1 Fu pubblicata per la prima volta, con il titolo Incontro e in una redazione incomparabilmente più stringata, su «Ariel» il 15 gennaio 1898. Con il titolo definitivo, venne ristampata su «Il Marzocco» il 2 maggio 1904. Due anni più tardi fu compresa nella raccolta Erma bifronte (Milano, Treves, 1906), dove è dedicata al piemontese Giovanni Cena (1870-1917), poeta, saggista e romanziere, dal 1904 e fino alla morte redattore e praticamente codirettore della «Nuova Antologia». Venne infine inclusa nel sesto volume delle «novelle per un anno», In silenzio (Firenze, Bemporad, 1923). Nel 1919, dallo spunto novellistico Pirandello cavò la commedia in tre atti Come prima, meglio di prima, che andò in scena in una prima assoluta quasi clandestina al Teatro Sannazzaro di Napoli il 14 febbraio 1920 (v. la nota di A. D’Amico in MN2, pp. 505-6) e debuttò ufficialmente al Teatro Goldoni di Venezia il 24 marzo dello stesso anno. Non solo la redazione novellistica prima, e minima, ma anche la più estesa versione del 1904 narra in sostanza il rovente, precipitoso epilogo d’una vicenda i cui trascorsi, specie sul versante più remoto, quello del tempestoso matrimonio di Silvio e Fulvia Gelli, restano in larga misura taciuti e in piccola parte evocati per allusioni ellittiche, tanto quanto basta a motivare la rottura, lo scandalo, la separazione e i differenti opposti destini di lei e di lui nell’arco dei successivi tredici anni. Solo il delirio di denudamento del Mauri fa sì, viceversa, che egli voglia, autopunitivamente, gridare la sua storia sciagurata. Ma la vicenda narrata si brucia in meno di una notte e con la morte della donna tutto è consumato. Nella commedia Fulvia Gelli, operata dal marito, viene miracolosamente salvata, e quell’epilogo mancato, che per più di metà del primo atto i personaggi di contorno faticosamente ricostruiscono a beneficio degli spettatori, diventa l’antefatto prossimo d’una tutt’altra vicenda di cui Fulvia è l’assoluta e incontrastata protagonista: la deriva drammaturgica, comunque la si valuti, è così radicale da recidere ogni rapporto e da rendere futile ogni ulteriore confronto con la novella.
2 Gesticolando.
3 Turbata, scomposta.
4 A stanghetta.
5 Da “sbiobbo”, ossia piccolo, storto, rachitico. Per una estesa narrativizzazione del decorso patologico che determina una tale condizione, v. I tre pensieri della sbiobbina (1905) II 16.
6 L’apparizione della povera infelice inaugura la serie delle controscene e dei siparietti che amplificano e coloriscono, fin dalla redazione del 1904, il racconto. La versione originaria, i cui soli attori erano la moribonda, il marito, l’amante e un prete ricordante, ne era completamente priva.
7 Ribadì.
8 Gemette.
9 Anche nella prima redazione era soprattutto la disperata sfrontatezza del Mauri a forzare il silenzio e il buio che avvolgono i moventi e gli eventi pregressi della storia, ma con questo protestare il proprio diritto a una sincerità senza vincoli, egli significa il superamento della soglia delle convenienze (ed è un passaggio già molto pirandellianamente connotato) e nel contempo l’oltranza della sua istanza di sincerità. La storia è fosca, il registro della narrazione è palesemente realistico, e viene qua e là ispessito da deliberate dissonanze di timbro espressionistico e grottesco, ma la furia disvelante del Mauri, che pretende di interpretare senza reticenze né eufemismi la vicenda di cui è protagonista, avanza dall’interno del mondo narrato una petizione discorsiva in qualche modo metarealistica e perciò stesso sarcasticamente iperrealistica. In presenza d’un simile «pazzo» parlante, nulla può restare occultato e taciuto e niente si può più nominare in modo neutro e riguardoso. Ancora poco sopra (p. 892) il Mauri aveva detto: «non deve scacciar me, che l’ho raccolta, che l’ho adorata e che per lei ho spezzato anche la mia vita»; ed era il tono che conviene al realismo patetico. Subito sotto dirà: «Flora, quand’io la conobbi, era sulla strada», e ogni convenienza, ogni patetica commozione è seppellita in questo suo chiamare la donna, che pure disperatamente ama, col suo nome di prostituta da strada. Di qui il sarcasmo implacabile che gli farà definire «buffonate» il «sacro ministero» invocato dal prete e la «commedia del perdono» che il corruttore pentito è venuto a recitare, e poco oltre (p. 895) «buffoni» quel «canonichetto affittacamere», la cognata non più giovane che si fa bella con un «parrucchino riccio, biondo» e l’«illustre signore che è venuto a perdonare». Il tutto mentre gli altri continuano a recitare, nell’ossequio del realismo più edulcorato, l’untuosa commedia delle convenienze.
10 Piccolo centro distante otto chilometri da Como. Pirandello, sulla via di Bonn, vi si era trattenuto per circa un mese nel 1889 (v. FVN, p. 69 e GG, p. 113).
11 Questi personaggi di contorno provengono da un appunto montepulcianese del 1903, trascritto nel cosiddetto Taccuino di Coazze: «La signora Naccheri, vedova, tiene una pensione col su’ bel garbo toscano, franco – Ha una figlia, abbandonata dal marito – don Innocenzo è cugino della signora» (v. SPSV, p. 1202).
12 Mi pare che sia già uscito di senno (espressione di palese coloritura idiomatica toscana). Nel Taccuino di Coazze è annotato: «Gli pareva d’andar via col cervello» (v. SPSV, p. 1203).
13 Cittadina della provincia di Siena, situata in cima a un colle che separa la Valdichiana dalla Val d’Orcia.
14 La didascalia al primo atto della commedia preciserà: «in un paese della Valdichiana».
15 L’una (qui, di notte).
16 V. La levata del sole, p. 523 e n. 10.
17 Per la verità, la sola pietà potrebbe dirsi opposta agli altri sentimenti che il personaggio prova; ma il contesto induce a inferire che l’oggetto di quei disperati e laceranti sentimenti non sia la sola Fulvia.
18 Ancora una volta, nella percezione spasimosa indotta da un silenzio carico di tensione, l’affioramento simultaneo e la commistione di alcuni grandi motivi ricorrenti: la sensazione d’una autonoma vita delle cose e il senso palpabile, quasi una reificazione, dello stato di sospensione connesso all’attesa. Il corpus pirandelliano ridonda di questi attimi sospesi, di queste immobilità vuote e, nel contempo, tesissime in cui la bilancia della sorte e degli eventi sembra minacciosamente bloccata in una paradossale posizione di perfetto squilibrio.
19 Apertura chirurgica della cavità addominale.
20 V. Tra due ombre (1907) II 295 e n. 23.
21 Divanetto (v. La signorina, n. 32).
22 Torbida, terrosa.
23 Acido cianidrico, il cui sale, il cianuro, è un veleno letale.
24 Scavalcano.
25 Introducevo in un recipiente per estrarli a sorte.
26 V. Le tre carissime, p. 139 e n. 7. Il sarcasmo sull’uomo-porco e sulla sua educazione attraversa da capo a fondo il corpus novellistico. Nel 1910, in Non è una cosa seria, si leggerà (v. II 460): «È vero che, dopo tanti secoli di civiltà, molti nel loro antro ospitano ormai una bestia troppo mortificata: un porco, per esempio, che si dice ogni sera il rosario»; e nel 1916, ne Il Signore della Nave, sarà ribadito (v. III 236): «Perché un porco è porco e basta; ma un uomo, no, signori, potrà anche esser porco, non dico, ma porco e medico, per esempio, porco e avvocato, porco e professore di belle lettere e filosofia, e notajo e cancelliere e orologiajo e fabbro…».
27 Il riso inatteso, l’abbandono dello stirarsi, ma soprattutto questi occhi (già del resto denominati come «occhi da matto») sono sintomi del fatto che il Mauri sta scivolando, oltre la disperazione, verso una sorta di euforia folle. Lo confermano gli occhi «chiari, ilari, parlanti» di Tito Bindi, giovane infelicemente ammogliato e impazzito, ne La disdetta di Pitagora (v. p. 855); e anche la liberatoria esultanza di Paolino Lovico in Richiamo all’obbligo (v. II 250) sfiorerà quasi comicamente la demenza, e lo diranno i suoi occhi «lustri ilari parlanti»; e infine «sbarrati ilari parlanti» saranno gli occhi che Bernardo Morasco, alticcio e disperato, pianterà senza ragione, parlando intanto da solo, in faccia a una passante ne Il coppo (v. II 729). Le serie attributive, appena variate, marcano in tutti i casi un’eccitazione esilarata, una vitalità strana e contraddittoria, un eccesso che è sintomo di sconvolgimento e squilibrio. Lo scioglimento discorsivo delle trittologie ne I due compari (v. II 776), dove di Butticè impazzito di stizza gelosa si dirà che «gli occhi ilari gli lucevano di follia», svolgerà quasi funzione di definizione esplicativa rispetto alla grumosità semantica degli aggettivi. Faranno eccezione soltanto gli «occhi azzurri ilari parlanti» del candido giornalista americano C. Nathan Crowell nel romanzo Suo marito (v. RI, p. 661) e, in parte, gli «occhietti celesti quasi di vetro, aguzzi, ilari, parlanti» (v. MNII, p. 1167) del vecchio Cico di Lazzaro: in parte, poiché nell’esile vecchietto la maliziosa arguzia non va disgiunta da una conclamata bizzarria.
28 Ciò!: esclamazione veneta (che esprime perlopiù stupore, sorpresa) modellata sull’imperativo del verbo cior (tôrre, togliere nel senso di prendere), e che equivale all’italiano “to’”. Nel ritratto fosco del Gamba pare riaffiori, ancorché del tutto trasformata, la memoria d’un certo Sambo, anche lui veneto e mosaicista, col quale Pirandello strinse una breve amicizia nei primi tempi del soggiorno a Bonn nel 1889 (v. FVN, p. 70, e GG, p. 116).
29 Presente fin dalla versione del 1898, questo passo inaugura il motivo, poi ricorrente, del narcisismo femminile. La specificità è però costituita dal fatto che sia Fulvia stessa, ossia una donna oppressa dai suoi sensi di colpa facilmente inferibili e socialmente condizionati, a connotarlo in termini di autoaccusa degradante (l’evocazione della seduzione narcisistica incestuosa non potrebbe esserlo di più) e a farne il fondamento della sua misoginia ex parte feminarum, sofferta fino al suicidio. In seguito, la vanità narcissica delle donne sarà più volte configurata come tratto costituzionale della psicologia e della seduzione sessuale femminile dall’ottica che presiede al corpus e che, appartenga essa ai narratori o ai personaggi, è viceversa pressoché tutta maschile. Così era del resto già nel 1894, ne Le tre carissime, che segnava la primissima occorrenza del motivo, dove l’occhio che guarda e la voce che parla sono quelli d’un amico-pretendente: «Quando, qualche sera, comparivano in salotto a noi due soli, abbigliate con qualche abito nuovo, già pronte per recarsi o in casa di famiglie amiche o a teatro, si accorgevano tutt’e tre del desiderio che suscitavano in noi; e per il nostro desiderio segreto, ma sfavillante dagli occhi, avevano uno sguardo e un sorriso indefinibile, di compiacimento per sé e di pietà per noi» (v. p. 141). Così sarà nel 1905 in Acqua amara II 112: «Le donne non possono farne a meno: per istinto, vogliono piacere. Han bisogno d’esser desiderate, le donne»; e: «Più che amore è una cert’aura di ammirazione di cui ella [la donna] vuol sentirsi avviluppata […] Quella cert’aura può spirar fuori, dagli occhi degli uomini che non sanno, e dei quali essa, senza parere, con arte sopraffina, ha voluto e saputo attirare e fermare gli sguardi per inebriarsene deliziosamente». Così sarà, per quanto il filtro dell’onniscienza narrativa e il sagace va e vieni della focalizzazione interna tendano ad occultare ogni distanza ed esaltino invece la perfetta aderenza fra parola narrante e sensazioni narrate, nella novella del 1909 L’ombrello II 450, dove d’una giovane madre vedova si legge: «Chi sa perché, anche quella sera là, mentre andava frettolosa fra le sue bambine, tutti si voltavano a mirarla […] Quell’ammirazione, intanto, quegli sguardi ora arditi e impertinenti, ora languidi e dolci, colti a volo per via, con apparente fastidio o anche, certe volte, con sdegno, le cagionavano in fondo una frizzante ebbrezza; le ilaravano lo spirito; davano quasi un sapore eroico a quella sua rinunzia al mondo, e le facevano stimar bello e lieve il sacrifizio per il bene delle due figliuole […]. Ebbene, certi giorni, senza saper perché, o meglio, senza volersene dire la ragione, ella cadeva in una cupa irrequietezza; era agitata da una sorda irritazione, che cercava in ogni più piccola contrarietà (e quante ne trovava, allora!) un pretesto per darsi uno sfogo. Le erano mancati per via quegli sguardi, quell’ammirazione». Esplicitamente e a maggior ragione ciò varrà nel 1911 per L’uomo solo II 598, dove agli uomini soli seduti a un caffè di via Veneto «[…] i visi delle donne, sotto i cappelloni spavaldi, sorridevano accesi da riflessi purpurei. Offrivano con quel sorriso all’ammirazione e al desiderio degli uomini il loro corpo disegnato nettamente dagli abiti succinti». V. ancora, e ci si limita alle occorrenze più evidenti, Zia Michelina III 44: «Si vide allora, per parecchi mesi, zia Michelina uscir di casa e andare in chiesa e poi a spasso, tutta attillata, benché vestita di nero, con la spagnoletta di pizzo e il ventaglio, le scarpine lucide dai tacchetti alti, ben pettinata e con quell’impaccio particolare delle donne che non vogliono mostrare il desiderio d’esser guardate, e che è pure un’arte per farsi guardare»; La rosa III 84: «La signora Lucietta vedeva e sentiva tutto questo. Il guizzare di tanti desiderii da occhi accesi che la seguivano in tutte le mosse e la carezzavano con lo sguardo voluttuosamente, il calore di simpatia che la avvolgeva, inebriarono in breve anche lei», e III 89: «Fresca, leggera, tutta compresa, tutta compresa nella sua gioja che respingeva ogni contatto brutale, ridendo e guizzando con scatti improvvisi, per appagarsi di se stessa, intatta e pura in quel suo momento di follia, agile fiamma volubile in mezzo al tetro fuoco di tutti quei ciocchi congestionati, la signora Lucietta, vinta la vertigine, divenuta lei stessa vertigine, ballava, ballava, senza più nulla vedere, senza più distinguere nessuno»; Candelora III 242: «Nella rabbia, ella nota l’ammirazione negli occhi di lui, e istintivamente ha un sorriso di compiacimento, che subito però le esaspera»; Piuma III 271: «Si dondolava andando, ma così leggera! per quel traforo verde del lungo pergolato opaco, con in fondo il sole abbarbagliante; le manine rosee appese alle falde del gran cappello di paglia stretto ai lati da un nastro di velluto nero annodato sotto il mento. Oh quella paglia! Sul cristallo azzurro della fontana in fondo al pergolato, ove lei ora corre a specchiarsi, pare un cestello rovesciato. / – Amina! Amina! / Chi la chiama così? Scende la scalinata sotto il pergolato. Sulla spiaggia non c’è nessuno. E ora, in barca, sola, col mare agitato, si sente assalita dalle ondate che la sferzano, come di piombo. E si sente acqua, si sente vento; viva in mezzo alla tempesta. E ogni volta, a ogni sferzata, ah! è un divino imbevimento, che la fa quasi nitrire, ebbra. Una forza agile, prodigiosa, tremenda, la lancia, poi la culla spaventosamente. E in questo spavento vertiginoso, che voluttà!»; Pena di vivere così III 403: «Ella era ancor bella, e lo sapeva dagli occhi di tanti uomini, che spesso tuttora per via la richiamavano a ricordarsene, quando meno ci pensava. Quei capelli divenuti prestissimo di neve, ancor prima di compire i trent’anni, davano maggior risalto alla freschezza della carne e una grazia ambigua, come d’una menzogna innocua, al suo sorriso, quand’ella, additandoli, diceva: / – Ormai son vecchia…»; Visita III 570: «In quel giardino, quella mattina, le donne più giovani e belle avevano quell’ardore sfavillante che nasce in ogni donna dalla gioia di sentirsi desiderata. S’eran lasciate prendere nel ballo e, sorridendo, ad accendere di più quel desiderio, avevan guardato sulle labbra così d’accosto l’uomo da sfidarlo irresistibilmente al bacio»; La tartaruga III 609-10: «Lei è ancora, dopo nove anni, così distaccata e isolata da tutto dalla propria bellezza di statuetta di porcellana e così chiusa e smaltata in un modo d’essere così impenetrabilmente suo, che proprio pare impossibile che abbia trovato il modo d’unirsi in matrimonio con un uomo così di carne e sanguigno come lui». Dall’inventario, pur incompleto, non è d’altronde difficile capire che il predicato narcisistico femminile è qualcosa di più complesso d’una pura e semplice malevolenza o malignità dello sguardo maschile dominante. Se, in quanto superficiale vanità, può essere il corrispettivo della superficiale e talora quasi barzellettistica misoginia maschile, in quanto ritrazione o rifiuto dell’investimento affettivo oggettuale – e retrorsione di quest’ultimo sul soggetto – può costituire il complementare della paura maschile delle donne (la forma seria, nevrotica e filosofica, della misoginia) che spinge ad ambigue gemellarità o alla solitudine e alla ripulsa del sesso. Il narcisismo diventa serio quanto la filosofia (e drammatico quando è diagnosi infausta e autocondanna come nel caso di Fulvia Gelli) quando è fuga, ritiro, rinuncia, rifiuto e surrogato estremo di una felicità o di una atarassia irraggiungibili.
1 Fu pubblicata per la prima volta, con il titolo S.M., su «Il Marzocco» del 3 luglio 1904. Nel 1915 fu compresa, col titolo definitivo, nella raccolta Erba del nostro orto (Milano, Studio Editoriale Lombardo), che l’editore milanese Facchi ristampò nel 1919. Venne infine inclusa nel terzo volume delle «novelle per un anno», La rallegrata (Firenze, Bemporad, 1922).
È la sola novella de La rallegrata che Costanzo riproduce, senza spiegazioni, nella lezione Bemporad nonostante il dichiarato criterio di fornire per tutte le novelle «la lezione licenziata dall’A. nell’ultima edizione di ognuna di esse pubblicata a sua cura» (v. NUAI, p. 1061) e nonostante Lo Vecchio-Musti elencasse la raccolta fra quelle rivedute definitivamente dall’autore in vista della edizione mondadoriana uscita a stampa nel 1937-38. Bisogna inferirne che Pirandello non vi ha rimesso mano.
2 Quest’incipit che oppone e ordina, metanarrativamente, tragedia e farsa, va datato al 1922, quando per la prima volta Sua Maestà venne stampata insieme all’altra novella ambientata a Costanova, L’imbecille, che immediatamente la precede nell’ambito della medesima raccolta. Quello originario era un canonico attacco narrativo in medias res: «Il Consiglio Comunale di Costanova era stato sciolto. Si aspettava l’arrivo del R. Commissario mandato dal Governo, e Melchiorino Palì, nella sala d’aspetto polverosa della stazione […]» ecc. (v. NUAI, p. 1319).
3 Verosimile toponimo di fantasia.
4 È il funzionario, qui di nomina regia, inviato ad amministrare interinalmente un ente locale in caso di mancata formazione, dimissioni o scioglimento della giunta eletta dai cittadini.
5 Per il consiglio. La grafia si sforza di rendere la particolare pronuncia dialettale toscana, che comporta il quasi dileguo della l e il raddoppio della c iniziale.
6 Dipendente addetto alla sorveglianza delle sale d’aspetto e dell’atrio delle stazioni.
7 Iscritto.
8 Associazione a carattere politico e sindacale.
9 Finanziera. Vedi sotto a p. 906 e v. Lontano, n. 4.
10 A cilindro basso.
11 Gesticolando.
12 Un boccale (tazza designa il recipiente di ceramica o terraglia con manico).
13 V. Berecche e la guerra, n. 25.
14 Si allude, evidentemente da destra, alla politica di Giovanni Giolitti (tornato nel 1903 alla guida del governo), intesa a raffreddare lo scontro di classe e a coinvolgere i socialisti nelle responsabilità istituzionali e di governo. L’immagine della politica italiana che si scorge dalla specola provinciale di Costanova è quella melmosa dell’affarismo e della rissa per interessi di partito insieme a quella farsesca e carnevalesca degli innumerevoli falsi sosia di Vittorio Emanuele II. È, tutto sommato, l’immagine che Pirandello ebbe sempre della politica nazionale post-unitaria, come se il compimento dell’unità nazionale avesse segnato una frattura piuttosto che una meta, e avesse avvilito irreparabilmente, museificandoli e ridicolizzandoli, uomini e ideali della battaglia risorgimentale; come se quest’ultima, stagione eroica della quale il piccolo Luigi aveva potuto assaporare in famiglia memorie vive e atmosfere vissute, avesse misteriosamente e oscenamente partorito nani astuti e buffoni mascherati. Nello stesso 1904, dalla medesima ottica delusa scaturisce probabilmente, almeno in parte, anche il celebre, e sorprendente, improvviso politico de Il fu Mattia Pascal, quando Adriano Meis, che percorre di notte, da solo, l’«immota solennità» secolare di Roma, viene amorevolmente spronato a essere allegro da un ubriaco che lo vede così cogitabondo. E ribatte tra sé come segue: «Allegro! Sì, caro. Ma io non posso andare in una taverna come te, a cercar l’allegria […] Io vado al caffè, mio caro, tra gente per bene, che fuma e ciarla di politica. Allegri tutti, anzi felici, noi potremmo essere a un sol patto, secondo un avvocatino imperialista che frequenta il mio caffè: a patto d’esser governati da un buon re assoluto. Tu non le sai, povero ubriaco filosofo, queste cose; non ti passano neppure per la mente. Ma la causa vera di tutti i nostri mali, di questa tristezza nostra, sai qual è? La democrazia, mio caro, la democrazia, cioè il governo della maggioranza. Perché, quando il potere è in mano d’uno solo, quest’uno sa d’esser uno e di dover contentare molti; ma quando i molti governano, pensano soltanto a contentar se stessi, e si ha allora la tirannia più balorda e più odiosa: la tirannia mascherata da libertà. Ma sicuramente! Oh perché credi che soffra io? Io soffro appunto per questa tirannia mascherata da libertà» (v. RI, pp. 448-9). È ben vero che il bizzarro confronto tra le certezze dell’avvocatino reazionario e la candida ignoranza dell’ubriaco filosofo diffonde nel contesto una singolare ambiguità, e che Adriano Meis fa soprattutto dell’autoironia mostrando di sposare senz’altro la tesi del primo; ma, come il nonno Ricci Gramitto, avvocato e maggiorente sovversivo e rivoluzionario nel 1848 (v. Colloquii coi personaggi, n. 30), Pirandello non mostrò mai alcuna inclinazione verso gli ideali democratici. Tratto a simpatizzare per una politica eroica e a suo modo massimalista, Pirandello fu sempre, politicamente, un nostalgico e uno spiazzato senza referenti. Anarchicamente impolitico, non comprese e non digerì mai la vischiosità politica dell’Italia post-unitaria. Non può dopotutto stupire troppo che, vent’anni più tardi, la sua stessa insipienza lo abbia indotto ad aprire un credito ben più oneroso di quello che Adriano Meis concede all’avvocatino imperialista, al maestro di Predappio e alla facciata eroica e patriottica della «rivoluzione sociale» fascista.
15 Simbolo tradizionale del socialismo rivoluzionario.
16 Essendo i proletari per definizione poveri e sfruttati, il furibondo avversario politico, che li vede favoriti e protetti, non trova di meglio che darli per non esistenti in quanto tali, per un’invenzione propagandistica.
17 Con una gag apertamente comica, la ragazza poco decente va a buttarsi sul divano accanto al cav. Decenzio. Ma si saprà più avanti (p. 908) che le scollacciature femminili sono gradite al sosia di Vittorio Emanuele II.
18 È venuto via il chiodo.
19 Imprecando.
20 «Cappello duro da uomo con cupola tonda, detto anche bombetta» (Devoto-Oli).
21 Miseria evidente e ben visibile dall’aspetto e dagli abiti. Di Melchiorino Palì era già stato detto (v. p. 905) che, a differenza dei compagni di partito, era intervenuto vestito dei «miseri panni giornalieri».
22 Sputato, straordinariamente somigliante.
23 Di Savoia (1820-1878), dal 17 marzo 1861 primo re d’Italia e perciò detto anche il «padre della patria».
24 Puro e schietto, ossia tale e quale.
25 Si tratta di un ritratto fotografico.
26 Figlio di Vittorio Emanuele II e suo successore sul trono, ucciso il 29 luglio 1900 a Monza dall’anarchico Gaetano Bresci.
27 Sorveglianti dei campi e dei lavori agricoli.
28 «Dispositivo usato nelle stazioni per il comando a distanza delle targhe indicatrici delle destinazione e dell’ora di partenza di un convoglio» (Devoto-Oli). Qui si tratta più semplicemente del campanello elettrico che preannuncia l’arrivo di un treno.
29 Piccola tromba per segnali.
30 «Addetto alla sorveglianza di un tratto di ferrovia» (Devoto-Oli).
31 Risuonò strepitante.
32 Atteggiamento.
33 Il racconto beffardo e leggero, divertito, consente per una volta che il gioco dei sosia sprigioni tutta la sua costituzionale comicità.
34 Scricchiolio (toscanismo).
35 Impietrito.
36 Uscito di senno, fuor di ragione.
37 Tenuta a palma aperta.
38 «Manifestazione chiassosa e umiliante di disapprovazione o derisione» (Devoto-Oli).
39 Pizzo (romanesco).
40 Impegno, compito.
41 «Nome comune dell’Eruca sativa, un’erba ruderale annua, di odore pungente, delle Crocifere, spontanea nei campi e negli incolti della regione mediterranea. Ha […] fiori bianco-giallicci in racemi» (Devoto-Oli).
42 Crespigno o cicerbita, «erba, annua o bienne, con fusto fragile, alto ca. un metro, e con foglie variamente divise e fiori in capolini gialli, comune ovunque nei campi, negli incolti, sui muri e sui macereti» (Devoto-Oli).
43 Fila! (v. Sole e ombra, n. 22).
44 V. A. MANZONI, Il cinque maggio, 49-52: «Ei si nomò: due secoli, / L’un contro l’altro armato, / Sommessi a lui si volsero, / Come aspettando il fato».
45 I pugni (v. Un invito a tavola, n. 15).
46 La comica galleria dei sosia regali si arricchisce di una replica ulteriore con la copia di una copia della copia, la quale però, grottescamente, pretende di raffigurare un’altra volta l’originale. Decenzio Cappadona si è infatti modellato sul ritratto fotografico di Vittorio Emanuele II, e ha messo se stesso, copia vivente, come modello (dunque come originale) a disposizione del pittore di passaggio incaricato di eseguire un ritratto non di lui, ma del re Vittorio Emanuele.
47 Muso contro muso. È il colmo della commedia della falsa identità, e la lingua se ne fa veicolo con quel «Vittorii Emanueli», ossia moltiplicando e pluralizzando l’irriproducibile singolarità indicale del nome proprio.
48 Generoso con il.
49 Edificare su un progetto nuovo di zecca. V. Concorso per referendario al Consiglio di Stato, n. 4.
50 Facendosi scuro in volto, rabbuiandosi.
51 Sguinci. Lo sguincio è la «conformazione ad angolo ottuso di un vano o di una struttura muraria» (Devoto-Oli).
52 Pur negandosi alla vergogna violenta della rasatura, il comm. Zegretti deve piegarsi alla vergogna lenta della crescita della barba: deve insomma giorno dopo giorno rassegnarsi ad abdicare, e alla fine, sosia sconfitto, deve di fatto fuggire mascherato da frate.
1 Fu pubblicata per la prima volta su «La Riviera ligure» del luglio 1904. Nel 1910 fu compresa nella raccolta La vita nuda (Milano, Treves) e infine venne inclusa nel secondo, omonimo volume delle «novelle per un anno», La vita nuda (Firenze, Bemporad, 1922).
2 Un parziale spunto per il motivo conduttore della novella può ravvisarsi nella comica coppia di cognati sposi, Maria Rosa e Fifo Juè, de L’esclusa (v. RI, pp. 113-5).
3 Divanetto (v. La signorina, n. 32).
4 V. Concorso per referendario al Consiglio di Stato, n. 4.
5 V. Acqua amara II 111 e n. 13.
6 La divertita trittologia attributiva rimata (che riaffiorerà tale e quale ne Le sorprese della scienza II 164) non può non richiamare per associazione fonica anche «giocondo», eufemismo popolare per “ingenuo”, “sciocco”. E infatti l’irreparabile infantilità di Bartolino Fiorenzo è all’inizio non più che compassionevole, schiacciata tra un maturo defunto più che intraprendente e una donna esperta. Nel 1911, nel romanzo Suo marito, la maliziosa immaginazione di Dora Barmis si trastullerà figurandosi nei medesimi termini, prima di conoscerlo, Giustino Boggiolo: «Io voglio sapere com’è. Me l’immagino tondo… Tondo, è vero? Per carità, ditemi che è tondo, biondo, rubicondo e… e senza malizia» (v. RI, p. 599).
7 Un corno, nulla.
8 «Carrozzone a cavalli, con un numero considerevole di posti, che nel sec. XIX era adibito ai servizi regolari di trasporto pubblico nelle grandi città» (Devoto-Oli). Può però anche trattarsi (come quasi certamente qui) del medesimo mezzo riservato da un albergo ai clienti.
9 «Parte della stanza, separata da un arco o da un’architrave e chiusa da cortine: per lo più destinata al letto, spec. matrimoniale» (Devoto-Oli).
10 Togliendo lo spillone che fissa il cappello alla chioma.
11 Con cattiva intenzione, con malizia.
12 Nessuna per sé, Lina Sarulli era stata forgiata ed era diventata come Cosimo Taddei l’aveva voluta, una sua emanazione. E la storia si ripete con il «vergine» Bartolino, destinato a reincarnare, ad opera della vedova prima, da sé (seppure inconsapevolmente) poi, il defunto primo marito.
13 Ancora coperto dall’incognito, il medesimo motto si attribuirà, autocriticamente e capziosamente, Ferrante Morli ne La signora Morli, una e due, commedia che va a stampa presso Bemporad nel medesimo 1922 in cui La buon’anima viene ristampata nel secondo volume delle «novelle per un anno»: «FERRANTE Mi duole – badi! – doverlo riconoscere, perché il Morli… – eh, lo conosco bene! “La vita, a chi resta; la morte, a chi tocca”! – era questo il suo motto; per significare che non dobbiamo più impacciarci di chi se ne va» (v. MNII, p. 192).
14 Era il momento (di ridere e divertirsi).
15 Rassicurato.
16 In anticipo, precedendola.
17 L’ubiquo doppio persecutorio trionfa: a Bartolino non riesce di fare qualcosa che Cosimo Taddei non abbia già fatta prima di lui. E alla stessa Ortensia Motta non riesce di sedurlo prima che egli abbia in tutto e per tutto reincarnato, suo malgrado, il diabolico Taddei. Nessuno dei tre vivi è per sé, e tutti e tre sono posseduti dalla «buon’anima».
1 Fu pubblicata per la prima volta su «Il Marzocco» il 21 agosto 1904. Scrivendone, due giorni avanti, ad Angiolo Orvieto, e chiedendogli se gli fosse piaciuta, Pirandello aggiungeva: «credo che sia una delle mie migliori» (v. CAR, p. 317). Nel 1906 fu compresa nella raccolta Erma bifronte (Milano, Treves) e dedicata appunto ad Angiolo Orvieto (1869-1967), l’amico e poeta fiorentino, nel 1896 cofondatore (assieme al fratello Adolfo) del «Marzocco». Venne infine inclusa nel quinto volume delle «novelle per un anno», La mosca (Firenze, Bemporad, 1923). Si riproduce il testo fornito da Mario Costanzo sulla base della mondadoriana del 1937-38 (v. Sole e ombra, n. 1).
2 V. Sole e ombra, n. 11.
3 Arcaismo per “soggezione”.
4 Per una vera e propria variazione attorale e circostanziale, si veda la novella del 1908 Il guardaroba dell’eloquenza. Anche lì compaiono un anziano patrigno candido (reduce verace «delle patrie battaglie, superstite di Villa Glori») e una figliastra, anche lì si accenna a un combattente garibaldino caduto a Digione, anche lì si ha a che fare con un intrigo che ha luogo nella sede (nella quale alloggiano patrigno e figliastra) d’una associazione patriottica e civile. L’incrollabile candore, la remissività e l’onesta povertà di Sciaramè e del vecchio Bencivenni (detto Geremia) li omologano assai più di quanto l’autenticità delle benemerenze di questo e la patetica impostura di quello non li oppongano.
5 Il medesimo gesto caratterizzerà nel romanzo Suo marito il poeta veneziano Cosimo Zago: «Forse lo Zago meditava anche lui una poesia, pinzandosi con le dita gl’ispidi peluzzi neri sparsi sul labbro» (v. RI, p. 606).
6 Ciocca.
7 Ripiani.
8 La presenza d’un sia pur piccolo ritratto di Carlo Cattaneo (1801-1869), accanto a quelli di Garibaldi e Mazzini, si spiega evidentemente con le posizioni radicali e apertamente repubblicane (ancorché federaliste e non unitarie ed anzi, in prospettiva, europeiste) espresse dal rappresentante più lucido e lungimirante del radicalismo lombardo.
9 V. anche Il guardaroba dell’eloquenza II 375.
10 Località sull’altopiano della Grecia centrale. Il 17 maggio 1897, durante la guerra contro la Turchia, disastrosa per la Grecia, parte delle forze greche vi si ritirarono e opposero una breve resistenza all’attacco turco di Edhem Pascià. Allo scontro partecipò (distinguendosi e perdendo più di venti uomini) il corpo di volontari garibaldini comandati da Ricciotti Garibaldi (1847-1924), figlio di Giuseppe e Anita.
11 Rabbuiandosi, accigliandosi.
12 Deglutì.
13 Tela di ragno.
14 Nome dato al liquore di anice proprio in quanto rende l’acqua opalescente.
15 Sbarcati a Marsala quattro giorni prima, il 15 maggio 1860 a Calatafimi i garibaldini ottennero, nonostante l’inferiorità numerica e d’armamento, la prima vittoria significativa sulle truppe borboniche. La presa di Palermo fu assai più ardua: i garibaldini dovettero ricorrere ad una astuta e riuscita manovra diversiva che ottenne di far distaccare una consistente colonna dei difensori borbonici per inviarla verso l’interno dell’isola sulle false tracce del grosso dei mille. Ciononostante, furono necessari tre giorni di durissimo combattimento intorno alla città prima che i difensori fossero costretti all’armistizio e infine (il 6 giugno) alla capitolazione. Due settimane più tardi, il 20 giugno, la vittoria di Milazzo costrinse le truppe borboniche a lasciare la Sicilia. Nell’autunno, sul fiume Volturno (in Campania), l’esercito borbonico tentò l’ultima resistenza contro Garibaldi, ma il sopraggiungere delle truppe piemontesi segnò la fine della guerra.
16 Passo rapido e agile.
17 Alla rovescia.
18 La sollevazione antifrancese di Palermo del 30 marzo 1282. Si era dunque nel 1882: Garibaldi sarebbe morto il 2 giugno di quel medesimo anno.
19 Giovanotto (dal siciliano picciottu, “piccolo”). Ma “picciotti” furono anche detti i componenti delle bande di rivoltosi siciliani che nel 1860 si unirono ai garibaldini.
20 Movimenti rapidi e buffoneschi.
21 Stenta (nel senso che la fiamma si assottiglia e tremola).
22 V. sopra n. 10. Il povero Sciaramè non ha per dirlo titoli che non siano le vive memorie del fratello, ma è pur vero che Ricciotti Garibaldi, che a diciannove anni aveva combattuto a Bezzecca, non disonorava la camicia rossa.
23 Antonio Fratti (1848-1897), patriota che era stato con Giuseppe Garibaldi durante la campagna del Trentino nel 1866, a Mentana nel 1867 e in Francia nel 1870.
24 Dapprima, a prima vista.
25 La disfatta francese di Sedan aveva provocato la caduta del Secondo Impero e la proclamazione della repubblica. Garibaldi era accorso con i suoi volontari in aiuto della Francia repubblicana determinata a resistere ai prussiani. Digione, occupata da questi ultimi il 29 ottobre 1870 e ripresa dai francesi il 27 dicembre, venne difesa strenuamente e con successo dall’armata garibaldina, che ancora nei giorni 21-23 gennaio 1871 (cinque giorni prima che Parigi capitolasse) aveva respinto gli attacchi tedeschi.
26 Colto, aggredito di sorpresa.
27 I pugni (v. Un invito a tavola, n. 15).
28 Andare su e giù nervosamente come un leone in gabbia.
29 Gli era diventata secca, arida come sughero. Antonino Pagliaro (v. Teoria e prassi linguistica di Luigi Pirandello, in «Bollettino del Centro di studi filologici e linguistici siciliani», 10, 1969, p. 285) fa risalire l’uso pirandelliano dell’espressione al dialettale ’nsuvarutu.
30 Mèlito di Porto Salvo, piccolo centro sulla estrema costa meridionale ionica della Calabria (a poco più di 30 chilometri da Reggio), dove Garibaldi sbarcò sia nel luglio del 1860 che nell’agosto del 1862.
31 I fanciulli in camicia rossa sono più d’uno nel corpus pirandelliano. Il primo fra loro, specie se si presta fede alla data («Roma, 1895») che Pirandello volle apposta all’edizione definitiva de Il turno, è Ciro Coppa, del quale, nella stampa catanese del 1902, si legge: «Lì, in una parete della stanza, erano appesi e disposti, come una nuova panoplia, uno schioppo, una sciabola, un berretto e una camicia rossa. A tredici anni, Ciro era scappato dalla casa paterna; era giunto a Palermo il giorno dopo l’entrata di Garibaldi» (v. RI, p. 987). Solo nella stampa del 1929 quest’evento, troppo serio e nobilitante, e dunque mal annoverabile tra i molti eccessi che caratterizzano il personaggio, scompare dal suo profilo.
32 È curioso, ma Carlandrea Sciaramè, garibaldino falso e imbelle, costituisce tuttavia il modello del garibaldino per eccellenza del corpus pirandelliano, ossia dell’indomabile e bellicoso Mauro Mortara de I vecchi e i giovani. I due personaggi non potrebbero essere più diversi, e sono di fatto l’uno il rovescio dell’altro, ma due segmenti almeno delle loro storie li apparentano. Così come lo spaventatissimo Sciaramè accompagna amorosamente il fratello-figlio Stefanuccio, eroe quindicenne, da Calatafimi al Volturno, patendo tutti i terrori della guerra senza combatterla; così Mauro Mortara, «volontario garibaldino» autentico e «attendente di Bixio», tra le cui braccia spira a Milazzo Stefano Auriti, ne protegge paternamente per il corso dell’intera campagna il figlio Roberto, garibaldino dodicenne ed eroe-bambino. E, alla fine, il garibaldino genuino e fedelissimo e Sciaramè, garibaldino per forza e millantatore suo malgrado, muoiono sconfessati entrambi, l’uno dalla mediocrità d’una storia per lui illeggibile, l’altro dai rancori malevoli degli uomini, con le loro medaglie sul petto (v. I vecchi e i giovani, in RII, pp. 83, 140-6, 151-3, 300-1, 387-90, 506-7, 510-5).
33 La Piazza Pretoria, che dà su via Maqueda nelle immediate vicinanze dei Quattro Canti di Città (lo storico centro di Palermo) e sulla quale si affaccia il palazzo del Municipio.
34 Farti passare per.
35 Sul momento, dapprima.
36 Zolla.
37 Località della Sicilia interna, pochi chilometri a sud-est di Palermo.
38 Assegnato.
39 Alla cruenta battaglia di Milazzo prendono parte, ignoti, beninteso, l’uno all’altro, numerosi personaggi pirandelliani. Stefano Auriti vi muore (v. RII, pp. 83 e 389), Pietro Mìlio, reduce trentaduenne del 1848, vi lucra «una palla in petto» (v. Lontano, p. 633), Ciro Coppa (v. RI, p. 987) e il padre di Guiduccio Greli (v. La Madonnina II 863), «carabiniere genovese» come Stefanuccio Sciaramè, ne escono feriti a un braccio.
40 Impietrito.
41 Terrea, livida.
42 Allibirono, trasecolarono.
43 V. Chi fu?, n. 13.
1 Fu pubblicata per la prima volta in «Regina» il 20 settembre 1904. Nel 1906 fu compresa nella raccolta Erma bifronte (Milano, Treves) e dedicata al poeta Francesco Pastonchi (1877-1953). Venne infine inclusa nel sesto volume delle «novelle per un anno», In silenzio (Firenze, Bemporad, 1923).
2 «Malattia dell’occhio caratterizzata da un forte aumento della sua pressione interna con possibile conseguente atrofia della retina e cecità» (Devoto-Oli).
3 Non è il primo né l’ultimo caso di medico e scienziato antipatico e scostante (si tenga presente il precedente de Il dovere del medico e si veda Soffio). Il dottor Falci è per di più anche inquietante come tutti coloro che vedono e parlano troppo chiaro.
4 Assorta, assente.
5 «Opacamento parziale o totale del cristallino dell’occhio (o della sua capsula), che provoca diminuzione o perdita della vista» (Devoto-Oli).
6 Subito, fin da principio.
7 V. E due!, n. 2.
8 La definizione dell’innamoramento come cateratta morale conferma il concetto nudo e disilluso della vita che caratterizza il dottor Falci. L’anno seguente, in Va bene, l’innamoramento sarà ridefinito come uno stato di «beato istupidimento». Nel 1909, Stefano Giogli si renderà conto che, perdutamente innamoratosi, aveva vissuto un totale smarrimento della coscienza; e la metafora sarà proprio quella della abbagliata cecità e del successivo lento riacquisto del «lume degli occhi» (v. Stefano Giogli, uno e due II 401).
9 È l’esplicita verbalizzazione d’un paradigma d’angoscia, il punto d’accumulazione d’una canonica sinergia del negativo: freddo-tenebra-silenzio-vuoto. Per il «vuoto orrendo» v. In silenzio (1905) II 175 e n. 22.
10 Particolarmente, soprattutto.
11 La sequenza coniuga due movimenti, entrambi rischiosi: l’autocostruzione, ossia l’attività plastica dell’adeguarsi a un modello esterno ed altro, e lo sdoppiamento, la separazione dell’io da sé, l’alterazione e l’alienazione, in senso proprio e forte, della personalità. L’io si fa e si sente altro pur di corrispondere alla realtà che l’altro gli conferisce. Il motivo realistico della cecità che vuol vedere trapassa dal livello della letteralità a quello figurale, diventa metafora della relazione, del soggetto che non vede se non ciò che desidera vedere e del soggetto che, in forza della reciprocità dell’illusione, vuol essere ciò che l’altro vuole che sia. Diventa per questa via palpabile, e dolorosamente palpabile, la natura fittile dell’io e della relazione nucleare io-tu; e svanisce la certezza positiva ed ottimistica dell’esistenza di un io e di un tu (dell’altro) solidi e compatti che si confrontano e affrontano a partire da una loro tenuta e coesione autonome e irriducibili.
12 Fu sul punto di, fu tentata di.
13 Si rammenti il dottor Vocalòpulo (v. Il dovere del medico, p. 704).
14 Lo scontro è duro, poiché la samaritana innamorata e creatrice d’illusioni ha di fronte non solo un disilluso, ma un diabolico distruttore d’illusioni.
15 Si irrigidiva (toscanismo popolare).
16 «Incontenibile agitazione, riconducibile per lo più ad ansia, irrequietudine, impazienza» (Devoto-Oli).
17 In preda a irrefrenabile nervosismo.
18 Diagnosticato.
19 L’innocente illusione si scopre finzione e censura difensiva. Lydia Venturi deve riconoscere d’aver sbarrato le porte della propria coscienza alla memoria del dottor Falci e delle cose dette da lui, di aver voluto dimenticare e rimuovere.
20 È questa la domanda capitale, che qui il personaggio non può che porsi angosciosamente, non volendo conoscerne la risposta e temendo di saperla. La risposta, se così volessimo ancora chiamarla, sarà data in un passo molto noto de L’umorismo: «[…] le varie tendenze che contrassegnano la personalità fanno pensare sul serio che non sia una l’anima individuale. Come affermarla una, difatti, se passione e ragione, istinto e volontà, tendenze e idealità, costituiscono in certo modo altrettanti sistemi distinti e mobili, che fanno sì che l’individuo, vivendo ora l’uno ora l’altro di essi, ora qualche compromesso fra fra due o più orientamenti psichici, apparisca come se veramente in lui fossero più anime diverse e perfino opposte, più e opposte personalità? / Non c’è uomo, osservò il Pascal, che differisca più da un altro che da sé stesso nella successione del tempo. / La semplicità dell’anima contradice al concetto storico dell’anima umana. La sua vita è equilibrio mobile; è un risorgere e un assopirsi continuo di affetti, di tendenze, di idee; un fluttuare incessante fra termini contradittorii, e un oscillare fra poli opposti, come la speranza e la paura, il vero e il falso, il bello e il brutto, il giusto e l’ingiusto e via dicendo. Se d’un tratto si disegna nell’immagine oscura dell’avvenire un luminoso disegno d’azione, o vagamente brilla il fiore del godimento, non tarda ad apparire, vindice dei diritti dell’esperienza, il pensiero del passato, non di rado cupo e triste; o interviene a infrenare la briosa fantasia il senso riottoso del presente. Questa lotta di ricordi, di speranze, di presentimenti, di percezioni, d’idealità, può raffigurarsi come una lotta d’anime fra loro, che si contrastino il dominio definitivo e pieno della personalità. / Ecco un alto funzionario, che si crede, ed è, poveretto, in verità, un galantuomo. Domina in lui l’anima morale. Ma un bel giorno, l’anima istintiva, che è come la bestia originaria acquattata in fondo a ciascuno di noi, spara un calcio all’anima morale, e quel galantuomo ruba. […] E quell’altro là? Uomo dabbene, anzi dabbenissimo: sissignori, ha ucciso. L’idealità morale costituiva nella personalità di lui un’anima che contrastava con l’anima istintiva e pure in parte con quella affettiva o passionale; costituiva un’anima acquisita che lottava con l’anima ereditaria, la quale, lasciata per un po’ libera a sé stessa, è riuscita d’improvviso al furto, al delitto» (v. SPSV, pp. 150-1). E la presenza, nella medesima pagina dell’Umorismo, del rinvio ad Alfred Binet, ha indotto più d’uno a pensare che nel passo citato e nei suoi dintorni fossero soprattutto intense le suggestioni dello psico-fisiologo francese, studioso per l’appunto delle «alterazioni della personalità». In realtà, la pagina saggistica pirandelliana è quasi per intero debitrice di un libro di Giovanni Marchesini rammentato in nota qualche pagina avanti, un fitto collage del quale costella (ben al di là della dichiarazione pirandelliana di avvalersi di «alcune acute considerazioni» in esso contenute) il quinto capitolo della seconda parte dell’Umorismo: «Accennammo pure alla pluralità delle tendenze che contrassegnano la personalità, e che non dànno fuorché l’apparenza del paradosso all’affermazione che non sia una l’anima individuale. Sarebbe paradossale egualmente affermare che non sia uno l’organismo, mentre è noto che questa unità è, nel fondo, fittizia. E del resto come dichiarare una l’anima individuale se passione e ragione, istinto e volontà, tendenze e idealità costituiscono in certo modo altrettanti sistemi distinti e mobili, che fanno sì che l’individuo vivendo ora l’uno ora l’altro di essi, ora qualche compromesso fra due o più orientamenti psichici, apparisca come se veramente in lui fossero più anime diverse e perfino opposte, più e opposte personalità? Non c’è uomo, osservò il Pascal, che differisca più da un altro che da sé stesso, nella successione del tempo. La semplicità dell’anima contradice al concetto storico dell’anima umana. La sua vita è equilibrio mobile, è un risorgere e un assopirsi continuo di affetti, di tendenze, di idee; un fluttuare incessante fra termini contradittorî, e un oscillare fra poli opposti come la speranza e la paura, il vero e il falso, il bello e il brutto, il giusto e l’ingiusto, e via dicendo. Se d’un tratto si disegna nell’imagine oscura dell’avvenire un luminoso disegno d’azione, o vagamente brilla, lucente di fede, il fiore del godimento, non tarda ad apparire, vindice dei diritti dell’esperienza, il pensiero del passato, non di rado cupo e triste, o interviene a infrenare la briosa fantasia il senso riottoso del presente. È questa una lotta di ricordi, di speranze, di presentimenti, di percezioni, d’idealità, che può raffigurarsi come una lotta d’anime fra loro contrastantisi il dominio definitivo e pieno della personalità. […] / L’idealità morale costituisce nella personalità l’anima morale, che contrasta all’anima istintiva, e pure in parte a quella affettiva e passionale; costituisce l’anima acquisita (per effetto della cultura) che lotta contro l’anima ereditaria, la quale, lasciata libera a sé stessa, riuscirebbe bene spesso all’immoralità, alla brutalità e al delitto. E può accadere che quest’anima acquisita sia la mandataria dell’altra, e che eseguisca ciò che è effetto dell’impulso di essa, giustificando, con le risorse che trae da sé medesima, l’atto che ne consegue. La moralità così sorta, è apparente, fittizia: del pari fittizia è la presunzione di annullare in sé tutte le tendenze immorali, raggiungendo la pienezza dell’ideale supremo della perfezione o della vera, assoluta, completa bontà» (v. G. MARCHESINI, Le finzioni dell’anima. Saggio di Etica pedagogica, Bari, Laterza, 1905, pp. 59-61).
21 V. anche sopra: «La cecità di lui era la condizione imprescindibile del suo amore». Al di là della situazione narrativa (e dunque della inadeguatezza del volto corporeo di Lydia alla sua voce, anima vocale incorporea e bellissima), la metafora continuata che la novella sviluppa non potrebbe essere più trasparente e infausta: bisogna non vedere per illudersi, amare ed essere felici. Vedere, ossia avere la vista netta e gli occhi sgombri d’ogni velo, è esiziale: chi vede bene, non si illude e non può amare felicemente. Nel 1917, nella novella La carriola, dismesso il movente realistico della cecità fisica, si leggerà la formulazione per così dire metafisica dell’esigenza di non vedere per poter vivere: «Chi vive, quando vive, non si vede: vive… Se uno può vedere la propria vita, è segno che non la vive più: la subisce, la trascina. Come una cosa morta, la trascina» (v. III 157).
22 Una gioia ridente le si diffuse sul viso.
23 Lydia si sottrae alla prova della vista ed evita l’istante del confronto fra l’illusione e la realtà: preferisce sacrificarsi e preferisce, svanendo, far imboccare all’illusione il sentiero errabondo della nostalgia anziché il vicolo cieco della delusione.