MISS RUDDOCK È UNA COMUNE DONNA
DI
MEZZA ETÀ. LA VEDIAMO IN UNA
STANZA AMMOBILIATA CON SEMPLICITÀ,
E
C’È UN BOW WINDOW. È POMERIGGIO.
Non è che potrei definirlo un rito da manuale. Sapeva di catena di montaggio. Perciò ho scritto al crematorio, dicendo che per me una cerimonia come quella doveva svolgersi all’insegna della solennità, mentre la parola che continuava a venirmi in mente era «spiccio». Inoltre, ho proseguito, quando i congiunti sopraffatti dal dolore finalmente escono dalla cappella mortuaria, non si aspettano certo di trovare degli energumeni che si aggirano furtivamente fra i rododendri con un mozzicone di sigaretta in bocca. Se proprio i conducenti dei carri funebri devono fumare, si approntino servizi adeguati. Avevo sentito dir bene del loro crematorio, ma stavolta – speravo ne convenissero con me – non era stato affatto all’altezza.
Naturalmente mi sarei sentita molto peggio se si fosse trattato di una persona cara. A quelli del crematorio non l’ho detto per non dargli un alibi, ma in realtà non la conoscevo molto bene. La vedevo salire sul 37, buongiorno e buonasera, tutto lì. Ha perso sua madre più o meno quando io ho perso la mia; aveva una nipote in Australia e io ho il mio unico cugino in Canada; poi è passata al riscaldamento centrale a gas solo poche settimane prima di me; quindi in un modo o nell’altro avevamo parecchie cose in comune. Per anni ho creduto che si chiamasse Hammersley, ma ero del tutto fuori strada perché a quanto pare il nome è Pringle. C’era una sua foto sull’«Evening Post» (lavorava molto nel volontariato) con i dettagli sul funerale, e siccome il mercoledì pomeriggio lo dedico sempre a sgranchirmi le gambe, ho deciso di tirare fuori il mio cappottino marrone e fare atto di presenza. Almeno vado da qualche parte. E sono contenta di esserci andata, ma come ho detto la cerimonia è stata un po’ fiacca, con il degno epilogo di quei giovanotti che fumavano, sicché il minimo che potessi fare era scrivere una lettera.
Comunque ne ho ricevuta in risposta una incantevole da parte del direttore operativo, un certo Mr Widdop. Mi ringrazia di aver attirato la sua attenzione su questo fatto, del cui occasionale verificarsi era già al corrente, e dice che se lui personalmente sorprendesse qualcuno a fumare gli si avventerebbe contro a testa bassa. Come certo posso immaginare, nei dintorni della cappella la disciplina è un problema delicato, perché non sempre è opportuno dare una lavata di capo a qualcuno in presenza di persone sopraffatte dal dolore. Quanto a lui, preferisce tenere un profilo basso, per poi punire i trasgressori con la massima severità appena il campo è libero. Riguardo ai servizi da me sollecitati, nell’immediato futuro non hanno in agenda l’inclusione di una zona fumatori nella cappella mortuaria, anche perché devo capire che lì lo spazio è un valore primario, e al momento in cima alla loro lista di priorità c’è la costruzione di un tempio provvisorio a uso delle minoranze razziali. Comunque terrà conto dei miei suggerimenti, e se in futuro mi capitasse di assistere a infrazioni analoghe non devo esitare a comunicarglielo.
Gli ho scritto un biglietto per ringraziarlo della sua risposta tempestiva e cortese: ho detto che condividevo le sue osservazioni, pur augurandomi di non dover fare ulteriori visite al crematorio nel prossimo futuro (battuta). Ho anche scritto due righe ai familiari, presso le pompe funebri, dicendo che ero una conoscente di Miss Pringle e che avendo assistito alla cerimonia mi ero presa la libertà di avviare una corrispondenza con il crematorio per denunciare l’incresciosa mancanza. Ho accluso una copia della lettera di Mr Widdop, ma non mi hanno risposto; li capisco: se c’è una cosa che la morte si porta sempre appresso è un diluvio di corrispondenza. Quando morì mamma ricevetti cinquantatré lettere. Magari poi non li hanno nemmeno visti fumare, probabilmente erano accecati dal dolore. Vedo che abbiamo una nuova coppia di dirimpettai. Poco promettenti, direi. Il marmocchio ha l’aria lercia.
NERO.
Assolvenza su Miss Ruddock nello stesso ambiente. Mattina.
Cartolina dell’ottico stamattina; a quanto pare dai loro registri risultano passati due anni da quando mi hanno fatto gli occhiali, che molto probabilmente a quest’ora avranno bisogno di una revisione; suggeriscono di chiamarli appena mi è possibile. Ma che gentili, ho pensato, e ho subito impugnato la mia fida Platignum per buttare giù una risposta. Ho detto che mi sembrava molto premuroso da parte loro essersi ricordati di me, e sebbene al momento fossi piuttosto soddisfatta dei miei occhiali, li ringraziavo di aver attirato la mia attenzione su questo fatto; a tempo debito, se avessi notato un deterioramento, mi sarei messa in contatto con loro. (Prende la penna). Ah, quanto mi è stata utile questa penna. È stata una vera amica. Me la prese mamma, l’ultima volta che fu in grado di andare a Harrogate. (Lancia un’occhiata verso la finestra).
Angie, si chiama. L’ho sentito gridare dal suo lui mentre mi recavo all’ufficio postale. Era sdraiato sotto la sua auto e aveva bisogno di una chiave inglese, così è uscita lei, la radiolina in una mano e il marmocchio nell’altra. Uno scricciolo, con un livido sul braccio. Ho pensato: «Be’, la macchina ce l’hai, una radiolina anche, è ora che ti compri delle tende». Non può avere più di vent’anni, e ha l’aria di aspettarne un altro.
Sono passata davanti al gradino rotto di cui ho scritto al comune dicendo che era un pericolo per i passanti. Adesso c’è una piccola rampa per i disabili. Ogni volta che passo, penso: «Ah, Irene, tutto merito tuo». Quella rampa è il mio monumento. Peccato che un cane ci avesse lasciato un ricordino proprio in mezzo. Giurerei che ultimamente quelle cose lì siano aumentate. L’anno scorso ho fatto una gitarella a Londra e non ho visto che sporcizia di cani. Ne ho vista una perfino sul marciapiede di fronte a Buckingham Palace. Ho scritto alla Regina in proposito. Ho ricevuto in risposta una lettera incantevole in cui una dama di compagnia m’informava che Sua Maestà aveva apprezzato il mio interessamento e che la mia lettera era stata trasmessa all’autorità competente. Conclusione, mi arriva una lunga lettera dal capo del dipartimento per la nettezza urbana di Westminster City che si profonde in scuse e acclude un resoconto del loro bilancio per la manutenzione stradale. Ho avuto molte esperienze del genere... la gente è ben felice se qualcuno le fa notare queste cose. La parola chiave è: partecipazione. Naturalmente ho risposto per ringraziarlo, e sono rimasta di stucco quando ho ricevuto un’altra lettera che mi ringraziava della mia. Allora ho risposto dicendo che non mi aspettavo un’altra lettera e che bastava accusare ricevuta, tutta quella corrispondenza a me non sembrava un uso appropriato del denaro pubblico, non so a loro. Non si sono nemmeno presi la briga di rispondere. Tipico.
Pausa.
Sto aspettando la posta. Non che ci sia molto in ballo. La corrispondenza che ho avviato sulla lunghezza dei capelli dell’arcivescovo di Canterbury sembra entrata in stallo. Prima che scrivessi a «Lettere Vive» non se n’era accorto nessuno. Molti lettori si sono uniti al mio sdegno, finché sembra aver liquidato la questione una lettera infervorata del decano di Halifax, che ha la barba.
Viene buio.
I miei dirimpettai stanno cenando. Senza tovaglia. Il marmocchio l’avranno messo a letto. Quando ho portato fuori la bottiglia del latte l’ho sentito piangere.
NERO.
Assolvenza su Miss Ruddock seduta in poltrona mentre legge il giornale. Pomeriggio.
Eh sì, in prigione se la godono. Televisione, ping-pong, educazione artistica. È un villaggio vacanze: poi ci si meraviglia se c’è la criminalità. Ti dicono: «E che ci vuoi fare?». Be’, per dirne una, rivolgersi al deputato del tuo collegio. Io lo faccio, regolarmente. Stamattina ho ricevuto risposta a una mia lettera. Gli avevo scritto per attirare la sua attenzione su un dato che in parte spiega l’escalation della piccola criminalità e che finora non si è tenuto nella giusta considerazione, e cioè il numero dei poliziotti che al giorno d’oggi porta gli occhiali. Come potrebbero avere la meglio su un aggressore senza scrupoli? Il deputato ha preso nota delle mie osservazioni e ha promesso che le avrebbe riferite nella sede appropriata. È laburista, ma la carta da lettere è sempre eccellente, e la dattilografia è molto curata.
Quando ho finito di spolverare e di sbrigare i lavori di casa ho fatto un salto all’angolo per comperarmi una confezione di salsicce di maiale e un po’ di carta da lettere Basildon Bond. Grosso capello nero nella salsiccia. Allora ho scritto alla ditta accludendo il capello. L’ho attaccato con lo scotch. Freccina: «Questo è il capello». Ho precisato che non volevo un’altra confezione, essendo le loro condizioni igieniche evidentemente inadeguate, ma solo il rimborso del prezzo più le spese postali. Non ci tengo a venire sommersa di salsicce.
Sono preoccupata per il marmocchio. È più di una settimana che non lo vedo. Loro sono sempre fuori. Escono tutte le sante sere, e il marmocchio non lo portano mai. E di una baby-sitter neanche l’ombra. Non avrà più di cinque anni. Vorrei proprio sapere dove prendono i soldi per uscire. Perché lui mica lavora. Tutto il giorno ad armeggiare intorno a quell’auto. Si occupasse un po’ meno dell’auto e un po’ più del marmocchio. Non gioca mai all’aperto, e i marmocchi hanno bisogno dell’aria fresca, no? Lo sanno anche i sassi. Adesso non lo senti più neanche piangere, niente. E avessi mai visto una tovaglia. Teiera, giorno e notte. Bottiglia del latte. Mi stupirei se fossero sposati. E poi lui ha un tatuaggio.
NERO.
Assolvenza su Miss Ruddock seduta su una seggiola davanti alla finestra. Crepuscolo.
In questa strada mia madre conosceva tutti. Sapeva recitare a memoria i nomi degli inquilini di ogni casa. Del resto chiunque, ai suoi tempi. Adesso è un tale andirivieni. Per forza succedono le tragedie. Nessuno guarda. Se sapessero di essere osservati righerebbero dritto. Parlerei volentieri con i miei vicini, ma dopo la faccenda dei bidoni della spazzatura non ci sono più stati contatti. Da questa parte invece sono asiatici, quindi manco sanno che cos’è normale e che cosa non lo è. Comunque lui mi pare un tipo fine, e i loro marmocchi sono sempre in ordine. Se solo facessero qualcosa per il loro ligustro.
Ho pensato di andare a fare due chiacchiere con il dottore, giusto per mettergli una pulce nell’orecchio. Una volta c’era un dottore solo. Adesso sono tutti aggregati insieme, quindi è un po’ un terno al lotto. È uno giovane. Ho detto che mi sentivo agitata come l’altra volta. «Quale altra volta?» ha chiesto, e io: «È scritto nelle mie note». Le legge, e poi fa: «Lei si sta agitando come l’altra volta. Le darò qualcosa da prendere». Allora gli dico del marmocchio, e lui: «Queste compresse l’aiuteranno ad assumere un punto di vista più equilibrato». Ho deciso che le avrei provate per tre o quattro giorni al massimo, ma non ho avvertito un gran cambiamento, così sono tornata. Dottore nuovo, stavolta. Solito ritornello. Ho detto che non volevo altre compresse, volevo solo il nome dell’azienda che prepara quelle che mi avevano dato: se il loro prodotto non funziona, ritengo che qualcuno dovrebbe dirglielo. Il dottore ha risposto che era più semplice darmi delle nuove compresse, e poi non potevo scrivere, era un’azienda svizzera. E io: «Che differenza fa? Tutti parlano inglese oggigiorno». «Non è meglio lasciar perdere?» fa lui, e mi scrive un’altra ricetta. Non ho intenzione di usarla. Anzi, l’ho gettata nel gabinetto. Vorrei sapere a chi indirizzare un reclamo sui dottori.
Dopo aver preso il tè mi sono seduta al buio in salotto a guardare la casa. Lui è sempre alle prese con l’auto, porta una di quelle magliette che si usano adesso, senza maniche. Radio a tutto volume. E il marmocchio non si vede. Non so nemmeno come si chiamano.
NERO.
Assolvenza su Miss Ruddock che porta un cappello e un cappotto. Parete nuda sullo sfondo.
Ripensandoci, ho capito che dev’essere stato il dottore ad avvertire il vicario. Comunque è venuto. Non il vecchio vicario. L’avrei riconosciuto. Questo era un giovanotto in camicia e cravatta, avrebbe potuto essere chiunque. Non ho tolto la catena. Ho detto: «Come faccio a sapere che lei è il vicario, ha un documento?». Infila una piccola croce nello spiraglio della porta. «Che cos’è?». «Una croce». «Una croce non vuol dir niente. Oggigiorno se le mettono perfino i ragazzi. E gli hooligan. Si mettono le croci nelle orecchie». «Questa è diversa. È una croce vera. Una croce professionale. È il mio ferro del mestiere». Ero ancora dubbiosa, ma poi ho visto che aveva le mollette per la bicicletta e l’ho lasciato entrare.
Ha attaccato a parlare del più e del meno, senza nominare Dio per un bel pezzo. ’Sti vicari se lo tengono in serbo il più a lungo possibile, lo sanno che la gente si secca. Ha snocciolato tutta una tiritera sull’amore. L’amore che può assumere tante forme diverse... l’amore per gli amici, l’amore per la campagna, l’amore per la musica. La gente sarebbe sorpresa, ha detto (e io ho pensato: ci siamo), la gente sarebbe sorpresa di scoprire che ha sempre amato Dio senza rendersene conto. Ho tagliato corto: «Se è venuto qui per parlare di Dio sta facendo un buco nell’acqua. Sono atea». È rimasto interdetto, chiaro. Non se lo sognano che tu possa essere atea se sei una signorina. I vicari credono di poterti tenere in pugno se sei single. Ha detto: «Be’, Miss Ruddock, tornerò a farle visita. La considererò una sfida».
Non era andato via da molto quando bussano di nuovo, ma stavolta è un poliziotto, con poliziotta al seguito. Chiedono se possono entrare a parlarmi. «Di che cosa?» ho detto. «Lo sa di che cosa». «No, non lo so» ho detto, ma li ho fatti entrare. Si toglie il casco, ma è giovane, e dice che verrà subito al punto: le ho scritte io quelle lettere? «Quali lettere? Io non scrivo lettere». «Lettere». «Tutti scrivono lettere. Scommetto che ne scrive anche lei». «Non come le tue, dolcezza». «Non mi chiami dolcezza. Mi dica il suo nome e il suo numero di matricola. Scriverò al suo superiore».
Vien fuori che si tratta della coppia che abita di fronte. Ho detto: «E allora perché chiedete a me?». «Chiediamo a te perché chi è stato a scrivere al farmacista che sua moglie è una prostituta? Chiediamo a te perché chi è stato a far venire l’esaurimento nervoso al venditore di leccalecca?». «Ma stava troppo appiccicato a quei bambini!». E lui: «Il giudice ti ha ordinato di stare tranquilla. È una cosa seria». «Appunto, è una cosa seria. Non posso stare tranquilla quando sotto le mie finestre trionfano la crudeltà e l’incuria. Non riesco a stare tranquilla quando c’è un bimbo che soffre. In questo caso non sono tenuta a stare tranquilla, vero?». Allora s’intromette la donna, nel ruolo del poliziotto buono. Non mi rendevo conto che erano due giovani genitori affettuosi? mi domanda. Se erano due giovani genitori affettuosi perché se ne andavano a spasso tutte le sere, lasciando il marmocchio solo in casa? E lei: il marmocchio non era solo in casa. Il marmocchio in casa non c’era proprio. Il marmocchio era in ospedale a Bradford, è lì che andavano tutte le sere. Ed è lì che il marmocchio è morto, venerdì scorso. «Di che cosa?» ho chiesto. «Incuria?». E lei: «No, leucemia».
Pausa.
Lui ha detto: «Vai a metterti il cappello e il cappotto».
NERO.
Assolvenza su Miss Ruddock di nuovo a casa. Giorno.
Ho due assistenti sociali, una bianca e una nera. La bianca dovrei chiamarla Maureen: unghie da infarto, capelli color carota e la settimana scorsa un buco nelle calze grosso come una moneta da cinquanta centesimi. Sembra più bisognosa di assistenza lei di me. È fissata con gli uomini. «Tu e io sappiamo tutto degli uomini, vero Irene?». Non le ho mai detto che poteva darmi del tu. Non voglio essere chiamata Irene. Voglio essere chiamata Miss Ruddock. Non sono Irene. Non sono più Irene da quando mia madre è morta. Ma qui mi chiamano tutti Irene e mi danno del tu: lei, la polizia, chiunque. Credono di essere simpatici, mentre è solo un simpatico modo di essere cafoni. L’altra è asiatica, Mrs Rabindi: macchiolina rossa sulla fronte e compagnia bella. Si siede, parla. È abbastanza perbene. Dice che in India sarei utile. Pare che lì, siccome sono tutti analfabeti, ci si possa guadagnare da vivere scrivendo lettere. La settimana scorsa le hanno imbrattato la porta. Dice che agli asiatici capita spesso. Ho detto: «Sul mio muro ci schizzano ogni sorta di porcherie». Chiacchieriamo molto, ma è un po’ noiosa. Le dico che volevo bene a mia madre e lei mi dice che voleva tanto bene alla sua. Le dico che ho paura a camminare per le strade e mi dice che anche lei è stata aggredita. Ma così la conversazione non va avanti. È tutto un «anch’io». Più che assistenza sociale la chiamerei approvazione integrale.
Mi hanno dato la «condizionale». Vuol dire che devo rigare dritto. Se scrivo ancora lettere mi mandano in prigione. Il giudice ha detto che ero soprattutto da compatire. E io: «Scusi, potrei interloquire?». E lui: «No. È meglio per lei se si cuce la bocca». Tipo grande e grosso, completo blu scuro, papavero all’occhiello. Aria da uno che sbevazza.
Maureen dice che dovrei ascoltare la radio locale. Partecipare a quei programmi in cui prendono le telefonate. Scambi due parole col disc jockey e scegli un disco. Dice che sono molto efficaci per alleviare il senso di solitudine e di isolamento nella comunità. Ho detto: «Sì, e anche per farti salire la bolletta del telefono». Maureen cerca di incoraggiarmi a leggere. Per scoraggiarmi a scrivere, suppongo. Dice che i libri allargherebbero il mio orizzonte. Mi porta dei romanzi, ma non mi convincono: cioè, quando qualcuno in un romanzo dice una cosa tipo «Non sono mai stato coinvolto in un disastro aereo» , sai già che cinque minuti dopo si schianterà. Dice: i treni non deragliano mai, e zàcchete, un treno deraglia. Bisogna dirlo per fare andare avanti la storia. Perciò se l’eroina dice: «Credo che non sarò mai felice» , puoi scommetterci la camicia che la felicità l’aspetta dietro l’angolo. È la regola dei romanzi. Invece nella vita una può dire che non sarà mai felice e non essere felice mai, e dirlo non fa uno straccio di differenza. È la regola della realtà. A volte mi sorprendo a pensare che andrà meglio la prossima volta. (Pausa). Ma ormai è fatta. A me è andata così.
Pausa.
Poliziotto nuovo. Cammina per le strade, come facevano una volta. Fa parte del nuovo corso. La polizia al servizio della comunità. Sorride. Scambia saluti. Tiene d’occhio la situazione.
Di sicuro tiene d’occhio il numero 56. Un’ora di seguito è stato dentro. L’altro giorno l’ho cronometrato, e quando alla fine è uscito, lei era lì alla porta con addosso una vestaglietta succinta e nient’altro.
Adesso è dentro.
Pausa.
Gli ci vorrebbe un rapportino.
NERO.
Assolvenza su Miss Ruddock davanti al muro grigio di un istituto. Indossa un’uniforme, parla molto in fretta ed è raggiante.
Dovrei andare avanti col mio diario. Mrs Proctor ci fa tenere un diario, serve per il corso di Critica Letteraria. Le altre ragazze non sanno che cosa metterci dentro, io non so che cosa lasciar fuori. Il guaio è che non ho mai tempo per scriverlo, sono indietro di tre giorni.
Sono talmente occupata. La mattina c’è Terapia Occupazionale, e io ho scelto Rilegatura e Sartoria. In Sartoria Mrs Dunlop mi ha mandato allo sbaraglio e sto confezionando un abitino da cocktail. Ho detto: «Ma non vado mai ai cocktail». E lei: «Be’, adesso che hai il vestito, puoi andarci». È per questo che siamo qui: nuovi orizzonti. È di shantung, con un colletto a scialle. In Artigianato Lucille mi sta facendo una collanona da metterci su.
Divido la stanza con Bridget, che è di Glasgow. Faceva la prostituta a tempo perso e ha ammazzato il suo marmocchio, per sbaglio, una volta che era ubriaca e furibonda. Faccino grazioso, non lo diresti mai. Sua madre era cieca, ma faceva certi pasticcini da favola, e ha tirato su una famiglia di nove persone in tre stanze. È proprio vero che non si finisce mai di imparare. Comunque ho fatto amicizia praticamente con tutti. Sono sempre in questo corridoio; spesso la campanella suona mentre sto ancora facendo il mio giro di visite.
Ridono di me, lo so, ma senza cattiveria. Lucille dice: «Sai che sei buffa, Irene. Non ti importa niente di essere in prigione». «Prigione!» ho risposto. «Lucille, erano anni che non mi sentivo così libera».
Certo che sono fortunata. Alle altre manca il sesso. Uomini, uomini, uomini. Non parlano d’altro.
Nota bene, per me non è più un mistero come prima: Bridget mi ha illustrato la procedura step by step. In passato, se mai mi fossi trovata a letto con un uomo, sarei stata un pesce fuor d’acqua, mentre adesso almeno conosco i rudimenti, come dice Bridget. Chiaro che alla mia età l’evento appare improbabile, ma è comunque piacevole aggiungere una nuova freccia al proprio arco. Mi hanno anche insegnato a fumare. Non che voglia diventare una fumatrice a tempo pieno, non sono il tipo e non voglio esserlo, ma se per caso mi trovo in una situazione sociale che prevede la sigaretta, tipo quando brindano in onore della Regina, adesso non faccio più brutta figura. D’altronde la filosofia di questo posto è tutta qui: acquisire competenze.
Al corso da segretaria vado alla grande, Miss Macaulay dice che sono l’allieva migliore della classe avanzata. Batto a macchina veloce come il vento. Miss Macaulay dice che non dobbiamo lasciarci sfuggire l’occasione: se lei glielo chiedesse in ginocchio, forse (e sottolinea forse) quelli dell’amministrazione potrebbero lasciarmi usare il computer. Poi il piano è: Fase Uno, vado in semi-libertà per qualche tempo, seguita dalla Fase Due, un soggiorno in un ostello di reinserimento dove sarò reintegrata nella comunità. E finalmente Fase Tre, un posticino in un ufficio da qualche parte. Ho domandato a Miss Macaulay: «Sarà un problema essere stata in prigione?». E lei: «Irene, con i tuoi requisiti non sarebbe un problema essere stata nelle SS».
Ma cosa non esce da quelle bocche! Viene proprio da ridere. Hanno parole per cose che non sapevo nemmeno avessero un nome, e devo ammettere che adesso ogni tanto le mie parolacce le dico anch’io, ma solo quando l’occasione lo richiede. L’altra sera ero seduta vicino a Shirley durante l’ora di socializzazione. Shirley è molto obesa, credo per via delle ghiandole, e stiamo cercando di mettere insieme una lettera al suo fidanzato. Insomma, lei dice che è il suo fidanzato, ma ho dovuto ricominciare la lettera tre volte perché prima lo chiamava Kenneth, poi Mark, e alla fine si è decisa per Stephen. Il fatto è che balbetta, Shirley, e secondo me cercava solo un nome che riuscisse a pronunciare. Non credo nemmeno che ce l’abbia un fidanzato, vuole soltanto darsi un tono. E poi non dovrebbe essere qui, non ha tutte le rotelle a posto, ma pare che non sappiano dove altro metterla, appicca incendi dappertutto. Comunque eravamo nella sua stanza a inventarci qualcosa da scrivere al cosiddetto fidanzato, quando irrompe Geraldine la Nera, si spaparanza sul letto, e comincia a intromettersi chiedendole se questo fidanzato è biondo, se ha i riccioli, e altre domande personali molto sconvenienti che con Shirley sarebbe il caso di evitare. E Shirley si confonde e balbetta, e Geraldine se la ride, insomma ho deciso di buttare alle ortiche la diplomazia e ho detto a Geraldine di andare a fare il culo.
Lei si mette a sghignazzare e si precipita nel corridoio gridando: «Sapete che cos’ha detto Irene? Sapete che cos’ha detto Irene?». Appena è uscita, Shirley fa: «Non dovevi dire così». «Lo so, ma a volte è necessario». «No, Irene, non intendo che non dovevi dirlo. Ma l’hai detto sbagliato. Non è: vai a fare il culo». «E che cos’è?». «È: vai a fare in culo». È proprio una pasta di ragazza.
Pausa.
A volte Bridget si sveglia in piena notte urlando, perché ha sognato il marmocchio che ha ucciso, allora vado a sedermi vicino a lei e le tengo la mano finché non si riaddormenta. C’è la mia sveglietta che fa tic tac e sento i pioppi vicino al campo giochi stormire nel vento e forse sta piovendo e io sono qui seduta. E sono talmente felice.
DISSOLVENZA. FINE.