DORIS HA PIÙ DI SETTANT’ANNI, IL MONOLOGO
È TUTTO AMBIENTATO FRA IL SALOTTO E
L’INGRESSO DELLA SUA VILLETTA A
SCHIERA.
È SEDUTA UN PO’ GOFFAMENTE SU
UNO SGABELLO E SI MASSAGGIA
UNA GAMBA.
MATTINA.
Come si fa a fare una cosa così stupida.
Pausa.
Non avrei mai dovuto cercare di spolverare. Zulema me lo dice ogni volta che viene: «Doris, non provarti a spolverare. Spolverare è di mia competenza. Il comune mi paga per questo. Goditi la vita, adesso. I giorni dello straccio per te sono finiti». Il discorso non farebbe una grinza, se solo lei spolverasse. Ma Zulema non spolvera: tira via. Io lo so quando un posto non è pulito.
Quando se ne va dice: «Doris, non voglio sentire che hai toccato il panno antipolvere. Il panno antipolvere è tabù». E io: «Potrei dare una passatina di tanto in tanto». E lei: «Tu non passi da nessuna parte. In questa casa sei sotto osservazione». «Ma perché?». «Perché vivi da sola. Perché ti comporti in modo irragionevole. Perché non ti comporti come una donna di settantacinque anni che ha un pacemaker, soffre di vertigini, e ha la testolina che non funziona più come prima». Ho detto: «Sì, Zulema».
«Quello che non capisci, Doris, è che io sono l’unica persona rimasta fra te e Stafford House. Io devo fare rapporto su di te. I servizi sociali mi chiedono sempre: “Allora, Zulema, come se la cava? Non starebbe meglio a Stafford House?”». «Non ti mandano a Stafford House solo perché hai passato il panno antipolvere». «No. Loro fanno i salti mortali per lasciarti a casa tua. Ma devi cercare di venirgli incontro, Doris. Hai settantacinque anni. Tira i remi in barca. Non devi lucidare le mattonelle. Non devi pulire il bagno. Lascia stare lo sporco. Non ti uccide. Io sono qui tutte le settimane».
Finalmente se n’è andata, la tiranna. Sono rimasta un po’ a guardare me e Wilfred nella foto del matrimonio. E ho pensato: «Be’, Zulema, scommetto che qui sopra non hai spolverato». Prima ci arrivavo, ma adesso no. Perciò ho preso il divano e ci sono salita sopra. E infatti. Un dito di polvere. Assistenza domestica! Resistenza domestica. Meglio arrangiarsi da soli. E stavo appunto spolverando come si deve quando, oh maledizione, quell’accidente di divano si è rovesciato.
Pausa.
Ci si sente così sceme. Immagino già il commento di Zulema: «Ecco, Doris, te l’avevo detto». Però credo di star bene. La gamba è un po’ intorpidita, ma sono riuscita a riaccomodarmi sulla sedia. Me ne starò ferma qui, il tempo di rimettermi un po’ in sesto. Cadere ti scombussola.
Pausa.
Non dirò mai che stavo spolverando.
Spinge lo straccio giù dalla sedia.
Spolverare è proibito.
Guarda la foto del matrimonio sul pavimento.
La fotografia è a pezzi. Siamo a pezzi, Wilfred.
Pausa.
E dài che il cancello è aperto. Credevo che una ventata l’avesse chiuso, ma adesso una ventata l’ha riaperto. Bum bum bum tutta la mattina, e farà bum bum bum tutto il pomeriggio.
Entrano cani di ogni tipo. Vedete, Zulema avrebbe dovuto chiuderlo, ma non l’ha fatto.
Pausa.
Il saliscendi è allentato, ecco il problema. Sono anni che ha bisogno di una riparazione. Lo dicevo sempre a Wilfred: «Quand’è che sistemi quel cancello?». Nossignori. Era sempre lo stesso ritornello: «Non preoccuparti, Ma’. È sulla lista». Mai visto nessuna lista. Non aveva una lista. Ero io quella delle liste. Non aveva il minimo ordine, Wilfred. «Appena ho un minuto, Doris». Be’, adesso il minuto ce l’ha, benedetto.
Pausa.
Che strano. Non mi sento la gamba.
Pausa.
Ecco che arrivano le foglie. Gli alberi mi piacerebbero se non avessero le foglie, che si trascinano su e giù per il vialetto. Zulema non le tocca. Dice che se voglio spazzare le foglie devo rivolgermi al Dipartimento Parchi.
Se fossero le mie foglie, pazienza. Ma non lo sono. Sono le foglie del vicino. Noi non abbiamo foglie. Lo so per certo. Abbiamo solo quel cespuglietto, ed è un sempreverde, quindi sicuramente non sono le mie foglie. Gli altri però non lo sanno. Vedono il cespuglio e vedono il vialetto e pensano: «Le loro foglie». Ebbene, non lo sono.
Dovrei mettere un biglietto sul cancello: «Foglie non mie». E anche gamba non mia, per come la sento ora. È in letargo.
Pausa.
A dire il vero, non lo volevo nemmeno il cespuglio. Ne discutemmo un bel po’. Io dicevo: «Pa’, questo cespuglio farà disordine?». E lui: «Tranquilla, Doris. È un tipo di cespuglio facilissimo da stargli dietro» , e tira fuori il catalogo: «“Questa varietà richiede un impegno minimo ed è la preferita dei pensionati”. E comunque» aggiunge «il giardino è di mia competenza». Giardino! È grande come una tovaglia. Ho detto: «Potendo scegliere, Wilfred, preferirei il cemento». «Doris, il cemento non ha personalità». «Lascia stare la personalità, Wilfred: e l’igiene dove la mettiamo?». Il cemento non dà grattacapi. Macché. Ha dovuto farsi il suo giardinetto, anche con un cespuglio solo. Be’, adesso ce l’ha il suo giardinetto. Ma scommetto che è coperto di foglie. Tombe, giardini, è tutto da stargli dietro.
Fra un minuto mi muovo. Cerco di mettere su l’acqua per il tè. Dài, gamba. Svegliati.
NERO.
Assolvenza su Doris seduta sul pavimento con la schiena contro il muro. Si vede anche l’angolo di un caminetto ricoperto di piastrelle.
Guarda un po’, c’è una fetta biscottata sotto il divano. E chissà da quanto è lì. Non ricordo l’ultima volta che ho mangiato le fette biscottate. Qui Zulema non ha nemmeno tirato via.
Conserverò questa fetta biscottata, e la prossima volta che ricomincia con Stafford House gliela metto sotto il naso. Dirò: «Piantala con la tua Stafford House, madama. Questa fetta biscottata era sotto il divano. Se questa fetta biscottata la spedisco al direttore dei servizi sociali, andrai al tappeto. Proprio come la fetta biscottata. Io finirò a Stafford House ma tu, Zulema, finirai all’ufficio di collocamento».
Sto cercando di arrivare alla finestra, ma non faccio molti progressi. Picchierò sul vetro. Qualcuno mi sentirà. Non so chi. Non conosco nessuno da queste parti. Quelli di fronte non li conosco. Prima c’erano i Marsden. Il signor Marsden, la moglie e Yvonne, la figlia strana. Per anni. Erano qui prima di noi i Marsden. Poi lui è morto, lei è morta e Yvonne è andata chissà dove. In un istituto, immagino.
Dopo di loro una abbastanza chic. Lavorava da Wheatley and Whiteley, aveva un cappotto a tre quarti. Portava in giro le buste per i ciechi. Poi è partita, ed è cominciato un andirivieni. Ho perso il conto. Metà non sono nemmeno sposati, credo. Gente di ogni risma. Ti entrano in giardino e si comportano come animali. E la mattina dopo le prove le trovo io.
Raccoglie la fotografia che è caduta dal muro.
Eh sì, Wilfred.
Pausa.
Continuo a pizzicarmi la gamba ma niente.
Pausa.
Dovevo prendermi un cane. Avrebbe potuto abbaiare a qualcuno. Wilfred lo desiderava tanto. Io no. Peli dappertutto, e poi devi portarlo fuori ogni cinque minuti. Wilfred diceva di essere pronto ad assumersi questa responsabilità. Del cane se ne sarebbe occupato lui. «Sì, e di tutti quei peletti chi se ne occuperebbe?». Alla fine ho ceduto, a patto che il cane fosse di piccola taglia. Non volevo uno di quei giuggioloni scodinzolanti e odorosi di lampione. Comunque poi non se ne è più fatto nulla. Come per i funghi da coltivare in cantina: stessa storia. Non si è mai deciso. Un figlio avrebbe messo tutto a posto. Tutte quelle idee strampalate. Tipo intagliare il legno per fabbricare giocattoli e castelli e compagnia bella. I soldi a palate, doveva fare. Poi fu la volta dell’orticello fantasma. Oh, sarebbe rincasato carico di porri e cavoli cappucci e chissà che altro. «In fatto di verdure, Doris, possiamo diventare autosufficienti». Mai concretizzato. Per fortuna. Di sicuro avrebbe portato sporcizia.
Ehi! Arriva qualcuno. Sono salva.
Si protende verso la finestra.
Ragazzino! Ehi! Ehi!
Si mette a gesticolare.
Sfacciato, screanzato. Sta facendo la pipì. Ohi!
Grida.
Oooh! Vai via! Su, smamma! Piccola peste. Roba da chiodi! Attraverso il cancello. In pieno giorno. Chissà la puzza!
Pausa. Si rende conto di quello che ha combinato.
Tanto non avrebbe saputo cosa fare. Era solo un moccioso. Ogni tanto passa il poliziotto di ronda. Se riesco a beccarlo. Forse mi conviene puntare sulla porta. Se riesco ad arrivarci, potrei aprirla e aspettare che passi qualcuno.
Cerca di sollevarsi.
Dev’essere a questo che servono quei trabiccoli con quelle robe per tenercisi.
NERO.
Assolvenza su Doris seduta sul pavimento sotto la cassetta delle lettere, la schiena contro la porta d’ingresso.
La carrozzina la tenevamo qui. Bloccava il passaggio. Le carrozzine di una volta, con le balestre e la capote. Le ruote grandi. Più automobili che carrozzine. Non quegli affari pieghevoli. Di carrozzine così si andava orgogliosi. Wilfred l’aveva scovata nell’«Evening Post». Ho detto: «Wilfred, non mettiamo il carro davanti ai buoi». E lui: «Doris, hai visto il prezzo? E quando ci capita più un’occasione così!».
Pausa.
Questo spiffero... S’infila sotto la porta come una lama. Non riesco a raggiungere la serratura. È il regime di Zulema: «Chiudi a chiave e metti la catena, Doris. Non si sa mai chi può arrivare. Potrebbe essere uno che non ha buone intenzioni». Non hanno mai buone intenzioni. Non viene mai nessuno animato da buone intenzioni.
Settimana scorsa è venuta una coppia. Strepitavano davanti alla porta. E le loro intenzioni non erano buone: avevano una Bibbia. Non mi sono mossa. Allora hanno aperto la buca delle lettere e si sono messi a strillare l’avvento di Gesù. «Buone novelle!» strillavano. «Buone novelle!». Hanno lasciato il cancello aperto, con tanti saluti alle buone novelle. Imparassero le buone maniere piuttosto. Magari gliele insegnassero nel corso di addestramento. Strillare l’avvento di Gesù e lasciare i cancelli aperti. Pura ipocrisia, ecco cos’è. La mia filosofia è un’altra: «Ama Dio e chiudi tutti i cancelli».
Chiude gli occhi. Si sente un passo rapido nel vialetto, la buca delle lettere si apre e ne cade un volantino. I passi si allontanano rapidamente, mentre lei apre gli occhi.
Ehi! Ehi!
Batte colpi sulla porta.
Aiuto! Aiuto! Oh, mannaggia.
Cerca di afferrare il volantino.
Che cos’è? Un radiotaxi? «Ti ripariamo il tetto»?
Raggiunge il volantino.
«Supervendita di tappeti». Li vendono nelle chiese adesso. O forse sono i Sikh.
Guarda il punto in cui si trovava la carrozzina.
Io volevo chiamarlo John. L’ostetrica disse che non era il caso di dargli un nome; avevamo un giornale? «Oh, sì» rispose Wilfred. «Doris li mette da parte i giornali. E anche le scatole da scarpe». Dovevo essermi addormentata perché quando mi svegliai era andata via. Volevo prendermi cura di lui. Povero piccolo, avvolto in un giornale, come se fosse sporco. Non era sporco. Secondo me Wilfred non se n’era neanche accorto. Un bambino. Era come l’orticello e il bricolage. Una follia e basta. «Stiamo meglio così, Doris» disse. «Noi due soli». È stato a quel tempo che ha cominciato a parlare di prenderci un cane.
Se fosse vissuto, magari adesso avrei dei nipotini. E non mi sarei cacciata in questo pasticcio. Le femmine sono meglio: non migrano.
Pausa.
È ora che migri anch’io, o mi sa che ci rimetto le penne.
Si pizzica l’altra gamba.
Si sta addormentando anche questa.
Raccoglie la fotografia.
Forza, Pa’. Forza, gamba dormigliona.
NERO.
Assolvenza su Doris che ha la schiena appoggiata al divano sotto cui ha scoperto la fetta biscottata. Si sta facendo buio.
Questo vestito ce l’ho da anni. Me lo ha cucito su misura una zoppa che abitava in Tong Road. Mi fece un tailleur di jersey che mettevo con le décolleté marrone chiaro a tacco alto. Dovrei averlo ancora da qualche parte. Al piano di sopra. Messo via. Ho un subisso di federe, alcune addirittura regali di nozze. Mai usate. E la coperta che avevo fatto all’uncinetto per il lettino. E i suoi cappottini, i suoi berrettini.
Abbassa una mano.
Questa fetta biscottata.
La strofina.
Non ha un brutto aspetto.
La mangia.
Quante briciole. Dovrò dare una passata clandestina con il panno antipolvere. «Doris, il panno antipolvere è tabù». Tabù anche per lei, a quanto pare. Una fetta biscottata sotto il divano. Si meriterebbe un bel rapporto. Solo che non posso più farlo. Ho distrutto la prova.
Pausa.
Potrei mettercene un’altra, non se ne accorgerebbero mai. Ma forse direbbero che sono stata io. «Infilare biscotti sotto il divano. No Doris, non sei più in grado di vivere da sola. Starai molto meglio a Stafford House».
Pausa.
Io e Wilfred ce ne stavamo sempre per conto nostro. Non eravamo socievoli. Mai stati di quelli che socializzano. Lui credeva di esserlo, ma si sbagliava.
Aggregazione. Io non voglio aggregarmi. Gira e rigira, credono sempre che tu voglia aggregarti. Non voglio finire in mezzo a un gruppo di ragazze decrepite. E puzzano tutte di pipì. E mezze rimbambite, a forza di picchiare sui tamburelli. In quel posto si va fuori di testa. Solo lì puoi andare: fuori di testa. Mettersi il vestito di un’altra. Sono anche capaci di mettersi la tua dentiera. Io sono effe-e-elle-i-ci-e! Io non sono affatto effe-e-elle-i-ci-e! Io sono i-enne-effe-e-elle-i-ci-e! O almeno lo sarei.
E Zulema: «Tu non capisci, Doris, non sei aggiornata. Adesso hanno gli armadietti! Le aiuole! Il parrucchiere! Vanno in gita a Wharfedale!». «Sì,» dico io «e puzzano di pipì». «Sei piena di pregiudizi». «Certo che lo sono, se si tratta di igiene».
Quando la gente era pulita, e le strade erano pulite, e tutto era pulito, e potevi camminare per strada, e la gente sorrideva e si salutava, uscivo senza chiudere a chiave e andavo all’angolo a comperare le mou, e quando tornavo Pa’ era rincasato, la tavola era apparecchiata e prendevamo il tè. Poi sparecchiavamo e io lavavo i piatti mentre lui leggeva il giornale e mangiavamo le mou e ascoltavamo la radio tanto tempo fa quando eravamo appena sposati e io aspettavo il bambino.
Doris e Wilfred. Adesso non le chiamano più Doris. Adesso non li chiamano più Wilfred. Nomi da museo. A Stafford House hanno tutti nomi così. Alice e Doris. Mabel e Gladys. Anticaglie. Da tenere sottochiave. «Come ti chiami? Doris? Bene. Fai la valigia. Sei matura per Stafford House».
Un istituto? Io no. Non c’è pericolo.
Chiude gli occhi. Pausa.
VOCE DI UN POLIZIOTTO. Ehi? Signora?
Doris apre gli occhi ma non parla.
Va tutto bene?
Pausa.
DORIS. No. Tutto bene.
POLIZIOTTO. È sicura?
DORIS. Sì.
POLIZIOTTO. La sua luce si è spenta.
DORIS. Mi ero appisolata.
POLIZIOTTO. Mi scusi. Arrivederci.
Se ne va.
DORIS. Grazie.
A voce più alta.
Grazie!
Lunga pausa.
Ce l’hai fatta, Doris. Ce l’ho fatta, Wilfred.
Pausa.
Vorrei essere pronta per dormire. Lavata e profumata, con la mia bella camicia da notte pulita, la borsa dell’acqua calda già sistemata, tutta bella linda e fresca come nella Notte delle Leccornie quando ero piccola, seduta davanti al fuoco con i miei lunghi capelli belli a posto.
I suoi occhi si chiudono, e comincia a canterellare. La canzone, che ricorda solo a metà, è «My Alice Blue Gown».
Pausa.
Pazienza. Tanto ormai è fatta.
BUIO.