Questa raccolta contiene la prima serie di Signore e signori, sei monologhi in tutto, e la sua Introduzione. Mi è parso opportuno includere anche Una donna come tante, un monologo che risale a molto tempo prima, passato in tivù nel 1982, per il quale avevo preparato quest’Introduzione.
Quando scrissi Una donna come tante pensavo che l’avrei anche diretto. Ma non avendo mai curato regie né per il teatro né per la televisione, diedi al testo una struttura semplice, per non dire rudimentale: una commedia per una sola attrice, che parla guardando direttamente in macchina.
Sapendo che non avrei avuto a disposizione più di due telecamere, concepii la commedia come una serie di piani sequenza in cui l’inquadratura parte dal piano americano, stringe molto lentamente fino al primo piano, e dopo averlo mantenuto per un po’ ricomincia ad allargare. Non avevo previsto nemmeno uno stacco, benché ciò avrebbe richiesto all’attrice un notevole impegno a causa della lunghezza di certe scene: la prima tirata, per esempio, dura dodici minuti. Questo sistema di riprese rende praticamente impossibile il montaggio: alla prima papera bisogna ricominciare da capo. Si poteva usare il gobbo elettronico, ma Patricia Routledge, per cui il testo era stato scritto, ne avrebbe fatto volentieri a meno, e si capisce perché: anche quando un attore è perfettamente padrone del testo, vederselo scorrere lentamente nell’obiettivo della telecamera produce un effetto ipnotico, un po’ da coniglio imbambolato davanti al serpente. Per questo pensai a una seconda telecamera che riprendeva la signorina Schofield di profilo, da usare per il montaggio.
Poi però le cose andarono diversamente. Essendo impegnato in un’altra commedia, non potei curare personalmente la regia, che fu affidata a Giles Foster. Giles rimase pienamente fedele alla struttura del testo, pur trovando a dir poco faticose le limitazioni che imponeva. Cercò di introdurre un minimo di dinamica, chiedendo all’attrice di eseguire i movimenti descritti nelle note. Durante le prove, attraverso un processo di semplificazione, questi movimenti venivano a poco a poco interiorizzati dal personaggio, che concludeva immobile davanti alla telecamera così come avevo previsto fin dall’inizio. Tuttavia sono state inserite anche delle cesure nel corso di una medesima scena, quando un gesto o un cenno del capo permettono di staccare su un’inquadratura leggermente diversa senza alterare il carattere rigoroso della pièce. Qualcuno potrebbe pensare che tanta semplicità e immediatezza risultino inefficaci. In televisione, «Signore e signori» è una formula che evoca la noia, e qui c’è sempre e soltanto un signore, o una signora. E la Schofield è una noia. Ma guardarla in primissimo piano mentre racconta nei minimi dettagli come e qualmente ha preso in prestito il sale nella mensa, trasporta (spero) lo spettatore oltre i confini della noia.
Le prime righe sono un piccolo furto. Al Festival of Britain, da ragazzo, visitai un padiglione (che forse oggi troverei irritante) chiamato il Leone e l’Unicorno, dedicato all’Inglesità. Conteneva una plancia con tutta una sfilza di bottoni: pigiandoli, si potevano ascoltare brani di una tipica conversazione inglese. L’autore credo fosse Stephen Potter, e l’interprete Joyce Greenfell. Uno dei brani era dedicato a una signora della middle-class cui capita una disgrazia, e cominciava così: «Lunedì sono stata perfettamente bene. Martedì sono stata perfettamente bene. Mercoledì sono stata perfettamente bene. Giovedì sono stata perfettamente bene, almeno fino all’ora di pranzo, quando ho mangiato un po’ di salmone in guazzetto: cinque minuti dopo mi rotolavo sul pavimento».
L’esperienza accumulata nei monologhi successivi mi permette di aggiungere altri suggerimenti di recitazione. Quanto più fermo (e perfino immobile) è l’interprete, tanto più il pezzo funziona. Benché il testo possa sembrare statico, il movimento lo renderebbe meno interessante e credibile. «A chi crede di parlare questa persona?» vien fatto di domandarsi. Invece, se l’interprete resta fermo e la telecamera rimane abbastanza stretta su di lui, questi dubbi non sorgono. Le cose stanno così, anche se non so perché.
Ci sono poi alcuni accorgimenti formali di cui ero del tutto inconsapevole, ma che ora so essere necessari all’azione – e l’azione non manca, benché sulla scena ci sia solo una persona. Le scene si chiudono spesso con un accenno apparentemente casuale a qualcosa che fa progredire l’intreccio. Ovviamente, al principio della scena successiva, quel qualcosa è avvenuto, dal momento che in queste storie le cose accadono quasi sempre negli intervalli tra le scene, e le apprendiamo da accenni casuali invece che – come di consueto – da un racconto esplicito dell’attore.
Sarebbe certo possibile raccontare queste storie in modo diverso, e più convenzionale: ne parlo nell’Introduzione alla prima serie di Signore e signori.