Il dottor Cimitero

1 La novella fu pubblicata sulla «Rassegna settimanale universale», il 25 aprile 1897. Ventisei anni più tardi, reintitolata Acqua e lì e in una redazione radicalmente diversa, fu stampata sul «Corriere della Sera» del 14 settembre 1923. L’anno successivo venne infine inclusa nel settimo volume delle «novelle per un anno», Tutt’e tre (Firenze, Bemporad, 1924).

2 Toponimo di fantasia.

3 Cerotto per medicazioni.

4 Un foglietto ritrovato nella superstite biblioteca pirandelliana contiene due embrionali frammenti della novella: «Il Dottor Cimitero. Ormai, quando il medico di Vignetta passava per una via, vecchi e comari si facevano il segno della croce, come se le campane della chiesa sonassero a morto»; e: «Ah, quanti padri di famiglia, quante povere madri aveva egli spediti, belli e incassati, all’altro mondo! Pei vecchi, pazienza! Spesso la morte è un sollievo. Ma anche i bimbi, anche i bimbi, buon Dio! Per questo, a Vignetta lo chiamavano il Dottor Cimitero. Era corto e grosso e brutto, poveretto, da far paura a uno specchio; con certe gambette piccole piccole e certe braccia ancor più piccole, che gli sbattevano, andando, sul pancione come due bacchette sul tamburo. Al naso portava […]» (v. BRB, p. 73). Se ne ricava che, in un primo momento, la novella avrebbe dovuto essere ambientata a Vignetta, che è anche il nome del paese (primo travestimento di Porto Empedocle) in cui nel 1895 si svolge la vicenda de Il «no» di Anna.

5 Di persona.

6 Scelta, stile.

7 Abbaiare forte, sbraitare.

8 Il volgo è fatto così.

9 Il latino raddoppia pleonasticamente l’italiano, e vale appunto almeno spero.

10 Possedute dal demonio.

11 Buttar giù, trangugiare.

12 Intrugli.

13 È la vessillifera.

14 Completato.

15 Inoltre.

16 La mia coscienza conta per me più di tutte le chiacchiere della gente.

17 L’umorismo comico della novella vira per un istante, bruscamente, verso il patetico.

18 La sententia completa è ovviamente: Nemo propheta in patria (“Nessuno trova credito nel suo paese”).

19 Il giovane e pragmatico collega gli suggerisce di fatto di adeguarsi a quanto fanno l’omeopata Piccarone con le sue «pallottoline che voglion esser medicinali» e le fattucchiere con i loro «pottinicci», e di prescrivere acqua di fonte.

20 Parificata.

21 Balbettare.

22 È una pointe umoristica anche questa. Fra i suoi molti difetti, il dottor Corvo-Calajò ha anche quello d’essere ateo, mentre la puntuale guarigione dei pazienti trattati con acqua colorata ha tutto l’aspetto d’un miracolo, vale a dire d’uno sberleffo da parte del Padreterno.

23 Terraccia diventa di colpo riconoscibile, poiché questo camposanto alto e arioso è luogo tra i più memorabili della mappa girgentana. V. La paura del sonno, n. 22.

Il marito di mia moglie

1 Fu pubblicata per la prima volta su «La Tribuna» il 5 giugno 1897 (v. NBOG, p. 732). Ripubblicata su «Il Marzocco» il 15 febbraio 1903, venne compresa, l’anno medesimo, nella «seconda serie» di Beffe della morte e della vita (Firenze, Francesco Lumachi, 1903). Il 15 marzo 1919 fu ristampata in «Cronache d’attualità» (v. GAB, p. 51, e SFP, pp 21 e 58-63) e, l’anno stesso, entrò a far parte della raccolta Il carnevale dei morti (Firenze, Battistelli). Venne infine inclusa nel settimo volume delle «novelle per un anno», Tutt’e tre (Firenze, Bemporad, 1924).

2 La considerazione riemergerà trentadue anni più tardi nel finale di Fortuna d’esser cavallo (v. III 582).

3 Arthur Schopenhauer (1788-1860), il filosofo pessimista di Danzica, continuatore di Kant, le cui opere maggiori sono Il mondo come volontà e rappresentazione e i successivi Parerga e Paralipomena. Spunti di alcune sue concezioni aleggiano in talune ricorrenti tematizzazioni teorizzanti pirandelliane, in particolare nella natura ingannevole e dolorosamente illusoria della realtà che l’uomo attribuisce al mondo, agli altri e a se stesso, e in alcune immagini di vuoto arioso che si scoprono all’uomo capace di sciogliersi, per via di ascesi, dal desiderio e di sentirsi, o pensarsi, per qualche istante liberato dai vincoli spazio-temporali e causali di quello che Schopenhauer chiamava principium individuationis.

4 Come nel caso di Notizie del mondo, la prima persona forte e strettamente monologica della scrittura privata e segreta, a futura memoria, è il veicolo linguistico più proprio del discorso umoristico. È, quasi, la sua condizione naturale d’esercizio. E il sintagma titolare, il marito di mia moglie, ne è quasi un emblema.

5 Tumefazioni dovute a un eccesso di liquido nella cute o nei tessuti.

6 Finché respiro, finché resto in vita.

7 Rampa di scale.

8 Frequenza.

9 L’ottica postuma di Luca Lèuci, condensata nel paradosso titolare, riaffiorerà nel 1917 nell’incipit di Piuma (v. III 269).

10 Ditata (letteralmente, “colpo inferto con un cencio”).

11 La sincerità, nel corpus pirandelliano, è sempre una prerogativa rischiosa, stante l’assoluto bisogno di fingere (non di mentire, di fingere) pur di vivere e sopravvivere in un mondo di relazioni. La sincerità corre un doppio pericolo: quello di trapassare, come qui, nell’eccesso, o di degradarsi in enfasi, in teatrale oltranza. V. Pena di vivere così, n. 19.

12 Nel 1927, nella versione teatrale de L’amica delle mogli, Elena Viani, malata, sarà indotta dall’ossessione gelosa di Francesco Venzi a pensare con strazio a Marta Tolosani come alla moglie di suo marito, e non solo il motivo situazionale ma tutta una serie di tratti della novella saranno recuperati nel dramma: «ELENA Ma il tormento per me è che io lo possa pensare! E senza potermene nemmeno adontare! Perché non avrebbero nessuna colpa, loro, nessuna! nessun rimorso di coscienza! La vita che resta per loro, quando io non ci sarei più. Il loro diritto. Posso ribellarmi? – Io non dormo più! Sento il letto, nell’insonnia, suo, come lei lo sentirà, quando sarà là, al mio posto, col suo corpo, là, invece del mio! col mio diritto su le cose mie, su mio marito – VENZI – no! no! questo non avverrà, non avverrà, glielo dico io! ELENA Ma capisce che lei m’ha avvelenato, ora, anche tutte le cure, tutte le premure, le attenzioni che hanno per me? Io debbo ora, ogni volta, sforzarmi di nascondere il ribrezzo che ne provo – ingiusto, ingiusto, ma irrefrenabile – se penso che con esse acquistano sempre più il diritto di godere dopo, come di un compenso che né la vita né la coscienza potranno loro negare. Con mani innocenti tutt’e due m’accompagnano, amorosi e addolorati, fino alla soglia della morte: “Povera Elena, che vuoi? abbiamo fatto di tutto; ma la vita non ti ha voluta; e ora…”. Questo è martirio» (v. MNII, p. 125).

13 Come sarà la Satanina di Va bene. “Libero pensatore” si chiamava colui che, specie in materia di morale e di religione, rivendicava il diritto al libero esercizio della ragione e respingeva perciò posizioni dogmatiche, confessionali e clericali.

Un invito a tavola

1 Fu pubblicata per la prima volta su «La Tribuna» il 6 luglio 1897 (v. NBOG, p. 732 e SFP, pp. 22 e 73-8)). Fu poi compresa nella raccolta Quand’ero matto… (Torino, Streglio, 1902) e ristampata in quella omonima del 1919 (Milano, Treves); venne infine inclusa nel decimo volume delle «novelle per un anno», Il vecchio Dio (Firenze, Bemporad, 1926).

2 Paese a una quindicina di chilometri a nord di Agrigento

3 Il brigantaggio fu un fenomeno che interessò in misura grave e diffusa le regioni meridionali d’Italia e con il quale, subito dopo l’unità, i governi nazionali dovettero fare i conti. Si trattava d’una emergenza sociale complessa, nella quale confluivano fattori di rivoltosità radicati nelle condizioni di miseria dei ceti contadini, elementi di lotta sociale e di classe, manovre politiche occulte incoraggiate dalla decaduta corte borbonica, interessata a mettere a frutto gli irrisolti problemi del Meridione per attizzare vampe eversive legittimiste. Fu il gabinetto Ricasoli (1861-62) a inaugurare la lotta al brigantaggio che, ben al di là della durata di quel ministero, si sviluppò in una lunga e pesantissima campagna di repressione e che non andò esente da aspetti di vera e propria guerra civile.

4 Località a una ventina di chilometri a nord di Agrigento, lungo la strada per Lercara Friddi che segue la valle del fiume Platani.

5 L’episodio diventato leggenda era estesamente raccontato nella prima stampa: «Sorprese i primi due mentre legavano un infelice sospetto di spionaggio, dopo averlo costretto a scavarsi la fossa da sé. La vittima, ignuda, con una calza soltanto a un piede, grondante sangue da tutto il corpo per le battiture, aveva la bocca imbavagliata e non poteva gridare aiuto. / – Ohè, ragazzi, che fate lì? – disse Rosario Borgianni scoprendosi sorridente da una macchia d’olivi, con lo schioppo in mano. / – Oh, baciamo le mani, don Rosario. Niente! Questo furfante dice d’aver sonno: lo mandiamo a dormire… / – Cari miei, che brutto letto gli avete scelto: la mia campagna! – riprese il Borgianni, avvicinandosi bel bello. / – E non siamo amici noi, don Rosario? / – Amiconi, ma… al largo! Lo sapete. Del resto, datemene una prova: lasciate in pace codesto povero disgraziato. / – Impossibile, don Rosario! Voi scherzate… Ha la lingua troppo lunga… / – Spia? Non è vero. Lo conosco io. / – Vero o no, don Rosario, vi preghiamo d’andarvene pei fatti vostri… / Mi cacciate da casa mia? È un po’ troppo, mi pare! – fece Rosario Borgianni, contraendo un po’ le palpebre per iscorger meglio le più lievi mosse dei due furfanti. – Alle corte, lo slegate?… / – Con permesso, una parolina… – propose con aria ingenua uno dei due impallidendo a un tratto e avvicinandosi pian piano, con una mano in tasca e un risolino tremante su le labbra, a Rosario. / Ma questi non gli diè tempo d’accostarsi: gli sparò subito in petto una schioppettata, e prese l’altro di mira. / – Slega quel disgraziato, o fai una vampa anche tu, cane! / Voleva finger l’altro di accostarsi alla vittima per slegarla, e aveva già steso una mano alla carabina appoggiata al tronco d’un albero, quando un’altra schioppettata del Borgianni lo rovesciò per terra, morto. / Per questo fatto Rosario ebbe la medaglia al valore» (v. SFP, p. 74). È del tutto evidente che nella circostanza Rosario Borgianni impedisce, a sua volta saltando a pié pari le mezze misure, una esecuzione sommaria di stampo tipicamente mafioso. E il cruento confronto valeva anche a stabilire la differenza tra l’intransigente orgoglio e il coraggio rusticano e l’obliqua crudeltà brigantesca.

6 Favara dista meno di dieci chilometri da Agrigento in direzione est. Naro si trova a sua volta a est di Favara e ne dista circa venticinque chilometri.

7 Si mormorasse, corressero voci.

8 Ampio mantello.

9 Insaporita con alloro.

10 Agnello già macellato (da abbacchiare per “uccidere”).

11 Cotica, cotenna.

12 In salsa.

13 La novelletta, sorta di puro divertissement narrativo, si regge da capo a fondo sul confronto tra i due eccessi complementari del troppo e del troppo poco.

14 Soprannominato.

15 I pugni. Il plurale arcaico e letterario è caro a Pirandello, che lo usa spesso (si direbbe con un’intenzione rafforzativa) e non vi rinuncia neppure in testi di anni molto maturi, quando lo standard mutato del suo linguaggio narrativo ne accentuerà la coloritura desueta. Nell’ambito delle novelle, affiorerà per l’ultima volta in Niente, racconto del 1922.

16 Ne delibò il colmo.

17 Prima portata.

18 Il comune modo di dire iperbolizzante deriva dalla grandezza antonomastica delle gesta di Carlo Magno.

19 Si lamentò stizzito.

20 Bulimia, fame insaziabile.

21 Gesticolavano.

22 Coltello lungo e affilato, usato per tagliare le vivande in tavola.

Un’altra allodola (1897)

1 Fu pubblicata su «La Tribuna» il 17 luglio 1897 (v. NBOG, p. 732 e SFP, pp. 22 e 88-94).

2 Colto, aggredito di sorpresa.

3 Imbroglio, frode.

4 I due precedenti (Mi chiedi quanti tuoi baci, Lesbia, mi potrebbero pienamente saziare) e questi quattro (Tanti te ne deve dare Catullo, pazzo d’amore, per esserne sazio [quanti i granelli di sabbia di Cirene o le stelle di notte]: ai curiosi sia impossibile contarli e alle malelingue scagliare malefici) sono, interpunzione a parte, i vv. 1-2 e 9-12 del VII carme di Catullo. Al v. 10 Pignolost sostituisce l’originale «Catullost».

5 Il tugurio di cui poco sopra.

6 È andato a monte.

7 Gelosia (beninteso in latino).

8 Andrò a Roma (sempre in latino).

9 Abito maschile di rappresentanza, lungo, a doppio petto.

10 A cilindro.

11 Adattare alla taglia.

12 V. Es. 14, 21-22: «Avendo poi Mosè stesa la mano verso il mare, il Signore lo asciugò, facendo soffiare per tutta la notte un vento forte caldissimo, e lo ridusse all’asciutto. Le acque poi si eran divise. Ed i figli di Israele entrarono in mezzo all’asciutto mare, formando l’acqua come un muro a destra ed a sinistra di loro».

13 Per Ercole! (latino).

14 Ammontare generico, per dire “quattro soldi”, cioè pochissimo.

15 Sic. Ma la successiva redazione recita «povere guance magre»: il guasto corrisponde dunque a una lacuna fra guance e di carne.

16 Si tuffa nell’oceano il custode dell’orsa di Erimanto e turba le acque del mare con la sua stella. V. OVIDIO, Tristia, I, 4,1-2.

17 Così dirà anche il “poeta” e poligrafo Titone Sbrozzi di Salvazione: «Son versi miei… Ne faccio senza volerlo…» (p. 486).

18 Sic, per Currao.

19 C.s.

20 Quanto cambiato da quello d’un tempo. V. VIRGILIO, Aen. II, 274-5: «Ei mihi, qualis erat! quantum mutatus ab illo / Hectore, qui redit exuvias indutus Achilli» [Ahimè, com’era! quanto cambiato rispetto a quell’Ettore che tornò rivestito delle spoglie di Achille]. Così esclama Enea nel rammentare il sogno nel quale Ettore morto gli era apparso e lo aveva invitato ad affrettarsi a fuggire da Troia ormai caduta in mano ai Greci.

21 Ho con me tutte quante le cose mie.

22 Nel 1928 la «liretta» di rendita sarà aggiornata e diventerà cinque lire.

23 L’uomo non vive di solo pane.

24 L’abbozzo di quest’elemento ritrattistico è conservato in un foglietto: «Le grosse e pallide labbra allargandosi a un riso convulso scoprirono i denti serrati» (v. BRB, p. 66).

25 Per togliermi qualche capriccio, per permettermi qualche goccetto che mi ravvivasse gli occhi. La stampa del 1902 sarà più esplicita: «qualche soldo di vino… per mantenermi l’occhio vivo» (v. NUAIII, p. 1265).

26 Ancora non si vede.

La paura

1 La novella fu pubblicata su «La domenica italiana» il 1° agosto 1897. Mai più ripubblicata da Pirandello, venne recuperata solamente nell’Appendice di L. PIRANDELLO, Novelle per un anno, vol. II, a cura di M. Lo Vecchio-Musti e A. Sodini, Milano, Mondadori, 1938. essendo indubitabile la data della stampa in rivista della novella, questo sarebbe l’unico caso in cui sussisterebbe un’antecedente stesura teatrale della vicenda narrata e, soprattutto, l’unico caso in cui Pirandello avrebbe tratto una novella da un copione per il teatro. In una lettera del novembre 1892, Pirandello scrive ai suoi d’aver letto agli amici un suo dramma intitolato L’Epilogo e, nel febbraio successivo, si lamenta che l’attore e capocomico Cesare Rossi sia partito per Napoli portando con sé il manoscritto che gli era piaciuto e gli era stato consegnato affinché lo mettesse in scena. Sulla base delle sole testimonianze epistolari, sarebbe opportuno trarre inferenze molto caute. Anche in seguito, Pirandello darà più volte per fatte o prossime a compimento opere che matureranno e vedranno la luce parecchi anni dopo, e non si può trascurare del tutto il fatto che nel 1892 egli viveva a Roma, mantenuto dalla famiglia, perché facesse lo scrittore: qualche rassicurazione non interamente veritiera da parte sua sulla propria produttività non desterebbe particolare meraviglia. Senonché, il manoscritto de L’Epilogo è effettivamente riaffiorato tra le carte di Cesare Rossi conservate presso la Biblioteca Federiciana di Fano. E il problema si pone dunque in modo ineludibile, anche se non lancinante. Non è un problema lancinante anzitutto perché La paura è di fatto un’unica scena dialogata e la scena corrispondente de L’Epilogo è, ugualmente, nient’altro che un dialogo teso e immobile: la commutazione del testo da un genere all’altro non comporta perciò neppure la complessa sostituzione di registri discorsivi che di norma caratterizza la drammatizzazione d’un testo narrativo. A ben vedere, il problema non è tanto quello, del resto insolubile, dell’anteriorità, quanto quello d’una congetturale retrodatazione della novella (ne fa giustamente cenno Alessandro D’Amico in MN1, p. 7), problema che di solito è tenuto sullo sfondo dalla scarsità del materiale manoscritto pirandelliano e che viene nel caso in questione immediatamente sollevato dall’eccezionale reperimento d’una stesura autografa. L’ipotesi che il manoscritto trovato a Fano induce ad avanzare valga, dunque, soprattutto come specimen di quanto bisognerebbe presumibilmente fare per molti testi novellistici, se la povertà delle carte d’autore e l’affidabilità relativa dei documenti epistolari (nei quali l’agile speme precorre spesso gli eventi) non costringessero a far quasi sempre riferimento alle date delle prime stampe. Non sussistono serî ostacoli all’ipotesi della retrodatazione de La paura al 1892, a vedere ne L’Epilogo uno sviluppo e anche una parziale svolta tematica rispetto all’orizzonte della novella, a spiegare il rinvio della pubblicazione della versione narrativa con i tentativi iterati di collocare e far rappresentare il lavoro teatrale: La paura viene stampata (probabilmente non senza ritocchi rispetto all’incognita stesura iniziale) proprio a ridosso dell’ultimo deludente tentativo di far mettere in scena L’Epilogo. Il quale, ritoccato, esce a sua volta a stampa nel 1898. Soltanto nel 1910, il catanese Nino Martoglio mise in scena a Roma il vecchio atto unico, reintitolato La morsa. La novella, che pure corrisponde perfettamente alla prima scena de L’Epilogo, tiene fede al titolo, e sviluppa quasi esclusivamente il motivo della delusione di Lillina, adultera per amore e amante appassionata e sincera, dinanzi alla paura che attanaglia il suo erculeo amante trafitto dal sospetto che il marito si sia accorto della loro relazione. La dedizione e la generosità sentimentale della piccola donna vengono offese e disilluse dal panico e dalla tentazione di fuga dell’uomo. Il racconto sta tutto in questo confronto uomo-donna (che coinvolge pienamente anche il rapporto di Lillina col marito tradito) e sancisce una divaricazione polare di attributi che costituisce una costante del corpus, quella per cui la corporalità, la passione e l’azzardo passionale stanno sempre dalla parte della donna, mentre la caducità amorosa, la cautela, la riluttanza, la fuggitività sono tipici tratti maschili. Ne L’Epilogo, come poi ne La morsa, il finale agghiacciato e sospeso della novella viene sostituito da uno snodo che immette nella seconda scena, nella quale la donna si trova a tu per tu con la collera del marito che ha scoperto tutto e che incrudelisce fino ad imporle di abdicare anche alla maternità e fino a spingerla ad un melodrammatico suicidio. La donna pare presa nella morsa tra la viltà dell’amante e la violenza del marito; in realtà è schiacciata nella tenaglia d’un doppio e complementare disamore. Col senno degli anni a venire, si può dire che il delitto di cui Giulia s’è macchiata è quello d’aver preteso di restare donna dopo essere diventata moglie e madre: nell’assiologia repressiva del corpus, questo è un peccato per il quale non c’è clemenza.

2 Che non c’entravano affatto.

3 Con quest’ultima battuta, Lillina chiude rassegnatamente, e in perdita, tutti i suoi conti con la vita amorosa: per l’amante non le resta che «sprezzo e nausea», per il marito non più che un intenerimento di pietà. La donna Lillina muore in queste parole: sopravvive, secondo un grande topos pirandelliano, soltanto come madre.

«Vexilla regis…»

1 Fu pubblicata per la prima volta su «L’Italia» nell’agosto del 1897. Non venne più ristampata finché Pirandello non decise di includerla nel dodicesimo volume delle «novelle per un anno», Il viaggio (Firenze, Bemporad, 1928). Si riproduce il testo fornito da Mario Costanzo sulla base della mondadoriana del 1937-38 (v. Sole e ombra, n. 1).

2 L’attempata zitella tedesca porta il nome della madre della giovane amica di Pirandello a Bonn, Jenny Schulz-Lander. V. Natale sul Reno, p. 335.

3 Propriamente “gola”, “strozza”; qui sta per “parlata”.

4 Prossima a diventar fieno, gialliccia.

5 Sbatacchiando (toscanismo).

6 Svasatura del muro in corrispondenza della porta.

7 Molto annuvolato.

8 Cosa se ne deve pensare, signorina Laura?

9 Ah, signorina!

10 Oh Gesù! oh Gesù!

11 Ah no! no!

12 Sì invece!

13 Questo non posso dirglielo.

14 V. n. 10.

15 Città tedesca capoluogo dell’Assia, vicina al Reno e alle sue sorgenti termali. Pirandello vi soggiornò prima di rientrare in Italia da Bonn (v. FVN, pp. 81-2).

16 V. n. 11.

17 La vicenda di Alvina Lander, rievocata di scorcio e sommariamente, per molti aspetti echeggia quella di Salvazione e de La maestrina Boccarmè.

18 La guerra lampo franco-prussiana dell’estate 1870, provocata da Bismarck e conclusasi con una disfatta francese.

19 Rannuvolato (v. n. 7).

20 Gigantessa… mia cara gigantessa…

21 Su tutt’altro registro, il motivo dell’attesa come angoscia, e quello della paura d’addormentarsi, poco sotto connotato, vengono narrativamente svolti ne La paura del sonno.

22 Su quella lettera luttuosa proveniente da Wiesbaden si sono appuntati i timori d’una sedotta e abbandonata ormai matura, che della vita dell’ex-amante aveva fatto «segretamente la vita stessa del suo cuore», e lo sgomento del suo gemello maschio, anche lui reso padre (da Hans) e abbandonato con una figlioletta in grembo: è questa l’umoristica specularità che lega la governante tedesca al padrone; ma non solo questa, perché in comune i due personaggi hanno un altro tratto: l’una «la debolezza, se non la vecchiaja, venuta prima del tempo», l’altro la «senilità precoce» diventata fissazione e, anche lui, «una grande debolezza alle gambe, come un abbandono di tutte le membra divenute pesanti».

23 Il piano aperto.

24 Altrimenti contestualizzato, il motivo della madre fuggitiva e della figlia che, cresciuta col padre, la crede morta, sarà riutilizzato nel 1920 nella commedia Come prima, meglio di prima.

25 I Castelli Romani, ossia i paesi alle pendici dei Colli Albani.

26 I miei ossequi.

27 Monte Cavo è la vetta più alta dei Colli Albani. Compare qui per la prima volta nelle novelle, ma da «Monte Cave, 1893» Pirandello volle datato il suo primo romanzo, L’esclusa, e in quei dintorni saranno ambientati quattro racconti. V. FVN, pp. 85-6.

28 Cima nei dintorni di Bonn. Pirandello la ricorda per prima in una pagina del suo Taccuino di Bonn (v. SPSV, p. 1191): «Un po’ a sinistra, lontane, vedevo le famose sette montagne dietro un velo di nebbia: Drachenfels, Wolkenburg, Löwenburg, Petersberg, Nonnenstromberg, Oelberg, Lahberg». V. anche FVN, p. 75.

29 Nel luogo prescelto per l’attesa.

30 Ciao, ciao, tesoruccio.

31 D’un cane con questo nome c’è menzione nel taccuino tedesco: «Mob – da oggi in poi chiamerò sempre così il mio cane, non più Moppy, che è parola vuota. Mob è vocabolo inglese e vuol dire canaglia: sta bene a un cane» (v. SPSV, p. 1191). E Mob si chiama il cane d’una delle prosette firmate da Paulo Post, I filatori, stampata su «La critica» di Monaldi il 18 marzo 1896. Nel 1930, a soli due anni di distanza dalla ristampa della novella nel 1928 (ma la didascalia preliminare data la vicenda teatrale «dieci anni dopo la grande guerra europea», dunque precisamente al 1928), Mop sarà il nomignolo d’ascendenza animale di Greta Salter, una giovane omosessuale, nel dramma Come tu mi vuoi.

32 Irrobustite, più abbondanti.

33 È l’incontro tra una fobica senilità e una inguaribile immaturità; la replica, del resto, paradossale e grottesca del loro primo incontro (v. p. 400).

34 Guaiva festosamente.

35 Sfoltisce.

36 I pugni (v. Un invito a tavola, n. 15).

37 Per il riuso dell’immagine, v. Il dovere del medico del 1912: «ANNA Mamma mia, ma scusa… guarda… un sacco… si regge un sacco vuoto? E così un fatto, se non lo riempi di tante cose… di tante cose che tu non puoi sapere, e io so… – SIGNORA REIS Parli come lui! Così parla lui! I fatti… non sono fatti… sacchi vuoti… Così, così t’ha sempre ingannata»; e la versione del 1926: «SIGNORA REIS Dici ch’io vedo soltanto i fatti! – ANNA Ma ci sono pure tante cose che tu non puoi sapere e che io so. – SIGNORA REIS Ecco che parli come lui! Dio, mi par di sentirlo! I fatti che non sono fatti: sacchi vuoti che non si reggono…» (MN1, pp. 722 e 87). Più oltre ancora, v. Sei personaggi in cerca d’autore: «IL PADRE. […] Ma un fatto è come un sacco: vuoto, non si regge. Perché si regga, bisogna prima farci entrar dentro la ragione e i sentimenti che lo han determinato» (MN2, pp. 977-8 e 700).

38 È questa la candida, agghiacciante verità di Anny, bambina-madre e figlia-bambina d’una madre persecutrice, come ancora più esplicitamente confessava nella redazione del 1897: «prima d’esser madre, io ero figlia, anche io». Posta dinanzi al dilemma tra filialità-regressione e maternità-emancipazione, Anny cede alla coazione regressiva. Dopo una breve fuga amorosa con il padre (di sua figlia), la tenera Anny si scopre impreparata al gioco di gigante e gigantessa; il cavallino Hans, spaventato, si sottrae al suo domatore e corre a riunirsi alla madre, fugge con lei.

39 Di questo drammatico viaggio delle due donne tedesche, pur sotto spoglie in parte diverse, resta forse una traccia in un’altra novella, Nenia.

40 V. Natale sul Reno, p. 335 e n 10.

41 Mario Furri non sa naturalmente vedere la fissazione e l’ossessione melanconica che si celano nella sua precoce senilità, ma vede bene il guasto inverso di cui è vittima Anny. La madre-strega ha di fatto condannato la figlia a una perenne infanzia e punito il seduttore con la castrazione e la vecchiezza.

42 Divanetto (v. La signorina, n. 32).

43 Questa scoperta del doppio materno nella figlia è l’elemento perturbante che scatena la terribile e irrefrenabile crisi d’angoscia che travolge il personaggio nel seguito del racconto. Ma fin d’ora è il caso di notare (e v. naturalmente p. 392) che il riso femminile è in qualche modo una inquietante metonimia del sesso e dell’adescamento o dell’impudenza sessuale.

44 Scalinata bassa e larga.

45 Sussultando.

46 Propriamente, l’incrocio fra la navata principale e quella trasversale.

47 I canti coi quali viene accompagnata, il venerdì santo, l’adorazione della croce.

48 “Ecco comparire i vessilli del re”: è l’inizio di un inno di Venanzio Fortunato (vescovo di Poitiers, c. 530-600), col quale si glorifica il vessillo della croce di Cristo morto e che nella liturgia romana viene cantato a vespro nel tempo di Passione.