall’amore e dal sacrificio abbia ricavato solo dolori e nessuna ricompensa. Scaltro venditore di fumo, Camposoldani può solo compiangere, e compiacersene, un uomo che non ha saputo vendere neppure l’oro puro della sua sincera dedizione alla patria e ai figli. E il narratore? Si tiene in disparte, riferisce fedelmente senza curarsi di smentire, dal momento che, a fare bene attenzione, deve essere già chiaro che l’ottica ciarlatanesca di Camposoldani è tanto sicura di sé quanto invalidabile da capo a fondo.
A fare bene attenzione, appunto. E proprio questa attenzione è necessaria per leggere come va letta, e per interpretarla, la parola umoristica, che è polifonia spesso sfuggente, contrappunto abile di voci e di silenzi, rotazione ingannevole o ellittica di ottiche, ed è più di qualche volta un non detto carico di senso. Poiché si parla di narrativa, le storie sono ovviamente importanti ma, essendo l’umorismo un modo di narrare storie, nel racconto umoristico la tessitura delle voci e le differenti angolazioni delle diverse istanze parlanti assumono un rilievo tutto particolare. Se è vero, come è vero, che nella narrazione le modulazioni enunciative non sono mai prive di ricadute sul piano del senso, nella narrazione umoristica pirandelliana la spettroscopia complicata e sofisticata delle focalizzazioni, la spartizione e il rimescolamento dei ruoli tra chi guarda, chi pensa e chi parla, la sovrapposizione straniante e plurivoca dei punti di vista sono elementi che concorrono in misura rilevante alla determinazione del senso. Una lettura che a essi non presti una sufficiente attenzione è destinata al fraintendimento. Il modo umoristico di raccontare è così vivido, colorito, efficace e penetrante da dare l’impressione di poter toccare con mano non la facies aspettuale della realtà ma la grana palpitante della sua nudità: come dire che, per via di torsione espressiva e di straniamento, l’umorismo ottiene inusitati effetti di reale. Ma li ottiene enfatizzando non la mimesi, ossia la trasparenza dell’adesione alle cose, ma al contrario la diegesi, l’atto di raccontare le cose, il parlato della narrazione.
La messa a fuoco umoristica ha bisogno, per ottenere la sua fotografia critica del reale, di estendere la profondità di campo e di far sì che sia percepibile la distanza fra narrare e narrato, che sia sempre palpabilmente presente a chi legge la mediazione verbale di chi racconta, mediazione sempre orientata e orientante, dunque mai neutra. Come qualunque narratore, il narratore umorista parla; ma, a differenza di narratori di altro tipo, non si propone che il fascino ipnotico della sua affabulazione faccia dimenticare a chi ascolta che qualcuno sta parlando. Va da sé che ascoltare una storia facendo poca attenzione a chi la racconta significa in tutti i casi non capirla bene e spesso scambiare una storia per un’altra, poiché, come anche il Genette narratologo ci ha insegnato, «la narrazione, orale o scritta, è un fatto di linguaggio, e il linguaggio significa senza imitare».25 In presenza di un narratore umorista, per intendere la sua favola, è sempre necessario chiedersi fino in fondo chi sia colui che narra, dove si collochi, come la pensi, perché voglia raccontare quella storia e perché abbia scelto di narrarla umoristicamente. Rispondere a queste domande è spesso interessante e illuminante quanto ascoltare la storia, dal momento che la narrazione umoristica a fortiori significa senza imitare: significa però parlando, e la parola viva determina rumore assai più facilmente della parola realistica e oggettivante, se non si bada a come parla chi narra e non si è attenti a cogliere la pluralità delle voci stipate nella scrittura.
Si ricorderà l’insistenza con cui Pirandello sottolinea la controtendenza dell’arte umoristica a disaggregare e scomporre ciò che la scrittura non umoristica si sforza viceversa di amalgamare e ricondurre a unità. Ebbene, non si sottolineerà mai abbastanza la funzione che, nel suo personale guardaroba dell’eloquenza umoristica, svolge la dissonante polifonia della parola soggettiva. Un narratore che non si pretenda umorista può scegliere di fingere la propria assenza o il proprio silenzio sprofondando e occultandosi nella impersonalità e imperscrutabilità della propria stessa onnipresenza e onniscienza. Non così l’umorista, e tanto meno il narratore umorista pirandelliano, la cui discorsività, pur prendendo in certo modo sempre spunto dall’ottica e dalla parola altrui, non evita e non nasconde una marca personale. Il narratore pirandelliano è quasi sempre l’Altro rispetto ai personaggi narrati e si colloca il più delle volte altrove rispetto a loro, fuori dal mondo della loro storia, o almeno in disparte. E tuttavia la parola sua, non oggettiva, si fa ben sentire accanto o insieme o di contro a quella dei personaggi. A differenza di quanto avviene nella narrazione genericamente definibile come realistica, la terza persona del racconto umoristico, pur frequente, contiene, e non cela, una prima persona parlante oltreché narrante.
E c’è di più: il mondo narrato pirandelliano propone un alto numero di personaggi che hanno il privilegio di coprire con la propria ottica, dunque in termini di focalizzazione interna, estesi e decisivi segmenti di racconto. È un privilegio che simili personaggi, in quanto tali, pagano di norma a carissimo prezzo, poiché il controvalore della loro superiore veggenza e intelligenza delle cose e degli uomini è la loro più profonda e disincantata infelicità. Ebbene, anche nell’ambito di questo trattamento particolarmente delicato e insinuante della connivenza fra modo del racconto e voce, quando sembra che la parola narrante aderisca, come un guanto trasparente e invisibile, allo sguardo del personaggio, alle sue sensazioni e alle sue percezioni-interpretazioni del reale, piccole increspature o arricciature del tessuto linguistico rendono visibile la guaina focalizzante e, con essa, l’istanza vocale altra che presta la parola a quello sguardo e alle vibrazioni di quella muta intimità. Fatte salve le parti dialogiche riportate per mezzo del discorso diretto (e neppure queste del tutto, poiché la gerarchizzazione dei ruoli nel racconto riserva comunque all’istanza narrante un’autorità specifica e indiscussa), il discorso del racconto tende a creare naturalmente l’illusione vocale dell’univocità. Ma, appunto, l’umorismo non è l’arte della parola univoca, che può essere ironica, parodica, satirica, sarcastica e dirigere a suo piacimento, attraverso il comico, gli strali del ridicolo, ma non è umoristica. L’umorismo, arte che, nell’atto stesso del mostrare, disgrega e scompone, si giova e ha bisogno dei discordi stridori della parola plurivoca; si fonda, anzi, sulla raffinata arte discorsiva che consente di sfogliare come sottili veli di cipolla i discorsi altrui veicolati dalla parola apparentemente compatta di chi racconta. Il narratore umorista pirandelliano è un maestro nel far trasparire dalla propria parola, insieme alla propria voce, la plurivocità delle parole altrui, con i significati altri che le medesime parole assumono nell’ottica di questo e quel personaggio, oltre che nella sua. Nella voce affabulante del passo da cui abbiamo preso le mosse c’è per intero la parola di chi narra (e detiene la verità della storia) ma anche la compiaciuta parola commiserante e mendace del fatuo protettore; e nella catena degli eventi che le parole rievocano c’è anche, doloroso e silenzioso, tutto intero il personaggio di cui si parla; non la sua parola, nel caso, poiché proprio a essa, che pure sarà sempre stentata, balbettante e fraintesa, sarà infine affidato il compito supremamente importante di porre fine al racconto e di sigillarlo con la chiarezza e l’autorevolezza che la morte avrà conferito al messaggio dello pseudo-Geremia.
Fissiamo brevemente l’attenzione sul 1906 – già in precedenza evocato come provvisorio terminus ad quem – e potremo subito avvertire che i titoli delle raccolte svelano qualcosa di importante. Sono Amori senza amore, Beffe della morte e della vita, Quand’ero matto…, Bianche e nere, Erma bifronte. Il primo è un ossimoro quasi perfetto, il secondo e il quarto fanno stridere i contrari mettendoli in congiunzione, il terzo e il quinto evocano stati opposti e reciprocamente esclusivi: la follia e il senno, il visibile e il suo rovescio, il davanti e il dietro. Messi in serie, connotano, persino con dovizia, la contraddizione e la relazione di contraddizione.
Fin dal principio, dunque, la contraddizione è la stella doppia che presiede all’universo narrato pirandelliano e che sprigiona l’energia che lo muove. E quel mondo sarà perennemente attraversato da conflitti polari non risolvibili, da istanze contrarie non conciliabili, da valori contrapposti che simultaneamente vigono e guidano le azioni dei protagonisti. Sarà perciò un mondo fobico e chiuso, nel quale i personaggi sono tutti reclusi che cercano una via di scampo e di fuga, ora vanamente tentando di sfuggire a un corno della contraddizione col correre ciecamente incontro all’altro polo, ora sottraendosi alla coazione ripetitiva e alla costrizione per la via del nulla e con la morte, ora implacabilmente imponendosi un’autodisciplina di immobilità che li tiene bloccati e sospesi fra le due istanze irriducibilmente contraddittorie. E la più fondante delle contraddizioni è quella dei contrari per eccellenza, la vita e la morte. Ma è la loro stessa definizione e la loro marca assiologica a costituire la più profonda e sommersa delle relazioni contraddittorie. Il corpus oscillerà senza sosta tra un inno alla vita e un complementare elogio della morte, tra un desiderio e una paura della vita la cui intensità e ricorrenza sono pari al desiderio e alla paura della morte. La vita è ora bene supremo, anelito primario, forza sacra e inesauribile, ora il peggiore e il primo dei mali, anzi il male per antonomasia: rapina irrefrenabile, voglia matta e bestiale, condanna antropologica senza risarcimento né fine. Complementarmente, la morte è ora termine insensato della vita, orrore del vuoto, immobilità fredda, pesante, insensibile, ora è leggerezza, liberazione, emancipazione, evasione, sogno di rinascita e di ricongiungimento all’unità indivisa e indistinta del cosmo. Da questi valori ancipiti della vita e della morte discenderanno altre coppie di contrari che la riproducono e infinitamente la replicano nell’ordine del reale e del soggettivo: l’anima e il corpo, l’identità e l’alterità, l’imperturbabilità e la passione, l’illusione e la realtà, la sincerità e la finzione, la follia e la saggezza. Anche il livello antropomorfo dei personaggi riprodurrà a suo modo questa duplicità ineliminabile e insuperabile, con l’enigmatica separazione e contrapposizione dei due sessi: l’uomo-morte e la donna-vita, prosopopea incarnata della contraddizione. La popolazione novellistica combatte e si dibatte in questa tagliola che la fa gemere e urlare oppure la fa ostinatamente, disperatamente ragionare; e sogna mondi mitici che ne siano liberi e immuni, sogna, cioè, contraddittoriamente, di non essere quella che è.
La contraddizione è di per sé relazione; rappresenta anzi la più indissolubile delle relazioni: quella fra un termine e il suo contrario. Ma Pirandello, narrando, incarnerà in un intrico di rapporti e di vincoli relazionali questa relazione tutelare. La soggettività dei suoi innumerevoli protagonisti non è più fondata su un solido pacchetto di attributi né su un robusto assetto dell’essere, essendo l’io plastico, friabile e divisibile, ma piuttosto su un fascio variabile di relazioni. Tizio non è più così e così, ma è così in rapporto a Caio e così in rapporto a Sempronio, e cambia col cambiare di quei rapporti. Non solo la vita è fatta di relazioni, ma l’essere sta nelle relazioni che intrattiene con gli altri e con la realtà, ed è preso nella contraddizione nella misura in cui contraddittorie sono le relazioni che lo vincolano. Il rimbaldiano «Je est un autre» può voler dire anche questo, tra le tante cose che vuol dire. L’io è continuamente minacciato di diventare altro nella trappola delle relazioni, e nel loro groviglio rischia di continuo di perdersi in tanti altri o di smarrirsi del tutto. Questa alterabilità e alienabilità dell’io troverà qua e là nel corpus pirandelliano formulazioni quasi filosofiche, quelle che si sono guadagnate la più larga fama e la maggiore memorabilità, ma la sostanza più viva e stimolante giace nella folta riproposizione narrativa della scistosità dell’io nel rapporto con se stesso e della forbice mutazione-persistenza aperta dalla natura relazionale dell’io.
Al di là dei titoli e delle loro veridiche profezie, nel 1906, attraverso un primo centinaio di esplorazioni narrative, anche due mappe sono già interamente e particolareggiatamente disegnate: quella girgentano-paesana e quella urbana e romana. Non sono il frutto di due stagioni della pittura pirandelliana, che configurerebbero allora una sorta di trapasso dall’isola al continente e dalla provincia profonda alla grande città. Non sono a rigore neppure l’esito di due differenti maniere. Sono piuttosto il prodotto naturale dell’osservazione simultanea di due aspetti dislocati ma conviventi del mondo, di una realtà che sta regredendo e marginalizzandosi, ma sussiste, e di un’altra che, sviluppandosi, si fa sempre più invadente e inclusiva. L’una si avvia lentamente a diventare culturalmente e antropologicamente l’arcaico, il superato; l’altra prefigura sempre più nitidamente l’orrore inquietante e privo di identità della modernità metropolitana. Pirandello, aiutato anche dai frequenti va’ e vieni fra la Sicilia e Roma, comincia prestissimo a dipingere alternativamente i due paesaggi e anche a scorgere, traguardandoli alla luce delle loro incomparabili diversità, certe recondite e imprevedibili analogie, come quelle che a un certo punto renderanno ad esempio comparabili, per quanto distanti nel tempo e nello spazio, le catapecchie della Nisia de Il libretto rosso e i brutti casoni in fondo alla Nomentana de La distruzione dell’uomo. Tre quarti delle quasi cento novelle già stampate nel 1906 sono ambientate a Girgenti-Porto Empedocle o a Roma, e le ricorrenze dei due scenari sono pressoché altrettante. Perciò parlavo di mappe. Perché il ricorso di luoghi e paraggi limitrofi fa sì che anche le storie che vi si svolgono paiano quasi debordare e insinuarsi l’una nell’altra e crea l’impressione che i diversi protagonisti si saluterebbero l’un l’altro incontrandosi per le strade della «città sul colle» o del paese «di mare» o per quelle di un rione di Roma. Impressioni, queste; miraggi della lettura. Ma la ridondanza che caratterizza il corpus non è un miraggio, è anzi uno dei fattori che valgono a costituire e a consolidare l’imago mundi rappresentata dal mondo narrato; ed è al livello di questa complessiva rappresentazione che la pluralità dei paesaggi e delle storie agrigentine da un lato, e quella degli scenari e delle vicende romane dall’altro, si compone in mappa precisamente disegnata e popolata di figure, ossia in vivente «mondo di carta». Dentro questa mappa animata, sul molo nuovo di Porto Empedocle, contemplano il mare sia il vecchio Ciunna che lo scalognato Bruno Celèsia, che la rassegnata Mirina Boccarmè, che lo spaesato Lars Cleen; al n. 112 di via Nomentana abita appunto il quasi cieco Valeriano Balicci di Mondo di carta, ma lungo quella via passeggeranno Federico Berecche e il signor Bareggi di Fuga, abitanti entrambi in una traversa (quasi certamente la via Antonio Bosio, dove Pirandello abitò), e passeggeranno anche i coniugi Porrella, pedinati dal filosofo omicida Nicola Petix, tutti domiciliati in una parallela del lungo viale, via Alessandria (altro indirizzo pirandelliano), che si spingeranno (come poi il Bareggi) verso la barriera nomentana (non lontano, se proprio si volesse ricordarlo, da Sant’Agnese, la parrocchia della signora Léuca di Pena di vivere così, da via Pietralata, dove Pirandello abitò, e da un’altra traversa del viale, via Onofrio Panvinio, dove lo scrittore, negli anni ’20, pensò di farsi costruire una casa dall’architetto-biografo Nardelli).
In questo senso, sostare e aggirarsi dentro un corpus di novelle è un po’ come prendere dimora in una città e circolarvi: per quanto ogni strada, ogni vicolo e ogni piazza possano avere, e abbiano anzi senz’altro, la loro fisionomia e la loro peculiarità, tutti fanno parte della città, e l’identità della città è fatta di tutte le vie e le case nelle quali non siamo, non meno che della casa o della strada nella quale per caso ci troviamo. Noi stessi vediamo e guardiamo gli edifici, la luce e i colori del viale o della viuzza che veniamo percorrendo, ma sappiamo anche dove siamo; sappiamo cioè anche che ci sono, e dove sono, le strade dalle quali proveniamo, quelle verso le quali ci dirigiamo, quelle che abbiamo altre volte percorse e che oggi sono fuori dal nostro tragitto. Sappiamo d’essere, insomma, in un punto preciso di una città; dunque, per sineddoche, del mondo.
Nel 1910 Pirandello stampa con i fratelli Treves una raccolta di diciassette novelle, nella quale, portatrice la novella che era stata scritta per ultima (nel 1907) e che apre il volume, affiora un titolo destinato a durare fino in fondo: La vita nuda. Se si volesse dire che egli ha dunque già pubblicato nel 1910 quello che nel 1922 sarà il secondo, e omonimo, volume delle «novelle per un anno», ci si scosterebbe pochissimo dal vero: il volumetto di Bemporad, infatti, non farà altro che dislocare Di guardia e La cassa riposta (allogate l’anno stesso ne L’uomo solo) e rifare la smazzata delle quindici restanti novelle, che dà questo esito: 1, 6, 7, 3, 9, 15, 5, 12, 11, 10, 4, 13, 17, 2, 16. Il rimescolamento è profondo ma, in fede, non mi sento di dire che sia anche significativo. L’evento, il primo del genere, pone a ogni modo un problema, che in questa sede posso solo aprire senza chiudere. Lo apro perché è uno dei quesiti che il corpo novellistico pone alla comunità degli interpreti e che quest’ultima non ha per ora evaso. Pirandello, come autore e padrone dei suoi testi, aveva il pieno diritto di porsi tale quesito e di risolverlo nel modo che più gradiva, come di non porselo affatto. I critici sono invece tenuti a chiedersi se fra la microunità testuale della singola novella e la macrotestualità del corpus continui a sussistere e a tornare a galla, renitente alla (dubitevole) volontà autorale dichiarata nell’avvertenza del 1922 (di cui si dirà più oltre), un’unità intermedia significativa, quella delle raccolte e, in particolar modo, delle raccolte che Pirandello pare aver confezionate una volta per tutte prima di porre mano alle «novelle per un anno», mostrando forse con ciò la persuasione che costituissero insiemi forti e coesi, armature macromolecolari che neppure lui ha più ritenuto di dovere o potere frantumare. È il caso de La vita nuda, ma ugualmente di Candelora (già presente per intero nella raccolta del 1917 E domani, lunedì…) e de Il vecchio Dio, come, in misura appena minore, de La rallegrata, di Dal naso al cielo e di Donna Mimma. Anche altri volumi delle «novelle per un anno» contengono nuclei di aggregazione consistenti che provengono da precedenti operazioni di raccolta, ma sono quelle indicate a porre perentoriamente la questione e a restare in attesa di risposte che, scaturite dallo sforzo accurato di capire se i corpi di alcune raccolte abbiano anche un’anima, porterebbero probabilmente qualche contributo ulteriore al tema già ricchissimo dell’intertestualità pirandelliana.
A La vita nuda segue, nel 1912, un’altra raccolta di diciotto novelle intitolata Terzetti. Ma la cosa che di questi anni non può non destare meraviglia è la produttività narrativa di Pirandello. Nel 1908, rivedutolo a fondo, ha stampato in volume L’esclusa, nel 1909 ha pubblicato in rivista due terzi de I vecchi e i giovani, nel 1911 ha mandato in stampa un altro romanzo, Suo marito. Intanto il teatro – quello dialettale per ora – diventa realtà: nel 1910 Nino Martoglio ha rappresentato a Roma Lumíe di Sicilia e La morsa. E infine, se si tiene conto del fatto che nel 1908 va a stampa una sola novella, nel quadriennio 1909-12, fra La vita nuda, che risaliva al 1907 ed era la novella più recente tra quelle accolte nel volume omonimo del 1910, e Ignare, che è il solo racconto del 1912 incluso in Terzetti, Pirandello pubblica anche 48 novelle nuove. Né il tour de force si arresta: quando, nel 1914, l’editore fiorentino Quattrini stampa la raccolta Le due maschere, alla quale seguono nel 1915 La trappola, presso i Treves, ed Erba del nostro orto (Milano, Studio Editoriale Lombardo), Pirandello mette a temporanea dimora nei due volumi 44 racconti, ma fra il 1913 e il 1915 ne ha prodotti anche altri diciassette. E nel contempo sono usciti l’edizione completa de I vecchi e i giovani e, a puntate sulla «Nuova Antologia», il nuovo romanzo Si gira…
Solamente dopo il 1915 la macchina narrativa rallenta sensibilmente in concomitanza con l’accelerazione vorticosa di quella della scrittura teatrale e con il tutt’altro impegno che richiede seguire il teatro; in concomitanza, anche, con le angosce della guerra. Sono ancora i Treves a pubblicare la raccolta E domani, lunedì… nel 1917, e l’anno dopo Un cavallo nella luna. Nel 1919 l’editore milanese Facchi ristampa Erba del nostro orto e pubblica la raccolta Berecche e la guerra, nella quale stampa per intero il racconto omonimo, i Colloquii coi personaggi e il Frammento di cronaca di Marco Leccio. Nel medesimo 1919 l’editore Battistelli stampa infine a Firenze il volume Il carnevale dei morti, l’ultima raccolta pirandelliana ad assemblare, anche se solo per due terzi, novelle non ancora incluse in raccolta. Gli ultimi due volumetti di Treves, Quand’ero matto… (ancora del 1919) e Tu ridi (del 1920) sono già interamente ripubblicazioni. Ormai, però, non circola soltanto il teatro dialettale pirandelliano: egli è l’autore di Pensaci, Giacomino!, Così è (se vi pare), Il piacere dell’onestà, La patente, Il berretto a sonagli, Ma non è una cosa seria, Il giuoco delle parti, Come prima, meglio di prima (l’opera che misteriosamente segnò il suo primo incontrastato successo). L’anno successivo, il 1921, sarà l’anno dei Sei personaggi in cerca d’autore, e il 1922 quello di un altro capolavoro, Enrico IV.
I capoversi di questo capitolo, affastellati di date, di titoli, di elenchi, sono faticosi e forse sfidano oltre il lecito la benevolenza del lettore. Sono a chiedere venia per questo supplizio aggravato da un complementare irrigidimento del discorso critico, ma anche ad impetrare pazienza, poiché siamo prossimi a illuminare un momento che ha deciso una volta per tutte – quantomeno fino a ieri – la sorte editoriale del corpus novellistico pirandelliano e, con essa, in misura certamente rilevante, quella della lettura critica. È mia ferma convinzione che l’inappellabile decreto autorale di cui stiamo per far cenno fosse da revocare da tempo, ma l’analisi di quel momento così cruciale non ammette scorciatoie, pretende meticolosità da chi la conduce, e dai lettori, purtroppo, una disponibilità e un’attenzione non lontane dallo stoicismo.
Si allude, beninteso, alla convoluta vicenda delle «novelle per un anno» e, sia per le conseguenze che se ne sono tratte in vista di questa ristampa commentata del corpus, sia al fine di non appesantire oltre misura la (pur relativa) scorrevolezza di questa introduzione, si rimandano cronaca e considerazioni critiche di quella vicenda alla successiva nota 1884-1936: novelle per mezzo secolo.
Ancora una cosa va detta, che riguarda invece proprio la porzione estrema della scrittura novellistica, quella che stabilisce una visibile deriva e segna oggettivamente e in modo patente un oltre rispetto all’orizzonte totalizzante delle «novelle per un anno» vagheggiato all’inizio degli anni ’20: intendo dire quella che è conservata nei due ultimi volumi della collezione Bemporad-Mondadori.
A suo luogo, si è accennato al minimo di produttività che contrassegna il periodo 1925-30. Non sarebbe arduo ricostruire le cause biografico-artistiche del fenomeno ma, ai fini di ciò che qui importa dire, assai più di quelle cause interessa il fatto che, venute meno o no che esse fossero, l’ultimo quinquennio di vita di Pirandello fa registrare una ripresa di creatività novellistica che ha quasi il carattere sorprendente di un ricominciamento.26 Il dato non può sfuggire neppure a chi non sia particolarmente interessato a problemi di periodizzazione critica ed è, nonostante le dimensioni quantitativamente contenute, quasi clamoroso. Lo è tanto più se si pone mente con la dovuta pacatezza al fatto che con Uno, nessuno e centomila deve considerarsi conclusa la scrittura romanzesca di Pirandello – è solo intenzionale il proposito, iteratamente espresso nell’arco degli ultimi tre anni di vita, di mettersi «al romanzo» –;27 che sono pulviscolo aureo, ma niente di più, le abbozzate Informazioni sul mio involontario soggiorno sulla Terra e che l’unico lascito teatrale di caratura assoluta degli anni ’30 sono gli incompiuti Giganti della montagna.