Prima notte

1 Fu pubblicata per la prima volta su «Il Marzocco» il 18 novembre 1900. Fu poi compresa nella raccolta del 1904 Bianche e nere (Torino, Streglio) e venne infine inclusa nel primo volume delle «novelle per un anno», Scialle nero (Firenze, Bemporad, 1922).

2 V. Dono della Vergine Maria, p. 466 e n. 22. Qui, la comparsa precoce del topos ha una funzione d’annuncio piuttosto chiara: quella cassapanca, in cui è conservato il corredo nuziale, non può contenere, simile com’è a una bara, che vesti da morto. Indossarle è rinunciare alla vita ed acquisire uno stato sospeso tra la vita e la morte. È precisamente quel che avviene: avendola la morte privata della protezione paterna e dell’amore, Marastella è destinata ad andar sposa al custode dei morti, ad essere festeggiata da un corteo di nozze che pare un mortorio e segue il percorso stesso dei funerali, ad avere il cimitero come casa nuziale e a diventare essa stessa custode di morti.

3 Liberare dal mallo, sgusciare.

4 Portatrice d’acqua.

5 Lintri, piccole imbarcazioni (dial. siciliano, dal latino linter –tris, “barchetta”, “canotto”).

6 Per questa località, v. Lillina e Mita, n. 2.

7 Erano allibiti, erano trasecolati; nella prima stampa: «erano rimasti oppressi di stupore».

8 Questa doppia notazione parentetica del narratore era assente nella prima stampa, e il nome dell’innamorato morto si apprendeva soltanto dalla parola consapevole e memore di Lisi Chìrico (v. qui p. 518: «C’è anche lo Sparti»).

9 Darti sicurezza e fiducia.

10 Luogo marcato della topografia girgentana di Pirandello. Molte vicende si svolgono tra la marina di Porto Empedocle, quest’«altipiano» che è lo zoccolo di terra che si affaccia sul mare e che ospita la casa natale dello scrittore, e il colle erto sul quale è aggrappata Girgenti. La prima quartina del sonetto Ritorno (compreso nella piccola raccolta del 1901 Zampogna) fissa questa breve mappa in termini inconfondibili: «Casa romita in mezzo a la natìa / campagna, aerea qui, su l’altipiano / d’azzurre argille, a cui sommesso invia / fervor di spume il mare aspro africano». E un abbozzo delle Informazioni sul mio involontario soggiorno sulla Terra ne riparlerà, a distanza di più di trent’anni, come di «una campagna d’olivi saraceni affacciata agli orli d’un altipiano d’argille azzurre sul mare africano».

11 Si veda, in Zampogna, la lirica A gloria 2-4: «Un bimbo, è vero? / entra in quest’alto e bianco cimitero / che ha, sotto, il mare e, dietro, la campagna»; v. La paura del sonno, p. 291 e n. 22 e Lontano, p. 635.

12 Ferito, tagliato.

13 Lo indossi per la prima volta, cominci a usarlo.

14 La distribuzione spaziale e quella dei tratti semantici è molto precisa: sotto e fuori il paese e la vita con i suoi rumori, lassù il cimitero cintato e «perduto […] nel silenzio»; il commiato tra la sposa e i vivi ha luogo sullo spiazzo (né dentro né fuori) e alla luce del tramonto (né giorno né notte), e la povera Marastella-Persefone implora fino all’ultimo Mamm’Anto’, Demetra esausta e rassegnata, di non lasciarla rinchiudere nel regno dei morti, per quanto benevolo e paterno appaia Plutone nei panni di Lisi Chìrico.

15 È una sorta di estatica iniziazione alla notte, all’incanto lunare (di Ecate o Artemide), alla selenica delizia della non-vita e del vuoto, e di consacrazione alla morte. Dopo la quale, la consumazione delle nozze non può che rovesciarsi nelle due battute di dialogo che la escludono per sempre: «Per carità, non mi toccate!» e «Non ti toccavo», e sublimarsi nel rito necrofilo che conclude la novella.

16 Lavanda.

17 Gorgoglìo e borbottìo.

18 La luna, altrove spiante e persecutoria, è qui piuttosto complice e muta confidente. E tuttavia è una sorta di amorosa catabasi quella che la sua luce tutela. Per questa presidenza lunare dei riti di vita-morte, v. Sole e ombra, pp. 302, 313 e n. 33, Il «fumo», p. 1023, Il viaggio II 552 e n. 39 e, più esplicita ancora, I due compari II 777 e n. 14.

La levata del sole

1 Fu stampata la prima volta su «Il Marzocco» del 6 gennaio 1901, e successivamente nella raccolta del 1902 Quand’ero matto… (Torino, Streglio) e in quella omonima del 1919 (Milano, Treves). Fu infine inserita nel decimo volume delle «novelle per un anno», Il vecchio Dio (Firenze, Bemporad, 1926).

2 Per sgraffignate. Nella forma meno comune, che Pirandello adotta solo nella stampa del 1926, non c’è più il graffio (uncino), ma la granfia (zampa artigliata dell’animale predatore).

3 È la tradizionale improrogabile scadenza entro la quale vanno onorati i debiti di gioco.

4 Nell’immagine di Colonia in tempo di carnevale riaffiorano ricordi del soggiorno tedesco di Pirandello: v. FVN, p. 71, e GG, p. 123.

5 Addebitabile qui all’esperienza e all’ottica soggettiva del protagonista, la imprecante metafora donna-scimmia è però anche manifestazione della misoginia diffusa nel mondo narrativo e drammaturgico pirandelliano, e che riaffiora ogniqualvolta la donna si presenta sotto l’aspetto di tentatrice e di trappola per l’uomo. Tuttavia, e se ne può soltanto accennare, la relazione fra i sessi – che costituisce una vera e propria polarità tematica nell’opera di Pirandello – non è né unidirezionale né semplice. Se la femmina-scimmia è un’epifania degradante della donna, l’uomo-porco regge benissimo il confronto. La vera e profonda divaricazione attributiva, e tendenzialmente assiologica, che contrappone il campo tematico maschile a quello femminile, si pone ad un altro livello ed è dovuta al fatto che il corpus pirandelliano tende a distribuire sul versante maschile i segni tematici ragione-intelletto, sentimento, purezza, bene, morte, e rispettivamente su quello femminile i complementari (e contrari) istinto-sensi, carnalità, impurità, male, vita.

6 V. Natale sul Reno, pp. 335-6 e n. 11.

7 Si confronti questa spavalda fantasticheria del morituro con lo sguardo intento di Ciunna prossimo a morire di veleno (in Sole e ombra, p. 313): «Alzò gli occhi al cielo, […] poi guardò i colli neri e la valle di nuovo, come per vedere quanto ormai rimaneva per gli altri, poiché nulla più era per lui». Nonostante l’evidente incomparabilità dell’ex-garibaldino intemerato, ladro per forza, e del viveur annoiato e nauseato, rovinatosi al tavolo da gioco; nonostante, soprattutto, l’esito opposto delle due vicende, l’avviarsi incontro alla morte dei due virtuali suicidi ha ugualmente più d’un tratto in comune, e l’appressamento alla morte, che comporta in entrambi i casi un tragitto anche fisico, ha qualcosa del percorso iniziatico di conoscenza e di prova, affollato di incontri e fitto di segni e chiavi da interpretare. Il motivo del «non più per sé», ulteriormente alleggerito di pathos e dunque ancor più lievitante, si presterà ad una successiva intensa variazione in Da sé II 885.

8 Nell’attraversare la città, Gosto Bombichi si imbatte nel ciccaiolo ruffiano; e Ciunna aveva incontrato prima la contadina e i tre ragazzi sotto il carrubo, e poi i mendicanti storpi o ciechi.

9 Malati e arrossati per un’infiammazione alla congiuntiva e con le palpebre gonfie e rovesciate in fuori.

10 Coperti da un velo vitreo di lacrime. Invetrare e invetrato sono parole care a Pirandello, probabilmente per suggestione colta del dantesco «le ’nvetrïate lagrime» di Inf. XXXIII, 128 (là riferito alla condizione dei dannati nella gelata della Tolomea, dove «le lagrime prime fanno groppo, / e sì come visiere di cristallo, / rïempion sotto ’l ciglio tutto il coppo»). Qui occorre anche il freddo della notte, ma l’espressione riaffiora altrove più volte senza quest’elemento di rinvio al modello. Molti anni più tardi, un luogo della novella O di uno o di nessuno (v. II 680) fornirà dell’espressivo aggettivo verbale (peraltro tacendolo) una suggestiva definizione tutta pirandelliana: «talvolta quello sguardo gli si velava per la commozione improvvisa di qualche lontano ricordo; e allora quella velatura di gelo era come l’appannarsi dei vetri d’una finestra, per il caldo di dentro e il freddo di fuori».

11 Come rappreso, immobile, fisso.

12 Si rammenti l’impressione di Ciunna in Sole e ombra, p. 305: «si sentì, all’aria fresca, risvegliar subito l’estro comico».

13 Questa, che per Gosto Bombichi è una delle prime rivelazioni, è l’estremo sospeso stupore di Ciunna prima che sopravvenga il terrore della morte: «Allo spettacolo di quella deliziosa quiete lunare una grande calma gli si fece dentro. […] Tra breve, non avrebbe veduto, non avrebbe udito più nulla… S’era forse fermato il tempo?» (v. Sole e ombra, p. 313).

14 L’opposizione città-campagna è un motivo assai attivo e ricorrente in Pirandello, e sottende polarità tematiche forti e fondanti, come artificio/natura, corruzione/purezza, confusione/semplicità. Il passo in questione, con le costellazioni lessicali e assiologiche contrapposte che permette di intravvedere e prefigurare, rappresenta, per quanto parzialmente, una esemplare espansione del motivo.

15 La notazione riaffiora in Esame VIII, 12-4, una delle poesie sparse stampata nel 1910: «[…] de le stelle onde la notte è viva / lo sfavillío che punge e allarga il cielo / in terra ad esser lume non arriva» (v. SPSV, p. 823), ed è poi ripresa in Certi obblighi II 661.

16 Fritinnio è un latinismo caro a Pirandello. In latino il verbo fritinnire designa il garrire delle rondini o il frinire della cicala, in Seneca persino il vagire dei bambini. Il deverbale pirandelliano – con la serie onomatopeica frn arricchita in frtn – designa invece lo stridio dei grilli.

17 V., per una analoga correspondance fra tremolii di luci celesti e tremuli suoni terrestri, il precedente di Sole e ombra, p. 313: «Saliva dal basso della valle un limpido assiduo scampanellare di grilli, che pareva la voce del tremulo riflesso lunare sulle acque correnti d’un placido fiume invisibile»; e la ripresa de I vecchi e i giovani: «Don Ippolito si sentì stringere improvvisamente la gola da un nodo di pianto. Guardò le stelle che già sfavillavano nel cielo, e gli parve che al loro lucido tremolìo rispondesse dalle campagne deserte il tremulo canto sonoro dei grilli» (v. RII, p. 120).

18 Cunetta o fossatello che fiancheggia le strade.

19 S’illuminava, splendeva di riflesso (altro pirandellismo linguistico).

20 Spandeva a sprazzi, spargeva.

21 Pelle laccata.

22 V. Sole e ombra, p. 312: «Udì un lontano abbajare, e pensò che quel cane abbajasse a lui errante laggiù».

23 V. Sole e ombra, p. 313: «gli alti colli di fronte sorgevano neri e si disegnavano nettamente nel cielo opalino».

24 È il sostitutivo dell’«estro comico» del vecchio Ciunna, il quale non può più scampare alla morte appunto quando quell’estro è in lui soffocato e spento da una «tetra gravezza». Ma più vero ancora è che senza tali spiriti o estri non si può essere soggetti di avventure estreme, comunque esse poi si concludano. Chi manca di tali doti (si veda ad esempio la Candelora della novella omonima), non può che scatenare la frana degli eventi ed esserne irreparabilmente travolto. La mancanza di spirito e di estro è in qualche modo il marchio del realistico, la loro presenza è invece una spia sicura dell’umorismo.

25 Sulla natura d’annuncio e di appello del canto del gallo, attestata da una tradizione sterminata, non è il caso di spendere parole. Viceversa, per la memoria interna, dalla quale assai probabilmente proviene l’immagine, v., in Mal giocondo, Intermezzo lieto VI, 57-8: «Un gallo canta, / ed un altro da lunge gli risponde» (SPSV, p. 480). La sequenza occorrerà anche ne I vecchi e i giovani: «udì un gallo cantare da un’aja lontana, un altro da più lontano rispondere» (v. RII, p. 120).

26 La profezia sarà decrittata e messa in chiaro molti anni più tardi dal non riconosciuto alter ego che visiterà il narratore nel primo dei Colloquii coi personaggi (v. III 183): «Che contano i fatti? Per enormi che siano, sempre fatti sono. Passano. Passano, con gli individui che non sono riusciti a superarli. La vita resta, con gli stessi bisogni, con le stesse passioni, per gli stessi istinti, uguale sempre, come se non fosse mai nulla: ostinazione bruta e quasi cieca, che fa pena. La terra è dura, e la vita è di terra».

27 V., nella raccolta poetica Zampogna (stampata nello stesso 1901), la lirica Ritorno II, 11-14: «Questo cespuglio di mentastro è forse / quello d’allora? Di fragranza acuta / la mano m’insapora, ed io risento / il sapor di quei dì» (SPSV, p. 610). Il mentastro (menta selvatica o menta d’acqua) è, nel corpus pirandelliano, insieme alla salvia cui più volte è accostato, l’erba aromatica per eccellenza.

28 Questa carezza dell’uomo stanco di vivere e questa risposta profumata di Gea, femmina e dea, hanno qualcosa dell’incontro prodigioso degli umani col divino tipico dei racconti mitologici. Il Wanderer Gosto Bombichi, che brama la propria fine, stende una mano a carezzare un cespuglio e senza saperlo accarezza i capelli dell’antica ed eterna Erda, la terra-madre, la donna, la vita; la quale mostra di accettare quella carezza insaporando la mano terrestre dell’uomo del proprio inebriante aroma celeste. L’uomo ancora non lo sa, ma è già scampato alla morte e già appartiene di nuovo alla vita.

29 Anche Gosto Bombichi, come Ciunna, torna col pensiero alla vita che s’è lasciato alle spalle e alla lettera di addio; ed anche lui ha per un attimo la visione d’una realtà postuma. Proprio questo pensiero doppio, di se stessi vivi nel disonore o nella nausea e di se stessi morti, conduce entrambi i personaggi al discrimine ineluttabile della loro esperienza. Chiuso nel buio della sua funebre carrozza nera, dalla quale non ha avuto la forza di scendere, Ciunna non ha scampo; Gosto non avrebbe sorte migliore se la femmina-cespuglio profumata e il sole non lo salvassero.

30 Letteralmente “si imbiancò schiarendosi”, ma, nell’uso pirandelliano del verbo, non infrequente, vale piuttosto «si soffuse d’una luce d’alba». Qui la riprova sta nel fatto che si tratta d’una «tenera freschissima luce verdina», della quale, per apprezzare l’inalbarsi nel suo giusto valore idiolettale, la tenerezza e la freschezza contano assai più del colore.

31 Per questo sorgere d’alba, v. ancora il già citato Intermezzo lieto VI, 50-7: «È buio ancora. / Nero, sotto la fresca ombra, e indeciso / però già il pian si rappresenta al guardo. / Cresce il chiaror de l’alba, e lentamente / cominciano ad imbeversi di lui / le cose: ecco, tra rosei vapori, / là i monti, quasi monstri in sonno accolti, / qua gli alberi piú grandi» (SPSV, p. 480); e la ripresa de I vecchi e i giovani (in RII, p. 122): «si fermava sotto l’ombrellone del pino solitario laggiù dove l’altipiano strapiomba sul mare, per assistere alla levata del sole dalle alture della Crocca, in fondo in fondo all’orizzonte, livide prima, poi man mano cerulee, aeree e quasi fragili».

32 Vacillante, tremolante.

33 Si completa la sequenza salvifica di ombra e sole, speculare rispetto a quella di Sole e ombra che presiede alla sorte di Ciunna (v. p. 310): «Il sole tramontava. Il mare, d’un verde vitreo presso la riva, s’indorava intensamente in tutta la vastita tremula dell’orizzonte. Il cielo era tutto in fiamme, e l’impidissima l’aria, nella viva luce, si tutto quel tremolio d’acque incendiate». Era stato proprio il sole al tramonto a fargli schivare la morte per acqua e a ridargli vita, ma era poi affogato nella luce notturna della luna.

34 Questo sonno profondo, arricchito della nota quasi comica del rumoroso russare, se anche non è propriamente un lieto fine, chiude euforicamente la storia smentendo il proposito-profezia d’apertura: «L’alba di domani non la vedrò». Anche il Ciunna di Sole e ombra aveva dormito «saporitissimamente» la notte prima di suicidarsi, quando quella convinta e serena intenzione di morte (alleggerita e quasi svuotata di pathos dalla capacità di distacco dell’autopsia umoristica) l’aveva messo in pace con se stesso; ma si era ritrovato con gli occhi sbarrati nel buio quando, essendo rimasta la sua situazione ugualmente insostenibile, quell’intenzione s’era rovesciata in fervida voglia di vivere. Ciunna non può dormire, e muore, perché è troppo commosso e vivo, troppo attaccato alla vita; Gosto Bombichi non si uccide e si addormenta beatamente al sole perché la vita «gli s’era bucata irrimediabilmente e sgonfiata tra le mani» come una palla, perché non gliene resta infine altro che una nausea che l’ambrosia della dea-cespuglio gli consente di placare. Nell’universo pirandelliano, non si rinuncia violentemente alla vita se non la si ama, e non si sopravvive a catastrofi irrimediabili se si è troppo pieni di vita. In questo senso, e sebbene i personaggi d’un racconto non abbiano alcun destino che varchi i limiti del racconto stesso, la sopravvivenza di Gosto e il suo sonno non sono un tradizionale lieto fine e neppure un vero e proprio finale, e rappresentano piuttosto la conclusione aperta e sospesa d’una vicenda che la narrazione non segue oltre.

Nenia

1 Fu pubblicata per la prima volta su «Il Marzocco» il 24 febbraio 1901. Il 19 febbraio di quell’anno Pirandello, inviandola ad Angiolo Orvieto, fondatore della rivista, aveva scritto: «eccoti una novellina breve breve, tenue tenue: un fuscellino. Spero che ti piacerà» (v. CAR, p. 277). Non più ristampata, nel 1922 venne inclusa nel terzo volume delle «novelle per un anno», La rallegrata (Firenze, Bemporad). Si riproduce il testo fornito da Mario Costanzo sulla base della mondadoriana del 1937-38 (v. Sole e ombra, n. 1).

2 Curiosa e attraente: nella prima stampa era «bizzarra».

3 Raccolti alla meno peggio.

4 Svagati, assorti.

5 Il racconto non raccontato, breve bozzetto d’un album di viaggio, è tutto racchiuso nella malinconica affettuosità della nenia ripetuta e nella congetturale corrispondenza che lega le due difformi coppie nutrice-bambina. Il viaggiatore bozzettista asserisce d’aver capito a cosa pensasse e che cosa rimpiangesse la giovane tedesca bionda; e la spiegazione non può consistere che nel fatto che qualcuno le ha detto d’amarla più di chiunque altro, e l’ha ingannata.

Il vitalizio

1 Fu pubblicata per la prima volta in «Natura ed Arte» il 1° e 15 marzo 1901. Successivamente, fu compresa nella «seconda serie» di Beffe della morte e della vita (Firenze, Francesco Lumachi, 1903) e nella raccolta Il carnevale dei morti (Firenze, Battistelli, 1919). Venne infine inclusa nel decimo volume delle «novelle per un anno», Il vecchio Dio (Firenze, Bemporad, 1926). Della referenzialità dello spunto della novella, reca testimonianza GG, p. 222, n. 1: «Il vecchio della novella esistette, e nella realtà si chiamava Antonino Cirino (era soprannominato ’u sajaru). Morì, dopo avere compiuto 105 anni, a Girgenti. Usufruì del vitalizio (730 lire annue) dal 1877 al 1905. Dell’“uomo dei tre secoli”, si occupò anche Richel, in un articolo di prima pagina sulla Tribuna di Roma. Vedi, per ulteriori particolari e coincidenze tra la novella e la cronaca, Francesco Sinatra, Giornale di Sicilia, 27 gennaio 1957».

2 Le stampe del 1901 e del 1903 recitavano: «Teneva le mani scabre e terrose su i ginocchi»; quella del 1919 suonava: «Curvo, con le braccia appoggiate su le gambe discoste, teneva le grosse mani terrose insieme» (v. NUAII, pagg. 1350 e 1373). La variante del 1926 è dunque parzialmente sostitutiva e non instaurativa. Ma proprio perciò attesta gli scambi interattivi fra taccuini e testi pirandelliani. L’appunto registrato in TS, p. 43 («Con le mani abbandonate, come morte, tra le gambe discoste») verrà assorbito in Uno di più (III 517), ma è la correzione de Il vitalizio che suggerisce il recupero e il riuso delle «gambe discoste» mentre è coinvolta nell’instaurazione della comparativa «come morte».

3 Costruzione contadina, che è appunto «casa e stalla insieme»: v. I vecchi e i giovani: «qualche tugurio screpolato e affumicato, che i contadini chiamavano roba, stalla e casa insieme» (RI, p. 32).

4 Letame, concime.

5 V. TS, p. 61: «Sbattendo gli occhi continuamente».

6 La gazza è un uccello dei Corvidi, e come un ghignare è dato il suo gracchiare ritmico e iterato.

7 Uccelli della famiglia delle allodole ma un po’ più grossi, dal piumaggio marrone di sopra e chiaro, quasi bianco, di sotto, e un semicollare nero ai lati del collo.

8 Per una replica del medesimo paesaggio piovorno con uccelli, v. Il turno, in RI, p. 256: «Da presso s’era levato un venticello fresco, che pareva esortasse gli alberi esausti a far buon animo, ché tra poco avrebbero avuto la pioggia tanto attesa. E dalle campagne arsicce, irte di stoppie, a destra e a sinistra dello stradone scosceso, venivan gli strilli giojosi delle calandre, che forse si annunziavano anch’esse la prossima acqua, e le risate di qualche gazza».

9 Ripulitura degli alberi da frutto da rami secchi e polloni superflui.

10 Quelli primaverili ed estivi; v. Tanino e Tanotto, p. 686: «nei mesi grandi, com’egli a modo dei contadini chiamava il tempo che corre dal marzo al settembre».

11 Quartiere popolare della vecchia Girgenti.

12 Dopo il preannuncio del titolo, il racconto esibisce un incipit canonicamente realistico e malinconico. L’evocazione condensatissima della sorte toccata a Ciuzzo Pace fornisce anche il precoce e fulmineo modello d’una conclusione altrettanto realistica della vicenda. Insomma, la storia di Ciuzzo Pace è la mise en abîme d’una trama narrativa imperniata sul contratto vitalizio stipulato da un vecchio, e sviluppata fino in fondo in termini realistici. Tanto basta a far capire che la storia di Maràbito non ne ricalcherà affatto le orme.

13 V. più sotto, p. 542 e n. 77.

14 Intere.

15 Manzo, bovino giovane.

16 Macchina per il sollevamento di acqua, sabbia o materiali minuti, e che può essere messa in movimento da un motore, a mano oppure da un animale. V. anche Il treno ha fischiato… III 23.

17 Legate con la pastoia, ossia con una fune alle zampe anteriori, che impedisce alle bestie di allontanarsi.

18 Residuo, ricco di proteine, della macinazione del grano.

19 Zio Maràbito. Quello di zio (troncato in zi’, che in realtà era originariamente forma accorciata di sire) è l’appellativo familiare ma rispettoso col quale nel Mezzogiorno ci si rivolge a persone anziane.

20 Sgangherati, sconquassati.

21 Carrozza signorile a doppio mantice e a quattro ruote, normalmente tirata da una pariglia di cavalli.

22 L’espansione descrittiva successiva ai due punti viene messa a testo nella stampa del 1926. Quasi simultaneamente, dunque, alla stampa in rivista («Fiera Letteraria», dicembre 1925-giugno 1926) e a quella in volume (Firenze, Bemporad, 1926) del romanzo Uno, nessuno e centomila, nel quale si legge: «Tuttavia, quelle rimesse con quei vecchi landò d’affitto, con l’attacco a tre, per quanto impregnati di tutto il lezzo delle lettiere marcite e del nero delle risciacquature che stagnava lì davanti, mi facevano anche pensare all’allegria delle corse in carrozza, da ragazzo, quando si andava in villeggiatura, per lo stradone, tra le campagne aperte che mi parevano fatte per accogliere e diffondere la festività delle sonagliere. E in grazia di quel ricordo mi pareva si potesse sopportare la vicinanza delle rimesse» (v. RII, p. 765). Nel caso, parrebbe più probabile che l’inserto novellistico, che ha natura d’inciso, sia debitore della pagina di romanzo; ma basti la congettura. Certo è invece che la lezione romanzesca risulta fissata anche in uno degli Appunti pubblicati da Pirandello sul «Corriere della Sera» il 7 aprile 1929: «Mi ricordo, ragazzo, l’allegria di certe corse in campagna, in landò d’affitto con l’attacco a tre, per lo stradone quand’era in piano, tra le campagne aperte che mi parevano fatte per accogliere e diffondere la festività delle sonagliere» (v. SPSV, p. 1207). Tutto questo materiale testuale concorrerà nel 1929 a comporre, attraverso una ulteriore riscrittura variata, una delle memorie fanciullesche di Lucio in Lazzaro: «LUCIO (avvertendo il suono) Senti, mamma? SARA Che cosa? LUCIO Queste sonagliere. SARA Sono della carrozza del dottore. LUCIO Quand’ero bambino, mi pareva che le campagne aperte, di mattina, nel sole, fossero fatte per diffonderne il suono festivo. SARA Ma la campagna tu, da bambino, figlio mio… – LUCIO – la vedevo dall’alto del cortile del Seminario, su a San Gerlando. I miei compagni nell’ora della ricreazione, si rincorrevano, gridando come pazzi e tirandosi su le tonache, per correr meglio. Io me ne stavo là in fondo, da dove si godeva la gran veduta della vallata verde, con lo stradone che la solcava; e vi scorgevo, piccole piccole, le carrozze che andavano in campagna, con l’attacco a tre, e me ne giungeva da lontano lontano – ecco, com’è ora – questo suono. […] Mi pareva di sentir l’allegria d’una corsa in campagna, in quel verde indorato dal sole, nell’aria aperta. Ho così forte il senso dei luoghi, l’odore delle cose. Penso a quando uscivamo dal Seminario a due a due per la passeggiata, passando accanto a uno di quei landò d’affitto, in piazza, ecco, ne sento ancora quel tanfo di rimessa» (v. MNII, p. 1196).

23 (Dial. siciliano) servo di Vostra Eccellenza (voscenza deriva dallo spagnolo vuecencia, contrazione, appunto, di “Vuestra Excelencia”). È la formula di saluto particolarmente enfatica che il contadino e il subalterno rivolgono al borghese ricco o al galantuomo.

24 Asta di legno, lunga circa 1,50 metri, adoperata per misurare i tessuti.

25 Stoffe e tessuti.

26 La principale strada di Girgenti: v. sotto p. 536: «la via maestra, ch’egli non chiamava col suo nome – Via Atenèa – ma a modo di tutti (e chi sa perché) la Piazza Piccola».

27 V. l’analogo atteggiamento di una moglie altrettanto enorme in Notizie del mondo, p. 575: «[…] ho molto ammirato Postella moglie, che pendeva dalle labbra del marito e approvava col capo quasi a ogni parola».

28 I due gioielli dorici della akragantina Valle dei Templi. Il poderetto di Maràbito è immaginato subito a monte della piccola dorsale sulla quale si stagliano i templi, com’era esplicitamente detto nelle prime due stampe: «Il fondo del Maràbito stava proprio in mezzo, tra i due Tempii e, di fronte, in fondo, aveva il mare, su cui, a oriente, s’allungava come uno sprone d’argento Punta Bianca; dietro aveva la città alta sul colle» (v. NUAII, p. 1353).

29 Non gli riuscì.

30 Denunciare difetti, trovar da ridire.

31 Era ed è nell’uso chiamare giardini gli agrumeti.

32 V. Lumíe di Sicilia, n. 1.

33 Varietà d’arance dolci.

34 (Letteralmente) rosso vivo o color oro caldo; ed anche qui la parola vermiglio, di cui Pirandello sottolinea con il corsivo la coloritura idiomatica che assume in bocca al «garzone» Grigòli, allude al colore aureo e arancione delle lumíe e dei portogalli appena vantati. Altrettanto varrà, dodici anni più tardi, anche senza mediazioni linguistiche rustiche, per i «giardini vermigli» di Zùnica ne La veste lunga (v. II 810). Ma la parola racchiude già anche un altro senso, figurato e non propriamente coloristico, quello che affiorerà, alla stessa altezza cronologica de La veste lunga, nel giudizio entusiasta che Giorgio Mirelli darà della sorella nei Quaderni di Serafino Gubbio operatore: «E Duccella, Ducella? / Ah come risero gli occhi del fratello alla mia domanda! / – Vermiglia! Vermiglia! / E mi disse che già da un anno era fidanzata al baronello Aldo Nuti» (v. RII, p. 550). Tanto più in bocca al pittore Mirelli, innamorato dei colori, l’aggettivo vira al figurato, e vale qualcosa come “in fiore” o “fiorente”.

35 Gonfiava.

36 Produttive, che fruttificano abbondantemente.

37 Lo staio era una misura, variabile da regione a regione, per i cereali e altri prodotti agricoli.

38 La notazione olfattiva, aggiunta nel 1926, trapasserà più tardi in Cinci (1932) III 550: «[…] e qua la terra solla, nera, zappata da poco, da cui esala ancora quel senso d’umido corrotto nell’afa delle ultime giornate d’ottobre, ancora di sole caldo».

39 Minchione, babbeo.

40 Viale della Vittoria, che si affaccia sulla valle dei Templi.

41 Che costituisce l’entrata verso il centro storico della città.

42 Lo slargo su cui si affaccia la chiesa di Santa Lucia, alle cui spalle si distende il quartiere omonimo.

43 V. TS, p. 66: «Nella strada stretta i passi facevano l’eco».

44 V. TS, pp. 58-9: «Case che, sul davanti, nella straduccia lassù, sono d’un sol piano, qua di dietro son palazzoni alti con muri che pajono di cattedrali».

45 V. TS, p. 60: «La via scende fino al Piano di Ravanusella come una corda che s’allenti. Si vedono ancora per un breve tratto in principio, per lo spazio che correva tra una torretta e l’altra le antiche mura della cinta. Il pendio del colle è troppo ripido e i muri di dietro delle case sono a ridosso».

46 V. sopra n. 9. Quello del vecchio Maràbito è un preciso e appartato percorso girgentano (oggi sconvolto) che, dal luogo che gli consente di guardare ancora, dall’alto, la campagna già sua – così come in principio aveva cercato con lo sguardo, dal podere e dal basso, il campanile della parrocchia nel Ràbato –, lo riporta al suo casalino urbano.

47 Chiodati.

48 Lavorata in forma tubolare, come una calza.

49 Abbandonato a sedere comodamente.

50 Gli scappava fuori (v. anche Marsina stretta, p. 609).

51 V. Resti mortali III 472, che costituisce antecedente prossimo rispetto a quest’ultima lezione: «E i due nipoti, rossi come gamberi, con le camìce bianche che, nello scompiglio dell’esagitazione, strabuzzavano loro dalle maniche nere e perfino di sotto il panciotto»; e la puntuale annotazione di TS, p. 58: «Così sbracato che la camicia gli strabuzzava perfino di sotto il panciotto».

52 La battuta, instaurata nella revisione del 1926, è annotata nel Taccuino: «Mi rimprovera il pane che mi mangio e questi quattro giorni che mi restano» (v. TS, p. 42).

53 La salma era un’unità di misura regionale della superficie, equivalente a 17,462 m2.

54 Bonificata, messa a cultura e curata.

55 V. TS, p. 44: «Rubare a tutto spiano».

56 La pappagorgia (la gargia è propriamente la branchia dei pesci).

57 Disposto a, in vena di.

58 Mobile vecchio e ingombrante.

59 Polenta di fave cotte e pestate.

60 V. TS, p. 63: «Erba da bestie e non da cristiani».

61 Strombatura, svasatura.

62 Sono «compere nuove» anche per il testo della novella. Questo capoverso inaugura infatti un lungo inserto (che si prolunga fino alla fine del quarto capitolo della novella e profondamente modifica, arricchendolo, il profilo del vecchio Maràbito), instaurato soltanto nella redazione ultima del 1926. In particolare, le stoviglie e le posate nuove provengono direttamente da una delle tavole imbandite all’aperto nella Sagra del Signore della Nave, stampata l’anno prima: «Poi, fischiettando, apparecchierà le tavole con piatti di rozza terraglia smaltata e dipinta con certe ditate di rosso e di blu che vorrebbero esser fiori, e posate di stagno» (v. MNII, p. 484).

63 V. TS, p. 45: «Quando le case vecchie hanno preso la polvere, spazza, spolvera, quel [mucchio] non se ne va più». Il segno mal leggibile può anche essere un trascorso di penna di Pirandello.

64 In forte pendenza.

65 V. Ritorno III 458 e n. 3.

66 V. TS, p. 58: «Con quel po’ di cielo che si vedeva nello stretto del vicolo». Dell’impressione di Maràbito ragazzetto, instaurata nel 1926, e dell’appunto che la fissa, si gioverà due anni più tardi anche il vecchio Tobba, il santo de La nuova colonia: «TRENTUNO Mi fa ridere Tobba, intanto: “Non so come ci possano stare in città con quel po’ di cielo che si vede nello stretto dei vicoli, mentre qua – dice – te lo puoi bevere tutto fino a inebriarti, abbandonato fra l’erba al silenzio”» (v. MNII, p. 1093).

67 La spianata sulla sommità del colle, sulla quale si erge il Duomo normanno di Agrigento.

68 V. TS, p. 51: «Non si vedeva altro che tetti: tetti che sgrondavano chi più e chi meno, tesi in tanti ripiani».

69 Borgata negli immediati dintorni di Agrigento.

70 Città argentina (v. L’altro figlio, n. 22).

71 Rannicchiarsi.

72 Zia.

73 V. TS, p. 53: «Femmine, pentolacce squarciate».

74 Signora. È voce popolare siciliana che si forma per riduzione di ’gnura per signura.

75 Mammella avvizzita.

76 V. TS, p. 44: «Tutte con tanto di pancia, come se fossero gravide, con le sottane che, dietro, spazzano la strada, e, davanti, rizzate un palmo da terra»; e: «Cavò fuori la cioccia, pellàncica cenciosa». I due appunti vengono messi in opera qui nel 1926 e successivamente in Cinci III 548.

77 V. anche sopra p. 531: «Era solo, perché non aveva mai voluto né donne né amici». Per un verso, già quel primo tratto, per quanto fornito di scorcio, non era da trascurare: diceva che il vecchio Maràbito, come avviene ad altre figure pirandelliane perfettamente aderenti a un loro ruolo pervasivo e totalizzante, e nel contempo isolante (esemplare quello della madre), non era mai stato uomo e compagno di uomini o donne, ma solo ed esclusivamente contadino. In questo secondo ampio passo esplode però apertamente (dopo la galleria di innamorati riluttanti e sfuggenti delle primissime novelle) la latente misoginia di parecchi uomini soli pirandelliani. Soprattutto curioso è peraltro che il maschilismo dal quale, più o meno esplicito, è sempre sottesa come dal suo logico complementare, sia qui speciosamente appoggiato e legittimato da una ipotetica ottica collettiva femminile (e per questa tematica irrimediabilmente contraddittoria, v. Acqua amara II 111 e 112 e n. 21). Ma ancora più sorprendente è che i connotati misogini di Maràbito non provengano dagli strati più antichi del testo, ma si instaurino solamente a partire dalla stampa del 1919. E in quella redazione il dato nucleare, inserito nel primo capoverso del racconto e dunque in sede pressoché incipitale, marca subito profondamente il personaggio, che appare seduto come qui sul murello davanti alla roba e del quale si legge: «Assorto in una tristezza dura e taciturna, d’uomo che non aveva mai voluto né donne né amici». L’ampio segmento in discussione scaturisce però addirittura dalla radicale riscrittura del paragrafo IV cui Pirandello ha proceduto per la stampa del 1926. Nella incessante guerra tra i due sessi che percorre il corpus, fatta di seduzione femminile intrappolante e di violenta aggressività o succube soggezione maschile, questa tarda aggiunta configura per una volta, e in termini quasi divertiti, una sorta di onorevole tregua e il riconoscimento, da parte del sesso presuntamente debole, d’una coerente astuzia nell’avversario che ha saputo sempre schivare le trappole ed astenersi dallo scontro. È una mossa obliqua, per non dire subdola, del narratore: a conforto dei numerosi predecessori e personaggi misogini (e impauriti dalle donne), le popolane di Girgenti rendono omaggio, ancora nel 1926, alla saggia misoginia di Maràbito.

78 L’intelaiatura.

79 Messo su, preparato.

80 Ferri da cavallo vecchi.

81 L’intero episodio del dissidio fra il medico e le popolane superstiziose rinvia alla analoga renitenza ad affidarsi alla medicina che era stata al centro della novella terracciana del 1897 Il dottor Cimitero (assai più tardi riveduta radicalmente e reintitolata Acqua e lì). Da essa, e più precisamente dalle parole dell’esposto che il povero dottor Antonio Corvo-Calajò invia al prefetto, proviene anche il personaggio della Malanotte: «Ma c’è anche la peste, Signor Prefetto, delle fattucchiere, o magàre, come si chiamano qui a Terraccia […]. Porta tra queste ree femmine la bandiera una dagli occhi lupigni, adunco naso, ferruginei capelli, insomma di paurevole aspetto, intesa comunemente la Malanotte, una vera arpia, anzi una furia, Eccellentissimo Signor Prefetto, da respingere all’inferno, donde certamente è uscita» (v. p. 344).

82 I pugni (v. Un invito a tavola, n. 15).

83 Per colpa mia.

84 Rami di salice.

85 Giunchi o altri arbusti delle salicacee.

86 Rami flessibili di alcune specie di salice. Questi vimini chiudono di fatto una trittologia allitterante pressoché sinonimica.

87 Rifiutando di riconoscere, rinnegando.

88 Butti.

89 Si trova, rispetto a Girgenti, circa 80 miglia al largo in direzione sud-ovest.

90 Cirrosi.

91 Deviare.

92 (Letteralmente) la goccia scava la pietra, per dire che, goccia a goccia, l’acqua scava la pietra.

93 In aggiunta al resto.

94 Detrazione.

95 Diventare idrofoba.

96 Da ebreo usuraio.

97 Eccellenza sì.

98 Dello zolfo.

99 Cantieri edili.

100 Maliziosamente, le donne alludono ancora una volta alla verginità del vecchissimo contadino.

101 Viene sempre più aprendosi la forbice umoristica tra la leggenda arguta e ilare che circonda il vecchione e il suo progressivo malinconico fissarsi nell’idea d’una propria colpa.

102 Variazione sul motivo dell’essere maturi per la morte: v. Chi fu?, p. 299 e n. 12. Il vecchio Maràbito diventa sempre più una sorta di Munchhausen contadino, tenuto in vita, suo malgrado, da un sortilegio.

103 «Fuoco d’artificio consistente in una leggera ruota guarnita di bengala o fiamme colorate, alla quale viene impresso un rapido movimento dalla combustione di una serie di piccoli razzi disposti tangenzialmente alla sua circonferenza esterna» (Devoto-Oli).

104 Cambiamento repentino.

Prudenza

1 Fu pubblicata per la prima volta su «Il Marzocco» il 17 marzo 1901. L’anno dopo, fu compresa nella raccolta Quand’ero matto… (Torino, Streglio). Non più ristampata, fu recuperata solamente nell’Appendice di L. PIRANDELLO, Novelle per un anno, vol. II, a cura di M. Lo Vecchio-Musti e A. Sodini, Milano, Mondadori, 1938.

2 Come si legge nel libro dei Giudici (16.17-20), l’eroe ebreo Sansone, sacro a Dio che gli ha fatto ordinare di non tagliarsi mai i capelli, viene abbandonato dal Signore e privato di tutta la sua forza quando svela alla sua amante Dalila d’essere un nazareo, s’addormenta fra le braccia di lei e viene raso nel sonno.

3 Di questo breve divertissement umoristico Pirandello si ricordò forse, una decina d’anni più tardi, quando, al filosofo ossessionato, e nemico acerrimo delle consuetudini, de La trappola, fece dire, con rabbia filosofica ben altrimenti fondata (v. II 696): «Sono arrivato, è vero, anche a radermi il capo, per vedermi calvo prima del tempo; e ora mi sono raso i baffi, lasciando la barba; o viceversa; ora mi sono raso baffi e barba; o mi son lasciata crescer questa ora in un modo, ora in un altro, a pizzo, spartita sul mento, a collana… / Ho giocato coi peli. / Gli occhi, il naso, la bocca, gli orecchi, il torso, le gambe, le braccia, le mani, non ho potuto mica alterarli. Truccarmi come un attore di teatro? Ne ho avuto qualche volta la tentazione. Ma poi ho pensato che, sotto la maschera, il mio corpo rimaneva sempre quello… e invecchiava!».

4 Acconciatori.

5 (Letteralmente, seppure scritto scorrettamente) “taglio di capelli”.

6 «Quel pezzuolo di pannolino al quale, nel far la barba, nettasi il rasoio» (Tommaseo). È un fiorentinismo.

7 Abbastanza corti e con la scriminatura da un lato (v. anche Senza malizia II 63), all’uso dell’imperatore di Germania Guglielmo II, salito al trono nel 1888.

Notizie del mondo

1 Di Notizie del mondo, come novella eponima d’un libro di «novelle umoristiche» che l’editore milanese Galli sarebbe stato in procinto di stampare e remunerare, Pirandello parla in una lettera ai familiari del 21 agosto 1897: «Né ho ricopiato soltanto; ho dovuto condurre a fine la prima che, più che novella, è quasi un romanzetto e darà il titolo all’intero volume: Notizie del mondo. In questo libro sono intercalati a mo’ d’intermezzo, i Dialoghi tra il Gran me e il piccolo me» (v. EFG, p. 67). L’impresa non andò a buon fine: la lunga novella venne pubblicata nella «Rivista d’Italia» (marzo e aprile 1901), e l’anno successivo nella raccolta Beffe della morte e della vita (Firenze, Francesco Lumachi, 1902); e in entrambe queste occasioni Pirandello fece seguire al titolo la definizione «racconto». Fu infine compresa nel quarto volume delle «novelle per un anno», L’uomo solo (Firenze, Bemporad, 1922). Si riproduce il testo fornito da Mario Costanzo sulla base della mondadoriana del 1937-38 (v. Sole e ombra, n. 1).

2 Quelli che in Sole e ombra erano stati chiamati gli «strambi soliloquii dialogati» del personaggio Ciunna, protagonista ma non narratore della storia, diventano qui il modo specifico della narrazione e si traducono nella soggettività forte e costante del discorso in prima persona, che è anche, non casualmente, il protocollo discorsivo privilegiato della scrittura umoristica. Riconoscendolo e identificandolo in un particolare modo di guardare le cose, Pirandello definì l’umorismo come «sentimento del contrario» (v. L’Umorismo, in SPSV, p. 127). Nulla vieta, beninteso, che un narratore estraneo alle vicende che racconta assuma questo punto di vista renitente ad aderire alla realtà e attento invece alle sue contraddizioni; ma, poiché l’umorismo non esiste senza un linguaggio che traduca in segno quella speciale ottica, la finzione della parola diretta e del parlato è il veicolo più naturale della scrittura umoristica. Il discorso in prima persona consente infatti come nessun altro le più brusche variazioni di messa a fuoco (dall’infinito al primo piano, dallo sfondo al dettaglio) e le più fulminee inversioni di campo, capace com’è di passare, dall’inquadratura del dato-evento esterno, a inquadrare autoriflessivamente se stesso; ed esposto com’è, in ragione della soggettività che esprime, ai più imprevedibili détours digressivi. L’umorismo può sprigionare ironia ed autoironia, sarcasmo e comicità, ma non è propriamente nessuna di queste cose; è invece sempre parola non impersonale che accarezza o striglia la realtà di contropelo.

3 La breve espansione descrittiva interviene solo nel 1922, e pare memore del lume che le Nini hanno tenuto in serbo ed offrono al loro inquilino ne Il lume dell’altra casa (1909): «[…] quello buono, messo apposta da parte, di porcellana coi papaveri dipinti e il globo smerigliato» (v. II 444).

4 In questo passo viene sfiorato, in termini ancora impliciti, un motivo più tardi sviluppato, quello della «reciprocità dell’illusione». Quest’ultima viene definita, nel 1914, ne I pensionati della memoria (v. III 17): «Voi piangete perché il morto, lui, non può più dare a voi una realtà. Vi fanno paura i suoi occhi chiusi, che non vi possono più vedere; quelle sue mani dure gelide, che non vi possono più toccare. Non vi potete dar pace per quella sua assoluta insensibilità. Dunque, proprio perché egli, il morto, non vi sente più. Il che vuol dire che vi è caduto con lui, per la vostra illusione, un sostegno, un conforto: la reciprocità dell’illusione»; e, l’anno dopo, il motivo riaffiora nitidissimamente nei Colloqui coi personaggi, ove l’alter ego narrante finge di rivolgersi alla madre morta: «È caduto a me, alla mia realtà, un sostegno, un conforto. Quando tu stavi seduta laggiù in quel tuo cantuccio, io dicevo: “Se Ella da lontano mi pensa, io sono vivo per lei”. E questo mi sosteneva, mi confortava. Ora che tu sei morta, io non dico che non sei più viva per me; tu sei viva, viva com’eri, con la stessa realtà che per tanti anni t’ho data da lontano, pensandoti, senza vedere il tuo corpo, e viva sempre sarai finché io sarò vivo; ma vedi? è questo, è questo, che io, ora, non sono più vivo, e non sarò vivo per te mai più! Perché tu non puoi più pensarmi com’io ti penso, tu non puoi più sentirmi com’io ti sento! E ben per questo, Mamma, ben per questo quelli che si credono vivi credono anche di piangere i loro morti e piangono invece una loro morte, una loro realtà che non è più nel sentimento di quelli che se ne sono andati» (v. III 191).

5 Il tema del candore attraversa per intero l’opera pirandelliana. V. anche la novella del 1905 Va bene II 132 e la n. 20. Nello spazio di una nota non è possibile né documentarlo né discorrerne adeguatamente. Il candore è in ogni caso prerogativa di personaggi che appaiono santi, matti o fanciulli, o che contemperano questi tre connotati. Il candore è genuinità intatta, verginità di cuore e di mente, è carità, generosità, fiducia negli uomini e ignoranza del mondo. Non solo non è dote da uomini grettamente interessati, ma neppure da uomini con i piedi ben piantati per terra e che si muovono a loro agio nella realtà. E, soprattutto, non è mai dote da ragionatori, da umoristi, da filosofi. Potrebbe sorprendere che un’amicizia fraterna abbia legato il candido Momino e il quasi-filosofo Tommaso Aversa, se non fosse chiaro che la straniata riflessione dei pensatori e la sincerità dei candidi sono due modi complementari di erodere la realtà ossificata, alla quale né gli uni né gli altri aderiscono: i filosofi la denudano rovesciandola come un guanto e ridicolizzandola, i candidi la ridicolizzano ignorandola e fraintendendola.

6 Paramento sacerdotale costituito da una striscia di stoffa che gira attorno al collo e ricade sul petto.

7 Sul davanti, visibile ed esibita, c’è la realtà-apparenza, che è menzogna; la verità, nascosta, va cercata sul retro: è un altro emblema dell’umorismo. Proprio perché consente brillanti sviluppi umoristici ed effetti stranianti comico-ironici, quello con le lapidi funerarie è un gioco ricorrente nella novellistica. Viene inaugurato nel 1896 con Chi fu?, si ritrova ne Le medaglie (1904), ne La cassa riposta e La vita nuda del 1907, e viene infine narrativamente dispiegato nella novella del 1909, Due letti a due.

8 In calore.

9 Veleno.

10 Come siete gentile, signor Momino, a insegnarmi a pronunciare il francese così bene!

11 Sorta di mugolio rauco e affannoso.

12 Cantinetta, ma qui nel senso di loculo.

13 Nome di una zona cimiteriale attigua al grande camposanto romano del Verano (v. Due letti a due II 397: «quelle due tombe gemelle, nel Pincetto, lassù al Verano»).

14 L’idea sarà ripresa e sviluppata nel «mistero profano» All’uscita, stampato sulla «Nuova Antologia» nel 1916, poi in fondo alla raccolta di novelle E domani, lunedì… (Milano, Treves, 1917), ed entrato infine a fare stabilmente parte, come atto unico, delle Maschere nude: «IL FILOSOFO E non vi venne mai in mente che le tombe non erano fatte per i morti, ma per i vivi? L’UOMO GRASSO Volete dire della vanità delle epigrafi? IL FILOSOFO No; storia vecchia, codesta. Dico del bisogno che ha la vita di fabbricare una casa ai suoi sentimenti. Non basta ai vivi averli dentro, nel cuore, i sentimenti: se li vogliono vedere anche fuori; toccarli; e costruiscono loro una casa. Fuori, dove – naturalmente – chi ci sta? Nessuno. L’UOMO GRASSO Come, nessuno? I morti. IL FILOSOFO Ma no, brav’uomo; di noi poveri morti, dopo un po’ di tempo, che volete che resti in quelle fosse là? Se mai, un po’ di polvere. Niente» (v. MN1, p. 245). E anche in uno dei frammenti stampati nell’Almanacco letterario Bompiani 1938 è conservato il medesimo motivo: «Le chiese e i cimiteri? Case per abitazioni dei sentimenti. Che resta più, dopo qualche tempo, entro le casse mortuarie? Niente: un po’ di polvere, se mai. Invece d’ingombrar tanto spazio non sarebbe meglio bruciare i corpi che non hanno più con sé nessuna realtà, e lasciare che la cenere sia dispersa dal vento?» (v. SPSV, p. 1230).

15 V. Chi fu?, n. 10.

16 Nelle redazioni del 1901-2, dell’interrogativa retorica con cui si apre questo tratto testuale era in qualche modo fatto credito al defunto in forza d’una premessa: «Tu fosti filosofo». Significativa, e quasi coatta, la variante che nel 1922 la cassa: il povero Momo era stato tutt’altro che un filosofo; era stato anzi un idealista candido ed entusiasta. Proprio per questo, nella stesura definitiva, l’amico narratore – lui sì filosofo ed umorista – può supporre che Momo condividesse le «nobili ragioni sociali e civili» di Foscolo. Egli allude naturalmente a I Sepolcri e in particolare ai vv. 13-15: «Qual fia ristoro a’ dì perduti un sasso / Che distingua le mie dalle infinite / Ossa che in terra e in mar semina morte?». Ma del poemetto foscoliano conviene aver presente anche il celebre accenno all’illusione che lega i morti ai vivi fintanto che l’affettuosa sollecitudine di questi ultimi per i defunti tiene viva una «corrispondenza d’amorosi sensi» tale che «spesso / Per lei si vive con l’amico estinto, / E l’estinto con noi» (v. vv. 29-33). È precisamente quanto accade nella novella. Viceversa è proprio la «corrispondenza», ossia quella che Pirandello chiama appunto la «reciprocità dell’illusione», che viene irreparabilmente spezzata dalla morte e determina la dolorosa vedovanza dei vivi.

17 Si loca, affittasi.

18 Grossa, evidente.

19 Proprio perché la novella non si presta ad alcuna illazione biografica, queste parole del personaggio fanno un curioso effetto quando si sappia che analoga e, nella sua meticolosità, altrettanto categorica, sarà la scelta testamentaria che Luigi Pirandello esprimerà nelle sue ultime volontà di rispettare: «I. Sia lasciata passare in silenzio la mia morte. Agli amici, ai nemici preghiere, non che di parlarne sui giornali, ma di non farne pur cenno. Né annunzi né partecipazioni. / II. Morto, non mi si vesta. Mi s’avvolga, nudo, in un lenzuolo. E niente fiori sul letto e nessun cero acceso. / III. Carro d’infima classe, quello dei poveri. Nudo. E nessuno m’accompagni, né parenti né amici. Il carro, il cavallo, il cocchiere e basta. / IV. Bruciatemi. E il mio corpo, appena arso, sia lasciato disperdere; perché niente, neppure la cenere, vorrei avanzasse di me. Ma se questo non si può fare sia l’urna cineraria portata in Sicilia e murata in qualche rozza pietra nella campagna di Girgenti, dove nacqui» (v. SPSV, p. 1249).

20 Aperto levando il chiavaccio, ossia il chiavistello (ma qui vale scassinato).

21 Pedante.

22 In senso proprio significa “con le vesti scomposte, aperte o disordinate”; in senso figurato vale anche “sfacciato” o “sguaiato” o “dissoluto”.

23 Il signor Postella è la vivente personificazione dell’incongruità. Ha dischiavacciato uno stipetto, come se un elegante armadietto fosse dotato dei chiavistelli d’un portone, e chiama con grazioso maschilismo la sua metà un donnone molto più grosso di lui. Ma è la realtà di cui il narratore viene informando l’amico defunto che è tutta quanta una sfrontata incongruità. Postella ne è l’umoristica prosopopea.

24 «[…] simili modo, contra serpentium ictus, utpote cum mustelae dimicaturae cum his rutam prius edendo muniant se» [analogamente, contro i morsi dei serpenti, ecco che le donnole in procinto di affrontarli si premuniscono mangiando della ruta] (G. PLINIO SECONDO IL VECCHIO, Nat. Hist. XX, 132). Le donnole sono mustelidi (della stessa famiglia della faina e del furetto) carnivori, agilissimi e feroci. La ruta è una pianta che, per le sue diverse virtù (ipotensive, sedative e gastro-stimolanti), è – o era – usata spesso in medicina.

25 (Letteralmente) pisello grosso di pianura. Ma il toscanismo baccellone vale, al figurato, “sciocco, semplicione”: se ne deve ricavare che un baccellone di piano sia, nella locuzione idiomatica, più insipido e sciocco d’uno di monte.

26 Appesa al soffitto (in contrapposizione ai lumi da tavolo o a stelo).

27 Improntata appunto a «ruvida semplicità»; ma anche, in forza del contesto, costituita e retta in assenza di donne.

28 Oggetto degno di ammirata o sbalordita meraviglia.

29 Nei modi e nei limiti stabiliti.

30 Rannicchiata, a viso proteso, come un rospo. Si veda, in Zampogna, raccolta di liriche del medesimo 1901, Le nubi e la luna 13: «Quatta musando se ne sta la rana» (v. SPSV, p. 600).

31 Per puro atto di cortesia.

32 Molla di ricarica degli orologi.

33 Ognuno immagina e si augura di possedere ciò che desidera.

34 Apprestare, tendere.

35 Il personaggio umorista di Tommaso veste, nella circostanza, anche i panni di alter ego dell’istanza autorale; e la sua protesta di incolpevolezza è in qualche misura una perorazione metanarrativa in favore della superiore verità umoristica, la cui ridevole crudeltà è soltanto apparente e scaturisce dall’incisività con cui il discorso umoristico scopre e disvela la frode e le beffe dell’illusione. L’intero passo, che è un innesto testuale aggiunto nella redazione del 1922, porta in luce un grumo tematico di altissima densità (e di alta frequenza nel corpus) e descrive in termini non equivoci l’energia di fissione del realistico che la prospettiva e la scrittura umoristiche sono capaci di sprigionare. Nell’Umorismo si legge: «Caratteristiche più comuni, e però più generalmente osservate, sono la “contradizione” fondamentale, a cui si suol dare per causa principale il disaccordo che il sentimento e la meditazione scoprono o fra la vita reale e l’ideale umano o fra le nostre aspirazioni e le nostre debolezze e miserie, e per principale effetto quella tal perplessità tra il pianto e il riso; poi lo scetticismo, di cui si colora ogni osservazione, ogni pittura umoristica, e in fine il suo procedere minuziosamente e anche maliziosamente analitico» (v. SPSV, p. 127). Nel 1924, dunque due anni dopo l’instaurazione nella novella di questo inserto sull’insensibilità e sul riso di Tommaso, un’accusa analoga verrà mossa al ragionatore Diego Cinci in Ciascuno a suo modo: «PRESTINO […] È facile ridere così! Rappresentandoci come tanti mulinelli che, soffia un po’ di vento, e girano per il verso opposto! Non posso sentirlo parlare! Che so? Mi pare che si bruci l’anima, parlando, come certe false tinte bruciano le stoffe. DIEGO. Ma no, caro, io rido, perché – PRESTINO. – perché ti sei scavato il cuore come una tana di talpa: l’hai detto tu stesso; e non ci hai più nulla dentro – ecco perché!»; ed anche Diego negherà argomentando e concluderà dicendo: «Rido… Ma io rido così; e il mio riso ferisce prima di tutti me stesso» (v. MN, pp. 198-9).

36 Spiccando salti (il verbo, arcaico e letterario ma caro a Pirandello, deriva dal franco springan, “saltare”).

37 Una variante di questa comparativa crepuscolare riaffiorerà nella didascalia conclusiva dell’atto secondo de La signora Morli, una e due, commedia pubblicata nel medesimo 1922 in cui Notizie del mondo viene ristampata nell’ambito delle «novelle per un anno»: «Nella tristezza del barlume crepuscolare, come una bolla che assommi silenziosamente, s’accende il globo di luce elettrica in cima al portone» (v. MNII, p. 241).

38 Quest’idea affiora per la prima volta, in forma molto simile, in Chi fu?, novella stampata nel 1896 e non più raccolta. In essa è un vero e proprio revenant, un morto che ritorna, a svelare a un vivo questo segreto: «C’è chi muore maturo per un’altra vita, e chi no. Quegli muore e non torna più, perché ha saputo trovar la sua via; questi invece torna, perché non ha saputo trovarla; e naturalmente la cerca giusto dove l’ha perduta» (v. p. 299). Qui, l’intuizione è viceversa piegata alla gestione umoristica che caratterizza l’affabulazione diaristica indirizzata dal vivo Tommaso Aversa al morto Momino. Ma il motivo è destinato a un ulteriore e più ambizioso sviluppo, che prende corpo in All’uscita. Nel «mistero profano», i non maturi per la morte lasciano il corpo nel cimitero e si manifestano come «apparenze» che svaniranno solo quando verranno definitivamente meno il desiderio, o il cruccio, che li hanno ritrascinati nel mondo. In termini ulteriormente variati, il motivo dell’attaccamento alla terra e alla vita come immaturità che vieta d’accedere a dimensioni d’ordine superiore perverrà fino a interessare l’ultimo incompiuto «mito» pirandelliano, I giganti della montagna.

39 Tessuto di seta (dal francese taffetas).

40 «Anno grande, o matematico, o cosmico, o platonico: intervallo di 25.800 anni, che l’asse terrestre impiega a compiere un giro intorno al polo dell’eclittica venendo a passare successivamente sotto stelle circumpolari diverse a causa della precessione degli equinozi» (GDLI). Vi fanno cenno i morti dell’operetta leopardiana Dialogo di Federico Ruysch e delle sue mummie: «Poco fa sulla mezza notte appunto, si è compiuto per la prima volta quell’anno grande e matematico, di cui gli antichi scrivono tante cose».

41 Adibita ad una analoga funzione abruptiva, ma in tutt’altro contesto, la scenetta entomologica riaffiorerà nel 1924, in Ciascuno a suo modo, dove Diego Cinci riveste in due riprese i panni del protagonista di Rimedio: la geografia: «Signora, sa come mi sono trovato io, vegliando di notte mia madre che moriva? Con un insetto sotto gli occhi, dalle ali piatte, a sei piedi, caduto in un bicchier d’acqua sul tavolino. E non m’accorsi del trapasso di mia madre, tanto ero assorto ad ammirare la fiducia che quell’insetto serbava nell’agilità dei suoi due ultimi piedi più lunghi, atti a springare. Nuotava disperatamente, ostinato a credere che quei due piedi fossero capaci di springare anche sul liquido e che intanto qualcosina attaccata all’estremità di essi li impacciasse nel salto. Riuscendo vano ogni sforzo, se li nettava vivacemente con quelli davanti e ritentava il salto. Stetti più di mezz’ora a osservarlo. Vidi morir lui e non vidi morire mia madre» (v. MN, pp. 156-7).

42 Questa sceneggiatura minima, presente in Notizie del mondo fin dalla prima stampa, verrà recuperata e ricontestualizzata nel 1908 nella pubblicazione in volume del romanzo L’esclusa (v. RI, pp. 11-2): «Rocco aprì la finestra e si mise a guardar fuori a lungo.[…] Là, col capo immerso nel vasto silenzio malinconico della notte punto qua e là e vibrante da stridi rapidi di pipistrelli invisibili, con le pugna ancora serrate, Rocco gemette, esasperato: / – Che debbo fare? che debbo fare?».

43 Il passo costituisce uno degli affioramenti del leopardismo pirandelliano. Vi si avverte, sotto la riscrittura favolistica, quantomeno lo stimolo d’una memoria di lettura del Canto notturno 16-20 («Dimmi, o luna: a che vale / Al pastor la sua vita, / La vostra vita a voi? dimmi: ove tende / Questo vagar mio breve, / Il tuo corso immortale?») e soprattutto dei versi d’attacco (133-8) dell’ultima stanza: «Forse s’avess’io l’ale / Da volar su le nubi, / E noverar le stelle ad una ad una, / O come il tuono errar di giogo in giogo, / Più felice sarei, dolce mia greggia, / Più felice sarei, candida luna». V. anche, al proposito, Canta l’Epistola (1911) II 634-5.

44 Da una nota di Lo Vecchio-Musti (v. SPSVII, p. 1046), si apprende che già il 15 maggio 1890, recensendo sulla rivistina palermitana «Psiche» la prima raccolta poetica di Pirandello, Mal giocondo, G. Pipitone Federico ne aveva preannunciato un libro: «Le Favole di Renardo – lavoro di squisita finezza, venutogli in mente nel tradurre le favole di Lessing per la memoria dottorale sul tema Lessing, la Favola e le favole». Tale libro non vide mai la luce, ma Due favole della Volpe vennero pubblicate in «Psiche» il 16 ottobre 1896 (v. NBOG, p. 732) e ristampate il 10 dicembre 1905, sulla «Rivista di Roma», come Le favole della volpe. Sono un grazioso divertimento sul tema nel quale, a una estrosa introduzione, Pirandello fa seguire le due brevi favole. La seconda è la seguente: «CONIGLIO – Messer Renardo, Messer Renardo, mi raccomando a voi. RENARDO – Che contrarietà t’è mai occorsa, mio piccolo amico? CONIGLIO – No, no, Messer Renardo. Io vengo per l’onore a lagnarmi con voi. RENARDO – E che bestia sarebbe mai codest’onore, coniglietto mio? Non l’ho sentito mai nominare. CONIGLIO – Non è una bestia, Messer Renardo; è una parola che corre tra gli uomini. RENARDO – Ah, intendo ora! Hai forse udito dire che codesta parola corre tra gli uomini ben più che tu non faccia tra gli animali? Lasciala correre, coniglietto mio! Non fare come i cavalli, che spesso per un’ombra s’impuntano. CONIGLIO – No, non è questo, Messer Renardo; non mi avete ancora inteso. Dicono gli uomini ch’io sono una bestiolina paurosa, e sapete perché? Perché, appena li vedo, scappo via. Ma vi so dire, Messer Renardo, che pur io ho tante volte messo in fuga topi di campagna, grilli, lucertole, uccelli, e che se voi domandaste a costoro notizia di me, chi sa che cosa vi risponderebbero; non certo però ch’io sia una bestia paurosa. Oh che forse pretenderebbero gli uomini, che al loro cospetto io mi rizzassi su due piedi e movessi loro incontro per farmi prendere e uccidere? Credo in verità che tra gli uomini, Messer Renardo, non debba correre molta differenza tra eroismo e imbecillità. RENARDO – Tu dici sempre correre, coniglietto mio! Ma sì, credo anch’io questa volta che tu dica la verità» (v. SPSVII, pp. 1048-9). E nell’Umorismo, discorrendo della pusillanimità conigliesca del Don Abbondio manzoniano, Pirandello richiamerà e citerà questa controfavola: «Bisogna pure ascoltare, signori miei, le ragioni del coniglio! Io immaginai una volta che alla tana della volpe, o di Messer Renardo, com’essa si suol chiamare nel mondo delle favole, accorressero a una a una tutte le bestie per la notizia che tra loro s’era sparsa di certe controfavole che la volpe avesse in animo di comporre in risposta a tutte quelle che da tempo immemorabile gli uomini compongono, e da cui esse bestie han forse motivo di sentirsi calunniate. E tra le altre alla tana di Messer Renardo veniva il coniglio a protestare contro gli uomini che lo chiamano pauroso, e diceva: “Ma ben vi so dire per conto mio, Messer Renardo, che topi e lucertole e uccelli e grilli e tant’altre bestiole ho sempre messo in fuga, le quali, se voi domandaste loro che concetto abbiano di me, chi sa che cosa vi risponderebbero, non certo che io sia una bestia paurosa. O che forse pretenderebbero gli uomini che al loro cospetto io mi rizzassi su due piedi e movessi loro incontro per farmi prendere e uccidere? Io credo veramente, Messer Renardo, che per gli uomini non debba correre alcuna differenza tra eroismo e imbecillità!”» (v. SPSV, pp. 142-3). Sulla calunniosità delle favole umane, Pirandello torna, nel 1906, anche ne Le nostre favole, una delle prosette di Lucciole e lanterne (dal “Commentario postumo di Mattia Pascal”): «Sono entrato jeri nella rimessa, giù nel cortile di casa mia, e ad un bellissimo bajo di preclara intelligenza ho voluto leggere, prima, alcune favole di Fedro e poi cert’altre del La Fontaine. / Mentre leggevo, sono anche entrati nella rimessa, a sentire, il corvo del portinajo, che ha le ali mozze e un campanellino al collo, un cane randagio, un gatto e due piccioni. / Orbene, non potete credere quali e quanti segni d’ilarità abbiano dato quelle bestie alla mia lettura. Vi assicuro che esse mi han lasciato intendere chiaramente che tutte quante le favole inventate dagli uomini, da Esopo in poi, non sono altro che amenissime calunnie e graziose corbellerie» (v. SPSVII, p. 1051).

45 Pirandello rammenterà quest’osservazione quando, parlando di Aristofane, scriverà: «Alcune sue commedie son come le favole che scriverebbe la volpe, in risposta a quelle che hanno scritto gli uomini calunniando le bestie» (v. L’Umorismo, in SPSV, p. 41).

46 Nella prima delle due favole di cui alla n. 44 si legge: «RENARDO – […] Qual novella, seguitando, s’è divulgata tra voi libere bestie (io mi dico servitor vostro umilissimo) signore del mondo? VICINO – Che voi abbiate in animo di compôr favole, in risposta a tutte quelle che da gran tempo gli uomini van mettendo fuori contro di noi. RENARDO – Novella, amico mio! No contro gli gli uomini, bensì contro le bestie, se mai, a fin però – intendiamoci! – di correggerne i difetti. VICINO – Gran mercé, Messer Moralista! Ah, vi siete dunque imbrancato anche voi tra quelle vilissime bestie, che per fascino si son lasciate addomesticare dagli uomini e ora insieme con essi ci muovono guerra? Rallegramenti! Rallegramenti! RENARDO – Non c’è di che, caro vicino. Dunque voi credete che gli uomini nelle loro favole abbiano detto male di noi? Nemmen per sogno! Ci han fatto pensare con la loro bella testa, ci han messo in bocca le loro dotte parole, ma per ritrarre solamente la loro sciocchezza e i loro vizii. Ne volete un esempio? Se un favolista fa parlare un asino come un uomo sciocco, sciocco è l’asino, caro vicino? Asino è l’uomo!» (v. SPSVII, pp. 1047-8). In una delle favolette di Lessing (Esopo e l’Asino) che Pirandello aveva tradotto e pubblicato nel 1893 su «Cenerentola», il giornale pei fanciulli diretto da Luigi Capuana, si trova, in termini solo leggermente diversi, la medesima considerazione: «Disse l’asino ad Esopo: / – Se tu metti fuori qualche altra storiella su me, vedi di farmi dire qualcosa di ragionevole e sennato. / – Qualcosa di sennato a te? – rispose Esopo; – e come potrebbe ciò accordarsi? Non si direbbe allora che il moralista sei tu e l’asino io?» (v. SPSV, pp. 1011-2). E infine, sulla vera saggezza della volpe e sulla discutibile morale dei moralisti, Pirandello tornerà nei Quaderni di Serafino Gubbio operatore: «Anche i più morali moralisti, senza volerlo, tra le righe delle loro favole lasciano scorgere un vivo compiacimento per le astuzie della volpe a danno del lupo o del coniglio o della gallina: e Dio sa che cosa rappresenta la volpe in quelle favole! La morale da cavarne è sempre questa: che il danno e le beffe restano agli sciocchi, ai timidi, ai semplici, e che sopra tutto da pregiare è dunque l’astuzia, anche quando non arriva all’uva e dice che ancora non è matura. Bella morale! Ma questo tiro giuoca sempre la volpe ai moralisti, che, per far che facciano, non riescono mai a farle fare una cattiva figura. Avete voi riso della favola della volpe e dell’uva? Io no, mai. Perché nessuna saggezza m’è apparsa più saggia di questa, che insegna a guarir d’ogni voglia, disprezzandola» (v. RII, p. 716).

47 Fatto a brani.

48 Tenuemente rischiarati; ma v. La levata del sole, n. 30 e Gioventù, n. 10.

49 Inariditi e privi di vivezza.

50 Al contrario.

51 Da questo capoverso in avanti la redazione definitiva costituisce una radicale rimanipolazione della vicenda. Nella versione originaria, assai più estesa, interveniva un imprevisto e imprevedibile riscatto di Giulia e, complementarmente, un travolgente smarrimento di Tommaso Aversa, che abdicava alla sua disincantata visione umoristica, si innamorava suo malgrado e finiva con lo sposare davvero la vedova dell’amico. Non a caso, nel finale di quella redazione, l’autoironia di Tommaso, che qui giunge ad immaginarsi come il grottesco mittente della propria partecipazione di nozze all’amico morto, cadeva del tutto e diventava rimbambita contentezza: «Mi portano in questo momento la partecipazione di nozze a stampa. Le ho fatte comporre con la massima semplicità. Ed ecco, il primo cartoncino è per te, Giacomone mio [Gerolamo si chiamava Giacomo] : TOMMASO AVERSA E GIULIA NESTRI Sposi» (v. NUAI, p. 1460). Era tutt’altra storia: era la storia risibile d’un filosofo non abbastanza maturo, che si fa intrappolare nel groviglio incongruo della vita e dei desideri e che finisce pietosamente spossessato dell’ottica lucida e straniante ch’era stata la sua forza e che si ritorce, oggettivata, contro di lui: i frutti dell’umorismo che egli ha seminato, è solo il lettore a raccoglierli, alla fine. La lezione del 1922 ne fa viceversa la storia della costosa coerenza del filosofo, fondata com’è sul rifiuto e sulla rinuncia, così del passato (i ricordi) come del presente (le offerte e le tentazioni della vita) come del futuro (le illusioni).

Il vecchio Dio

1 Fu pubblicata per la prima volta su «Il Marzocco» il 26 maggio 1901. L’anno dopo fu compresa nella raccolta Quand’ero matto… (Torino, Streglio) e nuovamente in quella, omonima ma non identica, del 1919 (Milano, Treves). Entrò infine a far parte del decimo volume delle «novelle per un anno», Il vecchio Dio (Firenze, Bemporad, 1926).

2 Bizzarra.

3 Lungo (arcaismo letterario).

4 Questo capoverso perviene all’assetto definitivo solo in occasione della stampa fiorentina del 1926, recependo anche l’intarsio proveniente da un appunto dell’ultimo taccuino: «E tanto dolce azzurro d’ombra che dilaga e lunghesso il canale quell’eleganza di salci teneri violetti» (v. TS, p. 20).

5 Di essere arrivato.

6 Nel medesimo 1901 della prima stampa de Il vecchio Dio, l’identico ambiente sacro accoglie e favorisce lo stato d’animo opposto di Marta Ayala nel romanzo L’esclusa: «La chiesa era deserta, silenziosa, nella cruda immobile frescura insaporata d’incenso. La solenne vacuità dell’interno sacro, quasi sospeso a gl’immani pilastri, alle ampie arcate, dava all’anima, in quella penombra, un senso d’oppressione» (v. RI, p. 917).

7 Aggiunte, rifacimenti.

8 Nelle prime due stampe il libriccino era «il Morgante Maggiore o l’Orlando Innamorato o il Furioso» (v. NUAII, p. 1305).

9 Gli avveniva di discernere, cadeva sotto il suo sguardo.

10 In Notizie del mondo, novella cronologicamente vicinissima a questa, s’è visto un rapporto gemellare e speculare di amicizia spezzato dal matrimonio e dalla morte prematura di uno dei due amici. Qui il signor Aurelio vagheggia la costituzione di un simile rapporto post mortem e un pacifico contubernio di morti dirimpettai.

11 V. Genesi 2.1-2: «Così furono compiuti i cieli e la terra, e ogni loro ornamento. E finì Dio al settimo giorno l’opera da lui creata; e si riposò nel settimo giorno da tutto il lavoro che aveva fatto».

12 Ciocche di capelli incolti che pendono ai lati della testa.

13 V. Pallottoline!, p. 439: tutta la tirata dell’immaginario Padreterno va messa a confronto con lo scetticismo scientista di Jacopo Maraventano. L’invenzione del parafulmine, che si deve al bostoniano Benjamin Franklin (1706-1790), risale al 1752; ma nell’ottica del vecchio Dio è un evento recentissimo.

14 Questo vecchio Padreterno retrivo e oscurantista, partorito dal sogno nostalgico del signor Aurelio, sostiene una tesi diametralmente opposta a quella su cui voleva fondare la «Nuova Fede» l’eretico scomunicato don Bartolo Scimpri: «Era in guerra aperta con tutto il clero, perché il clero – a suo dire – aveva azzoppato Dio. Il diavolo, invece, aveva camminato. Bisognava a ogni costo ringiovanire Dio, farlo viaggiare in ferrovia, col progresso, senza tanti misteri, per fargli sorpassare il diavolo. / – Luce elettrica! Luce elettrica! – gridava, agitando le lunghe braccia smanicate. – Lo so io a chi giova tanta oscurità! E Dio vuol dire Luce!» (v. Dono della Vergine Maria, p. 465).

15 La battuta è un po’ oscura e si presta a molte letture. Nelle prime due stampe era assai più esplicita: alludendo alla campagna, alla quale il Dio del sogno lo invitava a tornare, il personaggio destandosi esclamava: «Se me l’hanno rubata!».

16 Balbettò farfugliando.