1 Pubblicata per la prima volta il 1° novembre 1896 sulla «Rassegna settimanale universale». Ristampata nel 1902 nella raccolta Beffe della morte e della vita (Firenze, Francesco Lumachi) e inserita infine, nel 1922, nel terzo volume delle «novelle per un anno», La rallegrata (Firenze, Bemporad). Manlio Lo Vecchio-Musti e Angelo Sodini, curatori, nel 1937-1938, di L. PIRANDELLO, Novelle per un anno, voll. 2, Milano, Mondadori (nella famosa Collezione «Omnibus»), poterono produrre, per i testi di cinque volumi dell’edizione fiorentina di Bemporad (cioè La rallegrata, L’uomo solo, La mosca, Donna Mimma e Il viaggio), una lezione «definitiva» predisposta da Pirandello in vista della nuova edizione. Nell’Avvertenza, premessa al primo tomo degli «Omnibus» (e che si può leggere riprodotta in NUAI, p. 1072), Lo Vecchio-Musti scrive infatti che esso contiene «otto degli antichi volumi; tre dei quali – La rallegrata, L’uomo solo e La mosca – riveduti definitivamente» e che il secondo volume «conterrà gli altri sette volumi: due dei quali – Donna Mimma e Il viaggio – riveduti». Si riproduce il testo fornito da Mario Costanzo sulla base della mondadoriana del 1937-38.
2 Soggetto grammaticale e protagonista dell’incipit, la luna è solo apparentemente un semplice elemento del paesaggio notturno; e l’atto di scrittura che la personifica e le dà voce è solo apparentemente un artificio retorico scolastico e trito. Come si vedrà (v. sotto la n. 30), l’immanenza di questa Ecate minacciosa che tutto vede ha un preciso valore di preannuncio e quasi di profezia narrativa funesta.
3 Posando a palma aperta.
4 Poiché nella letteratura i nomi non sono né gratuiti né ininfluenti rispetto al destino dei personaggi, non sarà superfluo rammentare che, nella stampa del 1896 ed anche nella successiva (1902), il protagonista si chiamava Liberto Ciunna. Non Libero e non Liberato, dunque: solo Liberto. Quel nome (caduto nella lezione del 1922) bastava a dire che egli, se anche aveva saputo affrancarsi dalla schiavitù combattendo per la libertà, non poteva aspirare alla condizione del nato libero.
5 Qui, sulla via notturna deserta di uomini, sono le foglie a sussurrare e mormorare alle spalle di Ciunna. Non è che una prima attualizzazione del ricorrente fenomeno per cui gli aspetti della natura oppure gli oggetti sono presenze contrastive importanti per i personaggi: talora mute e inanimate, e qualche volta impassibili fino all’ostilità, altre volte eloquenti e quasi vive nella loro dimensione di cose domestiche, e dotate allora d’una loro anima e d’un’apparenza di vita autonoma: il parere o il sembrare sono in questi casi i veicoli semantici più ovvi di questa congetturale antropomorfa soggettività degli oggetti-personaggio. Sull’autonomia e l’indifferenza della realtà cosale nei confronti dell’uomo, Pirandello si soffermerà a riflettere umoristicamente ne Le cose, la seconda delle quattro prosette che compongono, nel 1906, lo scritto Lucciole e lanterne, immaginario estratto del Commentario postumo di Mattia Pascal: «Un uomo su le furie, per uno dei tanti casi contrarii della vita, se nella momentanea cecità riesce ad avvistar su una mensola un bel vaso di porcellana, tranquillo come un padre abate, con la pancia dipinta a chiaro di luna, con le villanelle che danzano e il pastore che suona la cornamusa, volete che non lo rompa? Lo rompe, ed è scusabilissimo. / La nessuna partecipazione delle cose dette inanimate ai sentimenti che agitano l’uomo è davvero irritante. Tanto più che questa partecipazione, poi, avviene proprio quando non dovrebbe. Durante i terremoti, per esempio, le cose, che dovrebbero stare allora ben ferme e placide attorno all’uomo atterrito, sissignore, crollano, e, tante volte, lo schiacciano. / C’è poco rispetto per l’umanità. / Dovrebbe cangiare aspetto, la natura, di punto in bianco, secondo gli avvenimenti lieti o tristi e secondo gli umori degli uomini. Un uomo felice? e lei tutta ridente. Un uomo afflitto? e lei tutta imbronciata. / Se non che, da qual parte tenere, se c’è chi la vuol triste e chi lieta allo stesso tempo? / Niente, via! Bisogna che l’uomo faccia modestamente tutto da sé. La primavera e l’inverno se li cavi dall’anima per riversarli, a piacere, su le cose. Ma poi, per prepotenza, visto che gli alberi, ad esempio, vogliono esser belli soltanto d’estate, egli, se d’inverno sente freddo, li tagli, li accenda e si riscaldi. / Come si fa? Se ci dev’essere così poco accordo tra uomini e uomini e tra gli uomini e le cose…» (v. SPSVII, pp. 1050-1).
6 Appropriazione indebita di denaro appartenente ad una pubblica amministrazione a opera di un pubblico ufficiale che ne può disporre in ragione del suo ufficio.
7 Tabacco da fiuto (dal fr. râpé, “trinciato”).
8 Ciunna è il primo ex-garibaldino del mondo narrativo pirandelliano. La sorte avvilente, che tocca a lui come a tutti i suoi compagni di lotta, è amaramente emblematica del destino cui sono andati incontro, nell’Italia postunitaria, gli ideali del Risorgimento. Eponimo di questi eroi puri e orgogliosi, divenuti ingombranti e fastidiosi nel clima di compromissorio affarismo politico che caratterizza il paese, sarà in seguito Mauro Mortara, uno dei protagonisti de I vecchi e i giovani.
9 Scapolare consistente in un’immagine sacra trattenuta da due pezzi di stoffa e portata al collo come segno di devozione.
10 Per una variazione del medesimo spunto umoristico, v. Lontano, p. 648: «Si amano, si amano, senza pensare che i cefali, le boghe, i gronghi dello zio bestione non possono dal mare assumersi la responsabilità e l’incarico di fare le spese del matrimonio e di mantenere una nuova famiglia».
11 Senza guida né scopo, completamente disorientato. Nelle note, linguisticamente preziose, al poema eroicomico del secentista fiorentino Lorenzo Lippi, Il Malmantile racquistato (1676), si legge: «‘Restati come mosche senza capo’: cioè senza consiglio, direzione o guida, senza sapere che cosa avere a fare o risolvere, poiché questi insetti, scemi del capo, s’aggirano inutilmente, strascicando il restante del corpo senza saper dove» (GDLI).
12 Lo specchio sarà nel corpus un oggetto privilegiato in ragione delle soste riflessive cui spesso induce e delle conseguenti peripezie conoscitive cui dà luogo. In questa redazione ultima, che risale alla stampa del 1922, l’affioramento è ridotto a un elemento enumerativo pressoché insignificante. Ma così non era, venticinque anni prima, nella lezione originaria, che si sarebbe conservata quasi intatta anche nella ristampa del 1902 e che vale la pena di rammentare: «Nel farsi il nodo della cravatta, s’accorse nello specchio, per la prima volta dopo quindici giorni, d’essere un altro da quel che era o che pareva prima: la barba e i capelli bianchi sporchi, gonfi gli occhi e disfatti, le guance flosce e, ai lati del gran naso, due patine giallastre. / – Come ti sei fatto brutto e vecchio, Ciunna mio! / Provò un vivo intenerimento per sè stesso, un’immensa profonda pietà per quel suo vecchio corpo, che volontariamente, per disperazione, egli recava al mare come un fardello spregiato e inutile – plumf! laggiù… Si passò una mano su la fronte calva e chiuse gli occhi, che gli si erano riempiti di lacrime. Povero vecchio Ciunna! Brutto, brutto Ciunna! ma galantuomo però, ah sì, galantuomo! / – Tieni, ti dò un bacio, l’ultimo, e vado via, chè il cocchiere m’aspetta. / E nello specchio si baciò, abbracciando l’armadio» (v. NUAI, pp. 1289-90). Pirandello ha comprensibilmente eliminato, per coerenza di registro, la patetica scena allo specchio; ma di essa conviene serbare memoria, perché cospicuamente inaugurava, fin dal 1896, il gioco degli sdoppiamenti stranianti e delle ricomposizioni dell’io nonché le dolorose prese di coscienza, da parte del soggetto, della propria alterità-identità. Il bacio d’addio di Ciunna a se stesso sanciva in anticipo la contraddittorietà irriducibile del suo gesto suicida: atto di disperato ripudio e, nel contempo, di orgogliosa agnizione di sé.
13 Vale la pena di richiamare il fatto che, come s’è visto, i conoscenti di Ciunna «eran soliti di pigliarselo a godere per la comica stranezza del carattere e il modo di parlare». Ebbene, questo suo «estro comico» non è che una variante del tratto che caratterizza i filosofi pirandelliani e che viene anche definito, più esplicitamente, «spirito bislacco» (La levata del sole), «spiritaccio bislacco» (La Signora Speranza), «spiritaccio filosofesco» (Acqua amara) o «spirito filosofico» (Tu ridi). La loro filosofia, che ha poco o niente a che vedere con la filosofia in senso proprio, consiste soprattutto nello sguardo umoristico con cui guardano il mondo e le proprie stesse vicende, e del quale è un ottimo esempio la fantasticheria di Ciunna che si immagina avviato a suicidarsi con l’accompagnamento della banda municipale. Esempio, si noti, pressoché liminare rispetto alla vasta fabbrica narrativa pirandelliana, quasi tutta di là da venire. Ma le stigmate, ora più ora meno incise, di questa estrosa veggenza umoristica, costituiscono una marca così specificamente caratterizzante che uno degli ultimi personaggi ad ereditare quest’estro comico sarà, trent’anni più tardi, nientemeno che il Vitangelo Moscarda di Uno, nessuno e centomila; il quale non potrà non chiamarlo anche «maledetto estro» (v. RII, p. 867), ma dopo aver riconosciuto che «un pronto risveglio di quell’estro gajo che per fortuna come un benefico vento m’arieggia ancora lo spirito» (ivi, p. 863; corsivo nostro) è il solo fenomeno capace di alleggerirgli d’un tratto l’anima oppressa.
14 Nelle prime stampe, e anche in quella fiorentina del 1922, questo capoverso proseguiva nel modo seguente: «Come se, dentro, la coscienza della vita gli si rifacesse a un tratto trasparente, si sentì preso da un segreto e quasi già lontano amore per essa; da un amore che non voleva e non pretendeva più nulla, oltre al piacere di potersene beare, così, con gli occhi e tutti i sensi aperti e quasi inattivi». Fa specie che Pirandello abbia ritenuto di cassare questo periodo, così marcato tematicamente e così caratteristicamente suo. Ma tant’è. Questa leggerezza amorosa e ariosa, distaccata e beata, estatica, che era stata del suicida Matteo Sinagra di Da sé (v. II 885), espressa così, sul principio del racconto, gli è forse parsa contraddire alle incertezze che contrassegneranno la peripezia ultima di Ciunna.
15 Bardatura.
16 Nastri colorati che adornano i finimenti.
17 Pietrisco che serve alla pavimentazione delle strade.
18 La «borgata marina» e la «città sul colle» sono due delle denominazioni perifrastiche usate per designare rispettivamente Porto Empedocle e Agrigento.
19 Seguiva, fino al 1922, il capoverso seguente: «Molto ricco un tempo, lì, su quella spiaggia di mare lunga e stretta, aveva posseduto uno dei più grandi depositi di zolfo. Ma, inetto al commercio, in pochi anni s’era fatto spogliare, o mangiar vivo com’egli soleva dire, da questo e da quello, e specialmente da un suo subalterno, in cui aveva riposto la più cieca fiducia. Costui adesso era tra i più ricchi del paese, coi denari rubati a lui, ed era anche cavaliere, per meriti commerciali. Non per nulla Mercurio, dio de’ ladri, è pure il dio del commercio». Questo sommario antefatto, cassato nella mondadoriana del 1937, anticipava, in termini più umoristici che drammatici, la vicenda tragica di Mattia Scala e Dima Chiarenza ne Il «fumo».
20 Pezzenti, miserabili. Si potrebbe pensare a un calco del francese va-nu-pieds, invariabile dal medesimo significato; ma forse la spiegazione più prossima e pertinente è contenuta nell’immagine di Porto Empedocle registrata ne I vecchi e i giovani: «I depositi di zolfo s’accatastano lungo la spiaggia; e da mane a sera è uno stridor continuo di carri che vengono carichi di zolfo dalla stazione ferroviaria o anche, direttamente, dalle zolfare vicine; e un rimescolìo senza fine d’uomini scalzi e di bestie, ciattìo di piedi nudi sul bagnato, sbaccaneggiar di liti, bestemmie e richiami, tra lo strepito e i fischi d’un treno che attraversa la spiaggia, diretto ora all’una ora all’altra delle due scogliere sempre in riparazione. Oltre il braccio di levante fanno siepe alla spiaggia le spigonare con la vela ammainata a metà su l’albero; a piè delle cataste s’impiantano le stadere su le quali lo zolfo è pesato e quindi caricato su le spalle dei facchini, detti uomini di mare, i quali, scalzi, in calzoni di tela, con un sacco su le spalle rimboccato su la fronte e attorto dietro la nuca immergendosi nell’acqua fino all’anca, recano il carico alle spigonare» (v. RII, p. 29; nostri i tre corsivi).
21 La pappa buona o il dolcino, le cosucce (voci infantili). Tino Imbrò, qualificato fino al 1922 come «caposcarico giovialone», è il primo marito umorista abbandonato dalla moglie. E, da umorista, tratta il pianto inconsolabile della sposa e la sua nostalgia della casa parentale con la condiscendenza paziente che l’adulto riserva ai bambini. Stante il ruolo di contorno del suo siparietto coniugale, il lettore non conoscerà mai le ragioni non umoristiche, e presumibilmente dolenti, della donna. Affiora tuttavia fin d’ora la vocazione solitaria della schiatta degli umoristi.
22 Imperativo francese che esprime il comando, militare o ginnico, di mettersi in marcia; qui vuol dire via! togliti dai piedi!
23 All’altezza della stampa del 1922, Pirandello riverserà nel taccuino, ridestinandolo a Napoli, il sarcasmo riservato da Ciunna a Porto Empedocle; v. TS, p. 51: «A Napoli ti ruban la suola delle scarpe mentre cammini».
24 Uno dei non rari poeticismi o librettismi aulici in funzione comico-ironica. V. gli analoghi «nel primiero stato» (La veste lunga II 814) e «ai vezzi tuoi» (La signora Speranza, p. 859).
25 Formazione scherzosa sul tedesco trinken (bere) e Wein (vino). Pirandello la riprenderà e amplierà trentacinque anni più tardi nel terzo quadro de La favola del figlio cambiato, e ne farà il grido festoso dei «marinaretti stranieri»: «Trinchevàine! Trinchevàine! / Mit Froilàine! Mit Froilàine!» (v. MNII, p. 1268).
26 Seguiva, nella fiorentina del 1922, un’amplificazione degna di nota: «Subito un moto, quasi un brivido di gioja, gli corse e ridestò le intime fibre del corpo, come se sentisse di vivere oltre la morte. Quella vita in sé e attorno, infatti, da un’ora per lui sarebbe stata come niente. Si guardò le gambe nude, le braccia, le mani: se ne serviva ancora; erano ancor sue: poteva muoverle ancora a piacer suo. Fra tre, quattr’ore, invece… Si rabbujò in volto e si mise a scendere […]». Con l’arte sapiente del levare maturata nel corso dei decenni, Pirandello espunge un altro come se (v. sopra la n. 14), pur contenente la suggestione tematicamente germinante e ritornante del «vivere oltre la morte». Lo scrittore è rimasto sempre fondamentalmente fedele a questa linea correttoria e il vecchio personaggio di Ciunna, nato quarant’anni prima, viene con questi ritocchi estremi ulteriormente, e per sottrazione, levigato e semplificato, alleviato di tratti attributivi ritenuti eccedenti o complicanti. I due inserti espunti indirizzavano l’«estro comico» di Ciunna verso l’ascesi estatica e rinunciataria del personaggio filosofo, e invece Ciunna, uomo di grande cuore e innamorato della vita, non è destinato a morire da filosofo.
27 Il doloroso inciso autoriflessivo di questo rapido capoverso è l’unico inserto aggiuntivo della mondadoriana.
28 La prova semiseria del suicidio per acqua nel recinto dei bagni si trasformerà, ne I vecchi e i giovani, nell’episodio del mancato annegamento di Flaminio Salvo (v. RII, pp. 60-1).
29 Fare sforzi di vomito (è un toscanismo arcaico).
29 Smorfia.
30 V. TS, p. 49: «Tutt’un tremolio d’acque».
31 Non c’è equivoca ambiguità né ironia nel congedo di Ciunna dall’amico. Le sue parole vanno prese alla lettera. Come la sera prima egli aveva stabilito modo e tempo del proprio suicidio e perciò aveva potuto dormire «saporitissimamente tutta la notte», così ora Ciunna ha rinnegato e del tutto abbandonato il proposito suicida: comperate – con i soldi doverosamente sottratti – le triglie che dividerà coi nipotini (e mandata dunque a monte l’immaginaria partita di scambio con i pesci), a buon titolo ringrazia Tinino Imbrò che, costringendolo festosamente a rinviarlo, gli ha dato modo di non concludere affatto quell’«affare molto urgente»: a quell’amico potrà anche dire, un giorno o l’altro, di cosa si era trattato.
32 È la mise en abîme d’un lieto fine mancato. Si confronti, al proposito, La levata del sole, novella in qualche misura responsoria, rispetto a questa (e che si suggerisce quindi di leggere come un’antifona a Sole e ombra). Se Ciunna potesse prendere tranquillamente sonno, si completerebbe, stavolta in termini euforici, una sequenza simmetrica a quella iniziale: un buon sonno seguirebbe alla ferma e combattiva scelta di vivere come una notte placidissima era seguita alla desolata decisione di morire.
33 Impastata.
34 Ciunna ha in qualche modo il torto di essere troppo provato e debole per seguire quest’impulso liberatorio. Si veda a confronto La levata del sole.
35 Purtroppo la struttura della sequenza non è binaria (morte-vita), ma ternaria e retrorsa (morte-vita-morte; oppure, una volta che si sia dipanato il dilemma titolare, ombra-sole-ombra). Questo capoverso affannoso, percorrendo rapidamente a ritroso i passi iniziali della storia, riporta Ciunna al punto di partenza e, con la visione d’una realtà che ormai contempla la sua morte avvenuta, alla necessità di morire. È intervenuto un brusco mutamento d’atmosfera. Il suicidio programmato, così come il suicidio rifiutato, l’uno e l’altro maturati attraverso la parola sciolta e i gesti un po’ teatrali di «strambi soliloquii dialogati», sono entrambi manifestazione genuina dell’«estro comico» del personaggio. Ora, insieme al vivace e quasi ilare fervore vitale da cui Ciunna era apparso rianimato fino al momento di chiudersi nella carrozza, quell’estro è completamente caduto: nella carrozza c’è un vecchio impaurito, con «le membra come di piombo e una tetra gravezza al capo», che non riesce se non a balbettare con la lingua grossa e torpida, e i cui pensieri vanno confondendosi.
36 Non più progettato con cura e non più sostenuto da generosi propositi, il suicidio torna ad essere un predicato altamente patetico: terrore e orrore repentini, vuoto e vertigine (come è scritto). Non «una pilloletta, e buona notte!», e non «le medaglie, sul petto; il ciondolino al collo e patapùmfete». Ciunna sa certo quel che fa quando ingoia i cristalli d’arsenico imprevedibilmente ripescati in fondo a una tasca, ma non c’è soluzione di continuità tra la meraviglia del ritrovamento, la subitanea agnizione e l’atto di volontà inorridito che gli dà la forza di inghiottire il veleno. È una sequenza convulsa che non palesa interstizi, un attimo che non si lascia scandire. E si tenga presente che la redazione definitiva introduce, con quella mano sporta alla luce e quello sguardo che vuol capire, un piccolo elemento di razionalizzazione in più; la prima versione suonava così: «stringeva, stritolava qualcosa, che poco dopo, nella convulsione di tutti i nervi, si cacciò in bocca inavvertitamente. Ristette: il veleno!… in tasca, lì, il veleno dimenticato! Strizzò gli occhi, serrò le pugna: inghiottì. Rapidamente ricacciò la mano in tasca, ne tolse altri pezzetti: li inghiottì» (v. NUAI, p. 1307). Non era lo sguardo a far riconoscere la cosa, ma il gusto, e forse neppure: un allarme della memoria. Era poi pur sempre la volontà ad intervenire e a trasformare in suicidio un gesto inconsulto, ma neppure la sua sanzione poteva cancellare del tutto la smaniosa incontrollabilità che quell’«inavvertitamente» aveva significato.
37 La vampa del sole aveva riscosso e risuscitato Ciunna, l’aveva distolto dalla morte e restituito alla vita. Sulla via del ritorno lo attende però un’altra notte di luna, quella luna che la sera prima (v. l’incipit della novella e la n. 2) gli aveva teso i suoi ineludibili agguati, dalla quale intende inconsapevolmente nascondersi facendo alzare il mantice della carrozza, che sorge a sua insaputa e gli fa vedere e riconoscere il veleno, che intanto ha allagato – come se la sua luce fosse anch’essa un’acqua che può sommergere e annegare quanto quella del mare – la vallata che egli percorre. La quiete lunare infonde una grande calma in Ciunna, ma è una delizia ingannevole, è una quiete ctonia, è la calma fluente della morte.
38 Ulteriori e puntuali verbalizzazioni di questo spossato senso di distacco si incontrano in La levata del sole, p. 521 («chi sa che piacere! veder cominciare un altro giorno per gli altri e non più per sé! un altro giorno, le solite noje, i soliti affari, le solite facce, le solite parole, e le mosche, Dio mio, e poter dire: non siete più per me») e in Da sé II 885 («E guarda con occhi nuovi le cose che non sono più per lui, che per lui non hanno più senso»), nonché nelle prime due stampe de Il marito di mia moglie: «mi taccio e mi metto a guardare le belle cose che ormai non sono più per me, le belle cose che rimangono per gli altri» (v. NUAII, p. 1104).
39 Sulla nenia del vetturino, funebre berceuse, lo sguardo narrativo pare scostarsi dalla scena narrata e vederla scolorire, allontanarla e guardarla da lontano: il punto nero della carrozza, il nastro bianco della strada. Ecate ha avuto la sua vittima.
1 La novella fu pubblicata per la prima volta in «Roma di Roma», tra il 9 e il 13 novembre 1896, in cinque puntate. Venne poi ristampata in Beffe della morte e della vita (seconda serie, Firenze, Francesco Lumachi, 1903) e compresa, nel 1918, nella raccolta Un cavallo nella luna (Milano, Treves). Entrò infine a far parte del nono volume delle «novelle per un anno», Donna Mimma (Firenze, Bemporad, 1925). Si riproduce il testo fornito da Mario Costanzo sulla base della mondadoriana del 1937-38 (v. Sole e ombra, n. 1).
“Visitare gli infermi” è una delle sette opere corporali di misericordia. Le altre sei sono: dar da mangiare agli affamati, dar da bere agli assetati, alloggiare i pellegrini, vestire gli ignudi, visitare i carcerati, seppellire i morti. Pirandello le richiamerà umoristicamente anche in Va bene (v. II 128) e intitolerà Vestire gli ignudi un dramma del 1922.
2 Sindrome dovuta ad alterazione circolatoria cerebrale.
3 Al primo momento.
4 Puzzava.
5 È in un certo senso il preannuncio del motivo soggiacente a tutta la novella. Che è, in sostanza, un bozzetto di colore paesano e, più che un racconto, uno studio, la cui chiara ascendenza veristica risulta solo qua e là stemperata da un umorismo ancora legnoso e privo di leggerezza.
6 La notazione non è meno acuta per il fatto di essere marginale. Pirandello condensa in una proposizione la sorte che è di qualunque evento nel momento stesso in cui diventa notizia e storia. Il massimo di verità è contenuto nei pochi dati originarî, per quanto vaghi: poi, quanto più quella vaghezza si precisa e quanto più l’evento assume nel racconto (che è sempre atto di selezione e gerarchizzazione) contorni definiti e si arricchisce di particolari, tanto più la verità nuda dell’evento si allontana e sprofonda, sommersa e prevaricata proprio dall’ansia di possederla e conservarla che presiede all’atto di raccontarla.
7 V. Il treno ha fischiato… III 19: «Principio di febbre cerebrale, avevano detto i medici; e lo ripetevano tutti i compagni d’ufficio […]. / Pareva provassero un gusto particolare a darne l’annunzio coi termini scientifici, appresi or ora dai medici, a qualche collega ritardatario».
8 Colorito.
9 Questa curvatura retorica e colloquiale del discorso è annotata in un foglietto: «Saranno tre. Abbondiamo! Quattro» (v. BRB, p. 67).
10 (Sottinteso, come attestato dalle prime due stampe) carrozza, vettura.
11 Località a ovest di Agrigento, distante una ventina di chilometri.
12 Deglutire facendo schioccare la lingua. La lezione risale alla stampa in raccolta del 1903: la prima redazione recitava: «si provò a far schioccare più volte la lingua inceppata, come se volesse agglutinare» (v. NUAII, p. 1276).
13 Così, in seguito, anche il Cristoforo Golisch de La toccatina (1906), colpito da paralisi: «Aprendo gli occhi insanguati, pieni di paura, contraendo quasi in un mezzo sorriso la sola guancia sinistra e aprendo alquanto la bocca da questo lato, dopo essersi più volte provato a snodar la lingua inceppata, alzò la mano illesa verso il capo e balbettò» (v. II 271).
14 Tre anni e mezzo prima, in una lettera ai familiari (v. EFG, p. 50), Pirandello aveva incluso nell’elenco dei suoi lavori in corso addirittura un romanzo intitolato Matteo Bax.
15 «Occlusione di un’arteria del cervello da parte di un embolo partente dalle cavità cardiache di sinistra o dalle vene polmonari» (Devoto-Oli).
16 «Rettangoli di carta rivestita, su una delle facce, con una miscela di guttaperca, solfuro di carbonio, etere di petrolio, a cui aderisce polvere di senape (e veniva applicata sulla cute a scopo revulsivo)» (GDLI).
17 Star dietro a, seguire assiduamente (è termine letterario e disusato).
18 Noti e accreditati.
19 Che (v. La ricca, n. 7).
20 Alacre, operoso (arcaismo per facente).
21 Con la testa incassata nelle spalle.
22 Appunto l’alterazione degenerativa del cervello.
23 Pietrisco che serve alla pavimentazione delle strade.
24 (S’intende) dai debiti.
25 Zampillare.
26 Assorbiva.
27 Piedistallo, supporto.
28 Addetto all’assistenza notturna degli ammalati.
29 Si cacciò su per il naso (dal romanesco froce, “narici”).
30 Che ha il compito di richiamare il malato al pensiero di Dio.
31 V. l’appunto condensato di TS, p. 51: «Il prete nottante al capezzale».
32 (Latino) basta, è sufficiente.
33 Sconvolto.
34 Riaffiora, come un tratto di umor nero e crudele, l’idea dell’agonia come spettacolo e passatempo collettivo.
35 Centri nervosi del cervello.
36 Con grande impeto.
37 Facente funzione.
38 Il tonno che si mette al seguito delle navi. L’espressione, instaurata a partire dalla redazione del 1918, proviene dal tutt’altro contesto de L’umorismo: «le idee del tempo mutano, cangia la moda, i pòmpili seguaci si mettono appresso ad altre navi» (v. SPSV, p. 117).
39 L’argomento, al quale aveva prestato molta attenzione il maestro Luigi Capuana (v. L. CAPUANA, Spiritismo?, Catania, Giannotta, 1884, p. 304), affiora qui per la prima volta senza particolari sviluppi narrativi. Tutt’altro peso assumerà ne Il fu Mattia Pascal e nella novella del 1905 La casa del Granella.
40 L’argomento qui timidamente avanzato dal Deodati sarà fatto entusiasticamente proprio, in Dal naso al cielo, fin dalla redazione del 1907, dal professor Vernoni: «E il professor Dionisio Vernoni attaccò subito col suo solito fervore; e cominciò a parlare di occultismo e di medianismo, di telepatia e di premonizioni, di apporti e di materializzazioni: e a gli occhi de’ suoi ascoltatori sbalorditi popolò di meraviglie e di fantasime la terra che l’orgoglio umano imbecille ritiene abitata soltanto dagli uomini e da quelle poche bestie che l’uomo conosce e di cui si serve. Madornale errore! Vivono, vivono su la terra di vita naturale, naturalissima al pari della nostra, altri esseri, di cui noi nello stato normale non possiamo avere, per difetto nostro, percezione; ma che si rivelano a volte, in certe condizioni anormali, e ci riempiono di sgomento; esseri sovrumani, nel senso che sono oltre la nostra povera umanità, ma naturali anch’essi, naturalissimi, soggetti ad altre leggi che noi ignoriamo, o meglio, che la nostra coscienza ignora, ma a cui forse inconsciamente obbediamo anche noi: abitanti della terra non umani, essenze elementali, spiriti della natura di tutti i generi, che vivono in mezzo a noi, e nelle rocce, e nei boschi, e nell’aria, e nell’acqua, e nel fuoco, invisibili, ma che tuttavia riescono talvolta a materializzarsi» (v. NUAII, pp. 434-5).
41 Accidenti a lui (la tipica imprecazione meridionale deriva da mal ne aggia, “male ne abbia”).
42 Putrescente.
43 Incespicante, barcollante.
44 – Santa Madre di Dio, – Prega per noi. – Santa Vergine fra le Vergini, – Prega per noi. Sono litanie mariane.
45 Ricomporre.
46 Così ragionerà anche il povero Corvara Amidei di Va bene, candido senza più fede: «E ora, dopo l’infame tradimento e la fuga di quella donna indegna che gli aveva spezzata l’esistenza, ora quasi certamente gli toccava a soffrire anche la pena di vedersi morire a poco a poco il figliuolo, l’unico bene, per quanto amaro, che gli fosse rimasto. Ma perché? Dio, no: Dio non poteva voler questo. Se Dio esisteva, doveva coi buoni esser buono. Egli lo avrebbe offeso, credendo in lui» (v. II 142).
47 V. p. 325 e n. 34. E la patente delusione degli spettatori mancati («Perbacco! Se venivamo un po’ prima…») sancisce il rovesciamento umoristico dell’opera corporale di misericordia preannunciata dal titolo.
48 Qualcosa di analogo avverrà ai funerali de L’illustre estinto (1909) II 436: «Era una splendida giornata. / A gente oppressa da tanti gravi problemi sociali, intristita da tante brighe quotidiane, doveva certo far l’effetto d’una festa quel tuffo nell’azzurro, la vista deliziosa della campagna rinverdita, dei Castelli romani solatii, del lago e dei boschi in quell’aria ancora un po’ frizzante, ma nella quale si presentiva già l’alito della primavera. Non lo dicevano; si mostravano anzi compunti, ed erano forse; ma per il segreto rammarico d’aver consumato e di consumare tuttavia in lotte vane e meschine l’esistenza così breve, così poco sicura, e che pur sentivano cara, lì, in quella fresca, ariosa apparizione incantevole».
1 La novelletta fu pubblicata su «Roma letteraria» il 25 dicembre 1896. Mai più ristampata da Pirandello, venne recuperata soltanto nell’Appendice di L. PIRANDELLO, Novelle per un anno, vol. II, a cura di M. Lo Vecchio-Musti, Milano, Mondadori, 19666.
2 Per questo tratto e per lo zufolare del vento (p. 334), v. una delle Elegie renane (vv. 1-5) di Pirandello: «Del forestier che ancora il sol della patria ha negli occhi / e oppresso qui dalla natura ingrata // vive solingo al fuoco, udendo attraverso la gola / fumida del camino gemer continuo il vento, // tenera e premurosa, tu cura di prendi fraterna» (SPSV, p. 575). Il nome della protagonista corrisponde a quello di una amica e innamorata di Pirandello al tempo del suo soggiorno di studio in Germania, Jenny Schulz-Lander. Nel seguito della novella, L*** starà appunto per Lander. Per la vicenda biografica, v. GG., pp. 123-30.
3 Perché divampante appunto da fascine.
4 Quella di Natale. E v. n. 6.
5 Termine desueto per designare uno strumento a fiato simile al piffero.
6 V. Torna, Gesù! 9-24: «Ogn’anno, ogn’anno, in questo freddo mese, / per quanto stanca, l’anima risogna / la festa che a Gesù fa il mio paese. / Già suona la zampogna… / Ah, che profonda, arcana / malinconia, che nostalgia m’assal / della casa lontana, / del villaggio natal! // Rigide sere della pia novena / in cui, sur ogni piazza, in ogni via, / fiamman, fuochi gregal, fasci d’avena; / mentre la litania / il vicinato intuona / raccolto innanzi a un rustico altarin, / e la zampogna suona, / tintinna l’acciarin». La lirica fu pubblicata su «La critica» (di Gino Monaldi) il 28 dicembre 1895; la si può ora leggere tra le Poesie varie in SPSV, pp. 780-2.
7 Figlie di secondo letto della madre.
8 V. «Vexilla Regis», p. 397 e n. 2.
9 Località della valle del Reno a una cinquantina di chilometri a sud-est di Bonn.
10 V. FVN, p. 80. È una chiara e pressoché letterale anticipazione di quanto deciderà di fare e della lettera che lascerà alla moglie Gosto Bombichi ne La levata del sole (p. 521). Ma non va neppure dimenticata la sprezzante riflessione che la mattiniera Marta Ayala dedica al marito ne L’esclusa (stampato per la prima volta nel 1901 e che però Pirandello volle fosse datato, nella stampa riveduta e definitiva del 1927, al 1893): «“Ma a quest’ora egli dorme” – pensò a un tratto, e un sorriso di scherno le venne alle labbra, andando. – “Non ha mai visto nascere il sole, in vita sua…”» (v. RI, p. 947).
11 Soffitta.
12 Nastri colorati, festoni, ghirlande.
13 Tanta terra quanta può starne in un grembiule.
14 Si allude a L’abete di Hans Christian Andersen (1805-1875), il famoso favolista danese.
15 Portata.
16 Castagne lessate.
1 Fu pubblicata sulla «Rassegna settimanale universale» il 27 dicembre 1896. Mai più ristampata da Pirandello, venne recuperata solamente nell’Appendice di L. PIRANDELLO, Novelle per un anno, vol. II, a cura di M. Lo Vecchio-Musti e A. Sodini, Milano, Mondadori, 1938.
2 Festuche, fili.
3 Tovaglia dell’altare.
4 A prescindere dall’esilità e dall’occasionalità della novelletta, la sola figura della tradizione religiosa che via via ricomparirà nell’opera pirandelliana, e sarà, per quanto spesso velata sotto epifanie bizzarre o umoristiche, sempre circonfusa di attributi positivi, sarà quella di Cristo.
1 Fu pubblicata per la prima volta su «La domenica italiana» il 21 febbraio 1897, e successivamente compresa nella raccolta del 1902 Quand’ero matto… (Torino, Streglio). Non entrata a far parte delle «novelle per un anno, venne recuperata solamente nell’Appendice di L. PIRANDELLO, Novelle per un anno, vol. II, a cura di M. Lo Vecchio-Musti e A. Sodini, Milano, Mondadori, 1938.
2 Il breve contro-racconto è forse la cosa più felice, poiché è una prima rapida prova di quel patetico del ridicolo e ridicolo del patetico che è una delle regole auree dell’umorismo pirandelliano. Il ricordo di questo ritratto della signora Baldinotti diventa non a caso, e non nella prima stampa del 1908, ma nella riedizione del 1920, uno dei primi esempi del meccanismo umoristico: «Vedo una vecchia signora, coi capelli ritinti, tutti unti non si sa di quale orribile manteca, e poi tutta goffamente imbellettata e parata d’abiti giovanili. Mi metto a ridere. Avverto che quella vecchia signora è il contrario di ciò che una vecchia rispettabile signora dovrebbe essere. Posso così, a prima giunta e superficialmente, arrestarmi a questa impressione comica. Il comico è appunto un avvertimento del contrario. Ma se ora interviene in me la riflessione, e mi suggerisce che quella vecchia signora non prova forse nessun piacere a pararsi così come un pappagallo, ma che forse ne soffre e lo fa soltanto perché pietosamente s’inganna che, parata così, nascondendo così le rughe e la canizie, riesca a trattenere a sé l’amore del marito molto più giovane di lei, ecco che io non posso più riderne come prima, perché appunto la riflessione, lavorando in me, mi ha fatto andar oltre a quel primo avvertimento, o piuttosto, più addentro: da quel primo avvertimento del contrario mi ha fatto passare a questo sentimento del contrario. Ed è tutta qui la differenza tra il comico e l’umoristico» (v. L’Umorismo, in SPSV, p. 127). Tale differenza era peraltro già stata spiegata da Pirandello, in termini particolarmente densi, in una lettera del 21 febbraio 1909 all’amico Ugo Ojetti il quale, leggendo il saggio appena uscito, non se ne era mostrato del tutto persuaso: «Riflettici bene: non posso ammettere che tu non intenda questa differenza! Se tu puoi ridere d’un contrario, o sdegnartene, o fingere di lodarlo con grazia mordace: vuol dire che tu non lo senti, fino a piangerne, questo contrario che ti fa ridere: e, mancandoti il sentimento di esso, ne farai una rappresentazione comica, o lo assalterai con la satira o lo morderai ironicamente: non farai umorismo, appunto perché ti mancherà il sentimento del contrario. Certo, è questione di temperamento; ma non si tratta qui d’una gradazione del comico: l’umorismo nega il comico, lo supera attraverso il comico stesso; penetra nel suo contrario (nel contrario appunto del comico) e ne acquista tanto il sentimento, che attraverso la rappresentazione di esso comico, te lo distrugge» (v. CAR, p. 33).
3 Il difficile.
4 Impreziosendo, infiorando.
5 Che fu martirizzato a colpi di freccia, e la cui iconografia è tra le più celebri.
6 «Stiamo flirtando, no?» Per non smentirsi, la signora ha cura di infilare anche un anglicismo nel suo francese salottiero.
7 Paul Bourget (1852-1935), saggista e romanziere di notevole fama sullo scorcio dell’Ottocento. La Physiologie de l’Amour moderne è del 1891. L’evocazione stessa di Bourget dimostra che questa novella è in certa misura il pendant metropolitano, mondano, alto-borghese e frivolo di Visitare gl’infermi. È uno schizzo di vita del bel mondo, un esercizio di misura e di stile.
8 Per semplice amor proprio.
9 Ciò che certi uomini meno perdonano a una donna è che si consoli d’essere stata tradita da loro.
10 Rendendo pubblico, vantando.
11 Si acciglia, si rabbuia.
1 Fu pubblicata su «La Tribuna» il 21 aprile 1897 e non venne mai più ristampata da Pirandello. Fu recuperata solamente nell’Appendice di L. PIRANDELLO, Novelle per un anno, vol. II, a cura di M. Lo Vecchio-Musti e A. Sodini, Milano, Mondadori, 19698.
2 Nel romanzo Suo marito, Maurizio Gueli sarà il nome dello scrittore con il quale la protagonista Silvia Roncella fuggirà per una breve e infelice avventura.
3 Per la non stranezza e la naturalità di un matrimonio senza amore in una novella degli anni ’90, v. La signorina, n. 10.
4 Poche righe sopra il Gueli ha parlato dei propri piccoli favori come dei più disinteressati «che si possa immaginare», ossia dei più alieni dal pensiero d’un personale tornaconto. Qui il «disinteresse» è dunque da interpretare come colpevole indifferenza o negligenza.
5 Che sia questo il vostro sentimento verso di me.
6 La novelletta, molto borghese, ruota intorno alla castigata rievocazione d’una breve, e purtroppo non sterile, relazione adulterina bruscamente interrotta. Per certi aspetti (l’amante respinto e la figlioletta di lui allevata in seno alla famiglia legittima) la vicenda appare speculare a quella de Il nido, ancorché alleggerita dal fatto che si è trattato di occultare una paternità e non di conculcare una maternità. Per altri aspetti, l’insofferenza di Fulvia Corsani verso Maurizio Gueli anticipa quella di Silvia Ascensi per Marco Verona in Tutto per bene. Il racconto si prova a scavare nel viluppo psicologico dei due ex-protagonisti, e in particolare in quello della donna, con esito non felicissimo. Ma la cosa più infelice è certamente il titolo della novella, la cui appassita frivolezza appare gratuita.