1 Venne concepita e scritta come «novella», e lo prova quanto Pirandello ne scrive ad Adolfo Orvieto il 3 luglio 1903: «Da venti giorni, sono in commissione d’esami: ho potuto scrivere la novellina in qualche ritaglio di tempo» (v. CAR, p. 299). Fu pubblicata su «Il Marzocco» il 12 luglio 1903. Sei anni più tardi, quando sulla «Rassegna contemporanea» venne per tre quarti stampato a puntate, I vecchi e i giovani, l’ex-novella venne smembrata e rifusa interamente nel primo capitolo della seconda parte del romanzo (v. RII, pp. 270-300), dove la dimensione soggettiva e privata, intima, del dissidio penoso e della lontananza fra coniugi, si intreccia col groviglio delle tempestose vicende pubbliche e politiche nelle quali il ministro D’Atri è coinvolto.
2 Verdastra sarà in realtà l’iride (essendo la cornea la membrana trasparente che riveste tutta la parte anteriore dell’occhio).
3 V. Visitare gl’infermi, n. 22; ma, per il motivo, v. Notizie del mondo, pp. 567-8: «Se ai morti, nell’ozio della tomba, venisse in mente di porre un catalogo dei torti e delle colpe che ora si pentono avere nel decorso della loro vita commessi, catalogo che un bel giorno sarebbe edificante apparisse nella parte posteriore delle tombe, come il rovescio delle menzogne spesso incise nella lapide; tu nel tuo dovresti mettere soltanto: / SPOSAI. A. LVI. ANNI. / UNA. DONNA. DI XXX. / Basterebbe».
4 Molla.
5 Inaugurato nel 1880, il noto teatro romano aveva preso il nome da Domenico Costanzi (1819-1898), il costruttore maceratese che ne aveva promosso e finanziato l’edificazione. Dal 1928 il Costanzi diventò il Teatro Reale dell’Opera di Roma.
6 Lampadario (v. Al valor civile, n. 15).
7 V. L’onda, n. 28.
8 Poco dopo.
9 V. Dialoghi tra il Gran Me e il piccolo me, n. 8.
10 I pugni (v. Un invito a tavola, n. 15).
11 La stampa del «Marzocco» ha, per evidente errore, «ritenuto».
12 Preda di un’angoscia incontenibile (participio del verbo denominale trangosciare: v. La balia, p. 797).
13 V. la recente Con altri occhi, n. 1.
1 Fu pubblicata per la prima volta su «La Riviera Ligure» (n. 48) nel luglio 1903. L’anno dopo fu compresa nella raccolta Bianche e nere (Torino, Streglio, 1904). Ristampata il 30 novembre 1919 in «Cronache d’attualità», e dedicata nell’occasione «Ad A. G. Bragaglia, con affetto» (v. GAB, p. 51, e SFP, pp. 21 e 51-3), venne infine inclusa nel primo volume delle «novelle per un anno», Scialle nero (Firenze, Bemporad, 1922).
2 Tessuto lucido, misto di lana e cotone.
3 Sporco, imbrattato di gesso. Nelle prime due redazioni si leggeva «roccioso», aggettivo che Pirandello aveva annotato e spiegato nel Taccuino di Coazze: «Roccia, il sudiciume su la scorza del cacio» e «Dita rocciose, incrostate di sudiciume» (v. SPSV, p. 1205).
4 Con buona grazia, signore.
5 Da’ un soldo a questa povera creatura.
6 Tiriamo a campare! – sospirò Tuta. – Dio provvede.
7 – Siamo sposati per la chiesa. – Ah, ecco, per la chiesa. – E che cos’è? non è marito? – No, figlia: non basta. – Come non basta? – Lo sai, non basta.
8 La vecchia aveva inteso dire che il solo matrimonio religioso non bastava perché non aveva valore legale, ma la comprensione creaturale di Tuta va alla sostanza delle cose: il vincolo sacramentale non serve perché il suo uomo non vuol più saperne di lei.
9 Capisci?
10 Aveva perduto il latte.
11 Sul serio, sai.
12 Cori, piccolo centro laziale in provincia di Latina.
13 Dove lo lascio? Qua per terra? Povero cocco mio dolce!
14 – L’hai fatto? Te lo piangi. – Io l’ho fatto? – si rivoltò la giovane. – Va bene, l’ho fatto e Dio m’ha castigato. Ma patisce anche lui, povero innocente! E cosa ha fatto, lui? Andiamo, Dio non fa le cose giuste. E se non le fa lui, figurati noi. Tiriamo a campare!
15 È un gran penare.
16 Tieni, prendi.
17 Me lo mangio. Ci credi che sono digiuna.
18 – Mangia, Nino. È buono, sai. Una raffinatezza.
19 Getti violenti (v. in In silenzio II 178: la «tromba lunga come un serpente con cui l’ortolano annaffiava l’orto»).
20 Lei, signora, con buona grazia, se per caso le servisse una donna per il bucato o a mezzo servizio… No? Pazienza!
21 Vuoi vedere il bambino? Vieni a vederlo, carino, vieni.
22 Vitrei, fissi, attoniti.
23 No! povero piccino! – esclamò Tuta. – Gli hai tolto il pane? Ora piange, vedi? Ha fame… Dagliene almeno un pezzetto.
24 Tienilo, cocco, mangialo tu.
25 E questa povera creatura mia che è digiuna… Non ho latte, non ho casa, non ho niente… Sul serio, sapete, signora… Niente!
26 Dio te ne renda merito, – le disse dietro, questa. – Su, su, sta buono, cocco mio: ti ci compero un dolcino, sai! Abbiamo fatto due soldi col pane della vecchia. Zitto, Nino mio! Siamo ricchi, adesso.
27 Ghiottonerie. È termine annotato fra i toscanismi del Taccuino di Coazze (v. SPSV, p. 1204).
28 Tutt’e due giù nel fiume?
29 Si muore!
30 Due soldi!
31 Di cosa sono? di carta?
32 Ho solo questi due soldi. Me lo dai per un soldo?
33 Due soldi? Neanche per sbaglio! – Beh, accidenti a te! Dammelo. Muoio di caldo. Il bimbo dorme… Tiriamo a campare. Dio provvede.
34 Novella-studio più che vero e proprio racconto, Il ventaglino dispiega, intorno a Tuta, pernio ruotante quasi naturalistico, le sue stecche coperte di figure appena tratteggiate piuttosto che disegnate. Solo la storia di Tuta è, sia pure per mezzo di lampi analettici discontinui, ricostruita (e anch’essa, tuttavia, più ricostruita che non raccontata): le altre vicende, quelle del vecchietto magro o della vecchia cenciosa, quella soprattutto della signora dai capelli rossi e del suo figliolo scontroso e disappetente, sono quasi per intero affidate alle cooperative inferenze della lettura. È una tecnica pittorico-narrativa precisa: un realistico disegno d’ambiente nel quale campeggiano figure che l’ottica del narratore può solo cogliere e fotografare in quanto entrano nel suo campo visivo, e delle quali non sa altro. Anche il finale, piuttosto che un explicit narrativo in senso proprio, è il pastoso ritocco, conclusivo e dinamicamente caratterizzante, al ritratto di Tuta dipinto a p. 819 («vent’anni, bassotta, formosa, bianchissima di carnagione» ecc.). Con le ultime poche pennellate, il ritrattista chiude una storia e ne apre un’altra: scopre il seno bianchissimo della contadinotta, le mette in mano un ventaglino di carta colorata, trasforma con un tocco il brillio dei suoi occhi furbi e «quasi aggressivi» in una lucentezza spavalda, invitante, aizzosa. E, fatalmente e fatalisticamente («Tiramo a campà. Dio pruvede»), la vittima diventa adescatrice.
1 Fu pubblicata per la prima volta su «Il Marzocco» il 30 agosto 1903. L’anno dopo fu compresa nella raccolta Bianche e nere (Torino, Streglio, 1904). Ristampata il 1° agosto 1920 su «Varietas» (v. SFP, pp. 21 e 45-8), venne infine inclusa nel primo volume delle «novelle per un anno», Scialle nero (Firenze, Bemporad, 1922).
2 Il protagonista non avrà altro nome che questo, palesemente un nomignolo dovuto al suo mestiere di capomastro muratore, ossia di maestro di spatola.
3 Si restrinse, si rannicchiò.
4 Accidenti (v. Visitare gl’infermi, n. 41).
5 Propriamente “percuotendo”, “colpendo” ma, trattandosi d’una luce, il verberare non può non richiamare paradigmaticamente anche l’idea del riverbero, della luce riflessa.
6 Intestardito, incaponito.
7 Fuochi d’artificio ruotanti. V. Il vitalizio n. 103.
8 Manovale a giornata.
9 Sudicio e imbrattato di gesso (v. Il ventaglino, p. 818 e n. 3).
10 È la denominazione tradizionale dell’iconografia del Cristo flagellato ed esposto all’oltraggio della gente (la «colonna» era appunto il cippo cui venivano legati i condannati alla gogna e alla flagellazione). La fonte di questa scena e dell’«Ecce Homo» è il vangelo di Giovanni: «Allora Pilato prese Gesù e lo flagellò. E i soldati, intrecciata una corona di spine, gliela posero sul capo e lo avvolsero in una veste di porpora; poi si avvicinavano a lui e dicevano: “Salute, o re dei Giudei!”. E gli davano schiaffi. Pilato uscì di nuovo e disse a loro: “Ecco, io ve lo conduco fuori affinché sappiate che io non trovo in lui nessuna colpa”. Uscì dunque Gesù, portando la corona di spine e il vestito di porpora. E Pilato disse loro: “Ecco l’uomo!”» (Gv. 19.1-5).
11 Una “Crocifissione”.
12 Per non doversi assoggettare alla vicinanza di estranei.
13 Costruzione.
14 «Strato di terreno sodo e resistente, che si incontra talvolta a una certa profondità nelle operazioni di scavo» (Devoto-Oli).
15 Colui che deve fornire i laterizi.
16 Struttura in legno destinata a sostenere la volta durante la costruzione.
17 V. Dono della Vergine Maria, p. 466 e n. 20.
18 Nell’ordine letterale della curiosa vicenda, così come in quello reale del mondo narrato, la sconfitta di Spatolino è ovvia, stante l’incredibile verità ch’egli racconta, la sfavorevole congiuntura politica e i privati e contrastanti interessi che si trova ad affrontare. Nell’ordine ideale le cose sono un po’ più complicate, e la complicazione è almeno in parte dovuta alla disinteressata acribia dell’istanza di narrazione. La quale non si schiera né con i clericali né con i socialisti miscredenti né con lo sprezzante notaio razionalista né con il collerico e malevolo don Lagàipa. E, come il narratore, anche Dio in quest’ordine superiore pare mantenere una certa umoristica equidistanza, diversamente ma ugualmente folgorando così il notaio pentito come il suo fanatico devoto, sia colui che tardi lo riconosce, sia colui che infine dubita della sua giustizia e della sua esistenza.
19 Tela di cascami di cotone.
20 Composto e atteggiato.
21 La grottesca realtà va ben al di là dei desideri del committente preso da tardiva resipiscenza, il quale s’era limitato a vagheggiare (v. p. 827) «una statua, grande al vero, di Cristo alla colonna».
22 Funzionario di pubblica sicurezza.
23 Senza più Spatolino parato da Cristo, un analogo tabernacolo e identici passanti si vedranno di scorcio nella scena incipitale de I vecchi e i giovani: «Le alte spalliere di fichidindia, ispide, carnute e stravolte, o le siepi di rovi secchi e di agavi, le muricce qua e là screpolate erano di tratto in tratto interrotte da qualche pilastro cadente che reggeva un cancello scontorto e arrugginito, o da rozzi e squallidi tabernacoli, i quali, nella solitudine immobile, guardati dagl’ispidi rami degli alberi gocciolanti, anziché conforto ispiravano un certo sgomento, posti com’eran lì a ricordare la fede a viandanti (per la maggior parte campagnuoli e carrettieri) che troppo spesso, con aperta o nascosta ferocia, dimostravano di non ricordarsene» (v. RII, pp. 5-6).
24 Svagati, perduti nel vuoto.
1 Fu pubblicata per la prima volta, firmata con lo pseudonimo Fernando e con il titolo Disdetta, in due puntate su «Ariel», il 6 e il 14 marzo 1898. Con il titolo definitivo venne ristampata nel 1903, nella «seconda serie» di Beffe della morte e della vita (Firenze, Francesco Lumachi) e successivamente inserita, nel 1919, nella seconda edizione della raccolta Quand’ero matto… (Milano, Treves). Venne infine inclusa nel decimo volume delle «novelle per un anno», Il vecchio Dio (Firenze, Bemporad, 1926).
2 Due motivi costanti concorrono in questo soliloquio: l’uno è quello per cui difficilmente gli artisti sono economicamente in grado di metter su famiglia (v. Le tre carissime, La signorina, Un’altra allodola), l’altro quello comico-umoristico per cui prender moglie è sempre una sciocchezza (v. quanto meno La levata del sole, Notizie del mondo, La signora Speranza, Acqua amara). Quest’ultimo elemento d’innesco narrativo interviene solamente nel 1919.
3 Nelle redazioni del 1898 (v. pp. 441-51) e del 1903 (v. NUAII, pp. 1314-8) le «distrazioni di mente» di Pitagora erano sostituite dalla sua tendenza a pigliar fuoco «come un fascio di paglia», ossia ad innamorarsi troppo facilmente, ed amplificate in una lunga avventura galante che si risolveva in una beffa clamorosa ordita ai suoi danni da Quirino Renzi e dalla moglie. In ossequio ad una sua prassi correttoria costante, nel 1919 Pirandello cassa senz’altro la divertente ma digressiva peripezia.
4 V. Disdetta, n. 2.
5 Non ne ebbi mai l’occasione.
6 Distrarlo, farlo svagare.
7 Per quanto momentaneamente disorientante, l’avventura del sano Pitagora si conclude qui, con la razionalizzazione in termini di «equivoco» dell’esperienza dell’Unheimliche connessa alla comparsa di un presunto sosia. Penoso, ma altrimenti penoso, resta soltanto il confronto fra l’aspetto giubilante dell’uno e quello disfatto dell’altro dei due identici. Per Pitagora l’abisso del perturbante s’è spalancato solamente per un attimo e riguardava non lui stesso, ma un altro: dopo un istante, i due Tito Bindi tornano per lui ad essere uno solo.
8 Si riferisce probabilmente a questo luogo del testo l’appunto di TS, p. 52: «Parola d’onore, chi lo vedeva lo sbagliava con quello. Tal e quale».
9 La «disdetta» del titolo andava ad ogni modo rimotivata, poiché non poteva più neppure parzialmente corrispondere al fatto che Pitagora avesse tentato una avance con la moglie d’un amico. E, nonostante questo correttivo, il titolo della novella risulta alquanto irrelato.
10 Dapprima, sul momento.
11 Nella lezione del 1898 (e ancora nel 1903) Bindi diceva anche: «Io non ho moglie, non ho figliuoli» (v. p. 448), e questo asserto denegante scopriva per intero la sua pazzia. Ma si veda Disdetta, n. 18.
12 I pugni (v. Un invito a tavola, n. 15).
13 È durato un attimo il sollievo di Tito Bindi: la presenza d’una sposa distrugge il bel sogno allucinatorio, fissa la doppia realtà della demenza e scatena il terrore fobico della coazione a ripetere.
14 V. Disdetta, n. 20.
15 Strada che si diparte da via Veneto, in prossimità di Porta Pinciana e di Villa Borghese.
16 Alla logica accenna il protagonista di Quand’ero matto (v. p. 766), sorpreso dal fatto che, ridotto lui alla più anti-francescana delle saviezze, la moglie, che sulla via di quella egoistica saviezza l’aveva guidato e procurava di mantenerlo, mostrasse di apprezzare tanto il santo dei Fioretti: «Per esser logici, via, San Francesco per lei non dovrebbe esser savio, o io ora… / Ma già, mi persuado che i savii debbono esser logici fino a un certo punto». Qui la «complicatissima macchinetta cavapensieri» è attribuita tale e quale ai pazzi, nei quali anzi funziona a pieno regime proprio per la loro caratteristica di non arretrare dinanzi ad alcuna conclusione, neppure la più inammissibile. Ne L’umorismo Pirandello ironizzerà sarcasticamente sulla logica nei termini seguenti: «È una specie di pompa a filtro che mette in comunicazione il cervello col cuore. / La chiamano LOGICA i signori filosofi. / Il cervello pompa con essa i sentimenti dal cuore, e ne cava idee. Attraverso il filtro, il sentimento lascia quanto ha in sé di caldo, di torbido: si refrigera, si purifica, si i-de-a-liz-za. Un povero sentimento, così, destato da un caso particolare, da una contingenza qualsiasi, spesso dolorosa, pompato e filtrato dal cervello per mezzo di quella macchinetta, diviene idea astratta generale; e che ne segue? Ne segue che noi non dobbiamo affliggerci soltanto di quel caso particolare, di quella contingenza passeggera; ma dobbiamo anche attossicarci la vita con l’estratto concentrato, col sublimato corrosivo della deduzione logica. E molti disgraziati credono di guarire così di tutti i mali di cui il mondo è pieno, e pompano e filtrano, pompano e filtrano, finché il loro cuore non resti arido come un pezzo di sughero e il loro cervello non sia come uno stipetto di farmacia pieno di quei barattolini che portano su l’etichetta nera un teschio fra due stinchi in croce e la leggenda: VELENO» (v. SPSV, p. 154). Questo passo del saggio è a sua volta la fedele riscrittura d’un tratto della novelletta (non più ristampata) del 1905 La Messa di quest’anno (v. II 47 e n. 7). La redazione del 1903 non nominava la «macchinetta cavapensieri», e si limitava ad attribuire anche ai pazzi «la ragione, o meglio, un loro raziocinio particolare, logicissimo, forse più del nostro» (v. NUAII, p. 1320). Non è infatti Pitagora l’inventore dell’umoristica definizione, ma Ippolito Onorio Roncella, l’estroso zio di Silvia, in Suo marito (v. RI, p. 628), e da lui Pitagora la eredita nella stampa del 1919.
17 Per il pazzo, la persona scambiata per lui ha subito assunto uno statuto di realtà completamente diverso da quello che ha per gli altri: non è un qualunque altro, un estraneo del quale non mette più conto parlare, ma un suo doppio, un sé non si sa come smarrito. E, momentaneamente dimenticata la paura della donna che l’aveva sconvolto, il folle non desidera altro che ritrovare al più presto «quell’altro sé, libero e felice», quel Tito Bindi fortunato e intatto al quale ricongiungersi, del quale reimpossessarsi.
18 V. La veglia, p. 903 e n. 27.
19 V. Disdetta, n. 22.
20 È bastato un sorriso d’intesa di Pitagora allo sconosciuto perché l’angoscia riprendesse il sopravvento, e con essa le regole ineluttabilmente sessuofobiche e repressive del corpus pirandelliano. Il Tito Bindi colpevole, infelice e malato si comporta, nei confronti di quell’altro se stesso felice, sano e ancora innocente come un bambino, come un paradossale gemello che ha fatto esperienza della vita, e assume un ruolo obliquamente paterno e minaccioso per intimargli di fuggire le donne se non vuole rovinarsi e rovinarlo, se non vuole colpevolmente diventare il padre d’un «bambino cieco». Non il padre cattivo, come nel Sandmann hoffmanniano discusso da Freud, minaccia il bambino di evirazione e annienta poi tutti gli oggetti d’amore del figlio, ma la madre castratrice che si nasconde in tutte le donne. Perciò il gemello paterno intima e supplica l’astinenza, la rinuncia al sesso.
21 Il segmento successivo, e conclusivo, della novella viene instaurato nel 1903 e, rilanciando imprevedibilmente e complicando la vicenda, modifica radicalmente lo scipito finale originario, che era il seguente: «[…] non debba ridurmi come lui. / – Ah, no davvero! – gli augurai io. – Intanto, guardi: finora io La ho salutata per Tito Bindi… vorrei aver l’onore, or che l’equivoco è chiarito, di salutarla col Suo vero nome. Eccole la mia carta da visita. / E sono stato sciocco una volta di più! / Prima almeno questo signore rideva di me senza sapere come mi chiamassi. Ora lo sa, e può dire: Rido proprio di te, Camillo Bandoni! / E meno male, alla fin fine, che non mi chiama Pitagora anche lui!» (pp. 450-1).
22 L’anatema del sosia ha avuto effetto. A Ermanno Lèvera Pitagora aveva detto: «Se lo avesse veduto prima, tre anni fa, scapolo, qua a Roma… Lei in persona!». L’ultima sua esclamazione ha quasi la performatività perfida, ancorché involontaria, d’una formula magica che opera la metamorfosi nominandola. Ed Ermanno Lèvera non ha più potuto liberarsi dell’immagine di se stesso disperato e folle che in Tito Bindi gli si era mostrata. Anziché sfidare la profezia di quell’oracolo, rinuncia e fugge.
23 Mandato a monte.
24 Non c’è altra speranza, se si vuole che la catena perversa dei sosia venga finalmente spezzata e che cessi anche la disdetta di Pitagora, mediatore suo malgrado, e sfortunato, delle perturbanti e catastrofiche agnizioni.
1 Fu pubblicata nella «seconda serie» di Beffe della morte e della vita (Firenze, Francesco Lumachi, 1903) e non più ristampata da Pirandello, né inclusa fra le «novelle per un anno». Venne recuperata solamente nell’Appendice di L. PIRANDELLO, Novelle per un anno, vol. II, a cura di M. Lo Vecchio-Musti e A. Sodini, Milano, Mondadori, 1938. Per la discendenza da questa novella della commedia Ma non è una cosa seria, v. anche Non è una cosa seria, n. 1.
2 Buontemponi, allegroni.
3 Così i «capi scarichi» come i «tipi buffi» hanno bisogno, per sussistere, d’un giudizio che li investa e d’un’ottica che li osservi. Ma ottiche e giudizi sono variabili. Ed ecco che, mentre l’istanza esterna di narrazione ha in un primo momento omologato questi a quelli opponendoli agli altri avventori della Pensione di famiglia, «brava gente morigerata», si scopre ora che, col sostanziale beneplacito del narratore, l’ottica ludica e dissacrante dei capiscarichi ravvisa dei tipi insospettabilmente buffi nei «bravi avventori morigerati» come il Cedobonis e Martino Martinelli, nonché nel collerico maestro Trunfo e nel poeta Giannantonio Cocco Bertolli, del quale il narratore stesso ci dirà (p. 846) che, «senza dubbio, era il tipo più buffo della pensione». Si intende dire che, mentre un personaggio è o non è morigerato come il Martinelli ed è o non è una «vittima della sua molta dottrina scientifica» come il Cedobonis, buffo è solo colui che qualcun altro trova buffo. E proprio il gioco incrociato e ritorsivo delle varie ottiche è in questa novella uno dei più efficaci operatori e moltiplicatori umoristici. Nella loro patetica serietà come nella programmatica non-serietà, tutti appaiono via via buffi attraverso gli occhi degli altri.
4 Il corso professionale di studi per la formazione degli insegnanti elementari, istituito con la legge Casati del 1859 e sostituito nel 1923, con la riforma Gentile, dall’Istituto Magistrale.
5 Ennesimo caso esemplare di dissidio mente-corpo risolto a tutto vantaggio della prima. In Quand’ero matto (v. p. 765), il protagonista rinsavito riconosceva il seguente come uno dei guasti della sua follia: «Il male era che non comprendevo che altro è ragionare, altro è vivere». Il professor Cedobonis, al contrario, scambia la razionalità per il solo modo di vivere bene.
6 Immediatamente e furiosamente.
7 Dopo uno scandalo.
8 Alesatoio, strumento che viene applicato al trapano per perfezionare fori cilindrici. La medesima immagine passa nel 1905 a caratterizzare una pettegola nella novella Di guardia (v. NUAI, p. 1403). Nel 1910, «saettella di trapano» verrà definito, ne Il professor Terremoto (v. II 505), il raziocinio accanito dei meridionali.
9 Scaraventata, trasferita di colpo lontano.
10 Fandonie.
11 La memoria interna pirandelliana conserverà il colorito personaggio di Momo Cariolin e lo rimetterà in scena, opportunamente riadattato, nel 1911, nella scena del banchetto del romanzo Suo marito: «– Cariolin! Cariolin! – gridarono alcuni in quel momento, facendo largo a un omettino profumato, elegantissimo, che pareva fatto e messo in piedi per ischerzo, con una ventina di capelli lunghi, raffilati sul capo calvo, due violette all’occhiello e la caramella. / Momo Cariolin, sorridendo e inchinandosi, salutò tutti con ambo le mani inanellate e corse a baciar la mano a donna Francesca Lampugnani. Conosceva tutti; non sapeva far altro che strisciar riverenze, baciar la mano alle signore, dir barzellette in veneziano; ed entrava da pertutto, in tutti i salotti più in vista, in tutte le redazioni dei giornali, da pertutto accolto con festa; non si sapeva bene perché. Non rappresentava nulla, e tuttavia riusciva a dare un certo tono alle radunanze, ai banchetti, ai convegni, forse per quel suo garbo inappuntabile, complimentoso, per quella sua cert’aria diplomatica» (v. RI, p. 610).
12 Grassottello.
13 Potessero essere contenute.
14 È il nome con cui, in onore del re Cristiano IV, la capitale norvegese Oslo venne ribattezzata nel 1624 (anno in cui fu distrutta da un incendio e interamente riedificata), e che poi portò fino al 1925.
15 Oscar II (1829-1907), nipote di Bernadotte, sovrano dei due paesi dal 1872 al 1905, anno in cui la Norvegia si separò dalla Svezia.
16 Si era sfiancato, era restato senza fiato. Derivato dal toscano bònzola (vescica), sbonzolarsi significa il “creparsi d’una muraglia per cedimento” e anche l’“allentarsi d’un corpo vivente”.
17 Composto dal sostantivo greco eros (amore) e dall’aggettivo verbale di stòrnymi (stendere), il titolo significa all’incirca “il vinto d’amore”.
18 In ciò, lo stralunato professore-poeta precede Simone Pau, l’amico di Serafino Gubbio, e il dimissionario dottor Mangoni: v. Niente III 424 e n. 19. Ma, elevando alla sublimità gli «straccioni impidocchiati», Giannantonio Cocco Bertolli va anche oltre e si mostra, con trent’anni di anticipo, degno di far parte della bislacca compagnia degli Scalognati, dal momento che ne I giganti della montagna sarà proprio il mistagogo Cotrone a parlare dei mendicanti come di «gente sopraffina […] e di gusti rari, che han potuto ridursi alla condizione di squisito privilegio, che è la mendicità» e ad asserire icasticamente: «Non c’è mendicanti mediocri» (v. MNII, p. 1344).
19 Motteggiasse, schernisse (toscanismo).
20 Anche nei goffi versi amorosi del poeta Cocco Bertolli la «bell’anima» si oppone alla «ruvida spoglia mortal».
21 Latinismo per “stabilito”, “decretato”.
22 Lustri di lacrime.
23 Esclamava rabbiosamente.
24 Ribadì.
25 V. Non è una cosa seria II 461: «E s’innamorava, il disgraziato, s’innamorava con una facilità spaventosa». La novella del 1910 è una manifesta variazione sul motivo del matrimonio per scherzo o, meglio, del matrimonio cautelare. Ma tra quel racconto e questo c’è L’umorismo.
26 «La figura leggendaria dell’Ebreo che schernì Cristo sulla via del Calvario e fu condannato a vagare fino alla fine del mondo» (GDLI).
27 Di qui il titolo della novella di sette anni posteriore e quello della commedia del 1918 Ma non è una cosa seria.
28 Per successive sventure sterniane concernenti il naso, si veda Va bene II 128-9 e n. 14.
29 Se si volesse, e potesse, attribuire valore extradiegetico alla data di nascita di Carolina, si potrebbe inferirne che la composizione della novella risale al 1900.
30 Frac.
31 Quella della povera Carolina è in certo modo una pena umoristica allo stato puro, è umorismo nascente in corpore vivo. La sua «angoscia strana» le suscita infatti un prurito di riso ed uno di pianto, produce cioè un sintomo doppio e contraddittorio, tipicamente umoristico. Il tutto perché Carolina, pur disposta ad accettare senza ribellarsi lo scherzo amaro del matrimonio-buffonata, non può impedire che la buffonata-matrimonio risvegli e solletichi la sua femminilità repressa e disprezzata: «Così […] per ridere, le toccava di sposare! E lei ne rideva». Tutto come prima e come sempre, dunque, fra la pingue locandiera ridanciana e i tipi buffi della sua pensione. Ma il «bah!» che tronca le tacite riflessioni di Carolina è più fuggitivo che non rassegnato, è più uno schermo che separa frettolosamente il sentimento e la realtà che non uno strumento capace di conciliare quello e questa. La donna non vuole che i termini della questione le si rimescolino, non vuole pensare che se per sposare le tocca ridere, lei intanto sta per sposare.
32 Grigio rosato.
33 Finanziera (v. Lontano, n. 4).
34 Antiquato «indumento maschile […] bene attillato alla vita, che ricopriva il busto, lungo fino al ginocchio» (GDLI).
35 Che battono con frequenza le palpebre.
36 Altro librettismo trasparente: v. Sole e ombra, p. 307 e n. 24. Qui la fonte, celebre, è il libretto di Francesco Maria Piave per il Rigoletto verdiano e, più precisamente, l’attacco tenorile del Duca di Mantova nel Quartetto del terzo atto: «Bella figlia dell’amore, / Schiavo son de’ vezzi tuoi».
37 Esausta (toscanismo).
38 L’orgoglio verginale di Carolina è sincero e candido, ma altrettanto candida è la coltre argomentativa con la quale, nel suo soliloquio, si sforza di coprire il desiderio che la sua illibatezza disprezzata sia infine messa alla prova.
39 Che (v. La ricca, n. 7).
40 In questo interrogarsi, nel correre involontariamente col pensiero ad un’altra donna, nell’avvertire un improvviso vuoto, la semplice Carolina anticipa, sia pur parzialmente, di diciassette anni i tormenti che saranno della signora Léuca in Pena di vivere così (v. III 395).
41 V. La levata del sole, p. 524 e n. 24.
42 Sbarrate.
43 Anche la metafora della sua vita disordinata, dalla quale Biagio Speranza si impone di uscire, rinvia a Gosto Bombichi e alla sua altra ma analoga metafora: «S’era seccato, del resto. Ne aveva la bocca così amara! Bile, no; neanche bile. Nausea. Perché s’era tanto divertito lui, ad averla tra mano come una palla di gomma elastica la vita, a farla rimbalzare con accorti colpetti, giù e su, su e giù, battere a terra e rivenire alla mano, trovarsi una compagna e giocare a rimandarsela con certi palpiti e corse avanti e dietro, para di qua, acchiappa di là; sbagliare il colpo e precipitarsele dietro. Ora gli s’era bucata irrimediabilmente e sgonfiata tra le mani» (v. La levata del sole, p. 520).
44 V. Dialoghi tra il Gran Me e il piccolo me, p. 256 e n. 19.
45 Gonfio.
46 V. L’amica delle mogli, p. 154.
47 Che (v. la n. 39).
48 Battente.
49 Il motivo dell’ebbrezza provocata dalla rifioritura primaverile (che è d’altronde uno dei più classici e attestati topoi letterarî) è cospicuamente testimoniato nel corpus narrativo pirandelliano, sia in senso proprio che come naturale campo metaforico per le illusioni di rifioritura vitale dei personaggi. Si vedano, a partire da L’onda (1894), almeno Il dovere del medico (1902), Va bene (1905), La corona e La vita nuda (1907), Il coppo (1912), Filo d’aria (1914), La camera in attesa (1916), La maschera dimenticata (1918), Rimedio: la geografia (1920), Visita (1935).
50 La casa campestre di Biagio Speranza diventa l’oggetto del desiderio del dottor Cima nell’incipit della novella del 1907 La corona (v. II 314).
51 Pendio esposto a tramontana.
52 Susine selvatiche.
53 V. La levata del sole, p. 525 («Ritrasse la mano che gli s’era insaporata d’una fragranza di mentastro acuta») e n. 27. Il passo riaffiora tale e quale, alla lettera, ne La corona (v. II 314). I mentastri e le salvie ricompaiono accoppiati anche (nel medesimo 1907) in Un cavallo nella luna (v. II 325), mentre le prugnole ritornano, accostate ai mentastri, nel 1912, in Ignare (v. II 791). Ed anche ne I vecchi e i giovani l’aria intorno a Valsanìa è «satura di fragranze, amare di prugnole, dense e acute di mentastri e di salvie» (v. RII, p. 137).
54 L’imprecazione peregrina di Dario Scossi si spiega con un irresolubile nodo situazionale contenuto in Hernani di Victor Hugo, certamente mediato, peraltro, dalla riduzione librettistica di Francesco Maria Piave per l’Ernani di Verdi. Alla fine dell’atto secondo, il protagonista stringe un patto di morte col vecchio Silva, implacabile rivale al quale è però debitore della vita. Consegnandogli il proprio corno da caccia, Ernani promette: «Ecco il pegno: / Nel momento in che Ernani vorrai spento, / se uno squillo intenderà / tosto Ernani morirà». Nel finale dell’opera e nel bel mezzo della festa nuziale di Ernani ed Elvira, Silva viene a pretendere il prezzo del «giuramento orribile» ripetendo le parole della promessa; ed Ernani, dopo averlo scongiurato invano, tiene fede al patto e si uccide.
55 I pugni (v. Un invito a tavola, n. 15).
56 Molla.
57 Che (v. la n. 39).
58 V. n. 35.
59 V. F. PETRARCA, Canz. CCCX, 1.
60 Poeta greco (c. 570-485 a.C.) che scrisse componimenti lirico-elegiaci e satirici, quasi interamente perduti, ma la cui fama è restata legata proprio a un gruppo di brevi e lievi odicine che gli sono state erroneamente attribuite e che da lui prendono il nome di anacreontiche.
61 È noto che il diciannovenne Pirandello pensò a una commedia (che forse scrisse e che si favoleggia bruciata fin dal 1887) intitolata Gli uccelli dell’alto. Ne aveva condensato l’assunto in una lettera ai familiari, da Palermo, del novembre 1886, nei termini seguenti: «Studio gli spostati, gli illusi, i sognatori della vita»; e il 31 ottobre dello stesso anno ne aveva più esplicitamente scritto alla sorella Lina: «Lina mia, hai veduto le grue volare? Quei poveri uccelli sono pazzi e non posano quasi mai. I venti e le tempeste le percotono; ma loro van sempre avanti. I galli e le galline, gli uccelli borghesi, razzolano nel fango e ridono di quelli uccelli dell’alto, che passano stridendo, quasi imprecando… Che vuoi tu che capiscano quei galli e quelle galline?». Di queste gru migranti, il poeta di Mal giocondo si rammentò nel 1889, e in Romanzi V, 22-7 si legge infatti: «Se tristi grue pe ’l ciel fosco passare / vedea mesto, tra gli alberi battuti / da i primi venti d’autunno, in mente / io mi dicea: “Là giù, là giù, lontano, / nel bel paese dei miei sogni andranno, / ove eterna fiorisce primavera”». Infine, nella novella del 1902 Lontano, il marinaio norvegese Lars Cleen, approdato fortuitamente in Sicilia e chiamato, con una storpiatura-semantizzazione del suo nome, L’arso, suscita in quel paese eternamente primaverile la curiosità: «La gente si fermava a osservarlo, mentr’egli se ne stava in quell’atteggiamento, tra smarrito ed estatico: lo guardava, come si guarda una gru o una cicogna stanca e sperduta, discesa dall’alto dei cieli» (v. p. 645). Bastando le gru dantesche («E come i gru van cantando lor lai, / faccendo in aere di sé lunga riga», Inf. V, 46-7; e «Poi, come grue ch’a le montagne Rife / volasser parte, e parte inver’ l’arene, / queste del gel, quelle del sole schife», Purg. XXVI, 43-5), evocare l’albatro baudelairiano (peraltro re delle tempeste) è forse superfluo. Ciò che a Pirandello interessa tematicamente di più è opporre alla perenne inquietudine e al volo alto e folle di gru e cicogne, l’incomprensione ottusa e gretta dei volatili da cortile, galline e oche. Ancora nel 1932, nel dramma Trovarsi, si leggerà: «C’è soltanto da negare che la “normalità” delle galline possa intendere il volo disperato d’una gru»; e il personaggio che ha evocato la metafora, la spiega: «La gallina è la morale comune, borghese, con tutti i suoi preconcetti e pregiudizii» (v. MNII, p. 908).
62 V. Concorso per referendario al Consiglio di Stato, p. 744 e n. 19.
63 Già destituito e cacciato, già ridotto a mendicare (v. p. 846), il poeta anti-sociale Giannantonio Cocco Bertolli matura qui, nei termini contraddittori di un cinico furore, la propria orgogliosa filosofia di dimissionario. In questo senso, costituisce l’umoristico e iperbolico prototipo di alcuni filosofi rabbiosi che ricompariranno via via nel corpus (si pensi a La trappola e a La distruzione dell’uomo), a riscontro con altri dimissionari, imperturbabili e freddi, affabili e apparentemente placidi, come quelli che si incontreranno in Acqua amara, in Quando s’è capito il giuoco e infine negli incompiuti ed estremi Giganti della montagna.
64 Nell’ordine del realistico, il duello è un motivo borghese per eccellenza e per eccellenza serio: ne va dell’onore e della vita di gentiluomini. Traslitterato nel codice di scrittura (e di lettura) umoristico, diventa una circostanza straordinariamente favorevole a manifestare e svelare il ridicolo del serio e il serio del ridicolo. Questo, in particolare, che è il primo vero duello pirandelliano rappresentato, mette di fronte, non lo si dimentichi, un «capo scarico» e un «tipo buffo», ossia due personaggi fuori del comune trascinati in uno dei più codificati luoghi comuni della vita associata. La sanguinosa liturgia sociale cui si apprestano è per entrambi insensata e insensato, serissimamente ridicolo, è da capo a fondo il loro scontro.
65 Il finale del lungo racconto propone una improbabile restaurazione dell’ordine, un consunto lieto fine con la trasgressione punita e la bontà premiata. Ne è garante in primo luogo il restauro del nome di Carolina, che fa giustizia e delle deformazioni burlesche (Pentolona Carolini) e dei nomignoli allusivi (Carolinona). La riserva di patetismo sentimentale di cui Carolina è portatrice (suo malgrado) sana (v. pp. 848-9) finisce per traboccare e avere la meglio su tutte le stranezze buffe o grottesche, su tutte le madornali eccentricità dei suoi pensionanti. È un finale che rappresenta in qualche modo un’abiura dell’umorismo, che Biagio Speranza, transitato attraverso quel rito di passaggio da una vita a un’altra che è la ferita mortale e la convalescenza, seppellisce insieme alla sua vita anteriore. Conquistato dalla bellezza della dedizione alla serietà dei buoni sentimenti, l’antico «capo scarico» si purga delle bizzarrie umoristiche e approda ad un piano happy ending realistico. La controprova di questa svolta, che fa de La signora Speranza una vicenda di umorismo rientrato, si avrà, a distanza di quindici anni, proprio nella commedia Ma non è una cosa seria, che utilizzerà cospicuamente anche materiali provenienti dalla novella del 1910 Non è una cosa seria, ossia da un testo incrollabilmente umoristico, e anche questi tuttavia adibirà proprio a magnificare lo snodo che conduce allo scioglimento sentimentale. Semmai, nel testo teatrale del 1918 questo scioglimento è ben più enfatico e ben meno credibile che non qui. Vero è che nella commedia la dissolutezza bizzarra di Memmo Speranza appare, fin dall’atto secondo, venata di amarezza nostalgica e segnata dalla sofferenza, ma vero è anche che il suo repentino e appassionato innamoramento finale per Carolina è dovuto alla stupefacente metamorfosi che fa rifiorire la ventisettenne e vergine protagonista e la fa d’un tratto corrispondere ad un ideale femminile che Memmo aveva vagheggiato e credeva scomparso, con un vistoso surplus di enfasi rispetto alla smorzata sordina dell’explicit novellistico.
1 Fu pubblicata per la prima volta su «Il Marzocco» il 14 febbraio 1904. Nel 1910 fu compresa nella raccolta La vita nuda (Milano, Treves) e venne infine inclusa nell’omonimo secondo volume delle «novelle per un anno», La vita nuda (Firenze, Bemporad, 1922), che consta di quindici delle diciassette novelle della raccolta milanese.
2 Non si vedeva neanche. Fra gli idiomatismi toscani annotati da Pirandello nelle ultime pagine del cosiddetto Taccuino di Coazze, si legge: «Con due manine che non parevano nemmeno» (v. SPSV, p. 1204).
3 Il cloruro mercurico, detto comunemente sublimato corrosivo.
4 È qui enunciata quella che è in qualche modo l’armatura tematica della breve storia: l’abisso che corre fra l’oggettiva e consunta banalità e la poco interessante ripetitività d’una vicenda come quella di Raffaella Òsimo, e il fardello insopportabile di disperata sofferenza che quella medesima vicenda comporta per il soggetto che la patisce.
5 Diploma.
6 Premura, fretta.
7 Rumore cardiaco abnorme.
8 Il fulmineo capitoletto segna l’ineluttabile catastrofe della breve strapiombante vicenda. La sequela di perdite, abbandoni, umiliazioni, cui fa seguito il triplice tentativo di suicidio, si snoda lungo un unico vertiginoso piano inclinato che ha tutte le caratteristiche del caso-fato deterministico. E segnata è, di fatto, in Pirandello, la sorte dei personaggi che, come Raffaella, hanno una natura «appassionata e credula», un cuore che «batte troppo», una candida incapacità di rassegnazione. Dopo Lumíe di Sicilia, è questa la novella più rigorosamente e implacabilmente realistica che Pirandello abbia fin qui scritto, e anche una di quelle in cui, tra la cifra del cartiglio titolare e la proposizione conclusiva che la mette in chiaro, la forma novella rispetta uno dei suoi più canonici schemi chiusi.