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La religione senza religione

Ho già parlato in precedenza della dottrina dei bodhisattva nel buddhismo mahāyāna, mettendola in relazione con le due principali tendenze della spiritualità indiana: l’antimondanità (o extramondanità) e l’affermazione del mondo. Ho anche mostrato come il buddha più importante sia in un certo senso un non buddha.

Il buddha più importante è una persona qualsiasi. Questo concetto è chiarissimo in diverse tendenze dello zen. Per esempio, tutti i dipinti tipici del buddhismo zen nella tradizione cinese e giapponese possiedono un’atmosfera laica, mentre i dipinti delle più antiche branche del buddhismo giapponese Shingon e Tendai sono religiosi; è subito evidente a chiunque che si basano sulla religione. I dipinti zen, invece, affrontano in maniera laica le tematiche filosofiche o spirituali.

Questa caratteristica è evidente nelle opere di Sengai, un monaco zen giapponese del XVII secolo. Quando un artista come Sengai ritrae il Buddha, inserisce nell’immagine un tocco di umorismo. Ha l’aureola su un orecchio e appare informale, quasi trasgressivo. Questo stile deriva dalla Cina, dai grandi artisti della dinastia Song come Liang Kai, che dipinse il Sesto patriarca dello zen mentre taglia il bambù come dei contadini incolti qualsiasi. I principali dipinti zen hanno come soggetto tematiche niente affatto religiose. Raffigurano rami di pino, rocce, bambù ed erbe, e a nessuno verrebbe mai in mente che si tratti di rappresentazioni religiose.

Lo stesso accade per la poesia, che vedremo più avanti in maniera approfondita. Una suprema espressione della poesia zen è quella del poeta cinese Layman Pang, che scrisse: «Azione meravigliosa, potere soprannaturale, tagliare il legno e trasportare l’acqua». Tuttavia, tutto ciò è persino troppo religioso per il gusto zen. È meglio la famosa poesia di Bashō: «Il vecchio stagno; una rana si tuffa. Il suono dell’acqua». Si tratta di una poesia zen di altissimo livello, perché non vi è alcun accenno alla religione. Un’altra poesia di Bashō recita: «Com’è ammirevole colui che non pensa: “la vita è effimera” vedendo un lampo». Il lampo è un cliché buddhista che indica la transitorietà del mondo, ossia il fatto che la vita compare e scompare veloce come un lampo. Il poeta sta dicendo che è ammirevole non restare intrappolati in un cliché.

Alla fine ogni commento religioso riguardo alla vita diventa un luogo comune. La religione cede sempre alla promozione dell’adesione incondizionata e dell’imitazione. L’imitazione di Cristo ne è un esempio perfetto. È una pessima idea, perché chiunque imiti Cristo diventerà una sorta di falso Gesù. Allo stesso modo nel buddhismo si imita il Buddha in tutti i modi, non solo sedendosi su altari di legno dorato, ma anche nei monasteri. Si potrebbe affermare che la conquista religiosa o spirituale più alta non mostra alcun segno di essere religiosa o spirituale. Come metafora per esprimerlo, nel buddhismo esiste l’idea delle tracce degli uccelli nel cielo. Gli uccelli non lasciano traccia del loro passaggio, e così dev’essere per l’uomo illuminato. Come recita una poesia buddhista: «Entrando nella foresta, non sposta un filo d’erba. Entrando in acqua, non produce un’increspatura».

In altre parole, in coloro che sono spiritualmente avanzati, nessun segno indica che sono consapevolmente religiosi. E non sono nemmeno consapevoli di non dare alcun segno del loro stato spirituale avanzato. Non sono come i protestanti che, consapevolmente orgogliosi della propria semplicità, criticano i cattolici e i loro rituali. Storicamente, tuttavia, il vero motivo per cui i protestanti ritengono insinceri i rituali cattolici è che sono dispendiosi. Il protestantesimo ha avuto inizio nelle città europee, in luoghi come Augusta, Amburgo e Ginevra, dove la classe mercantile, base della borghesia, era disturbata dal fatto che, ogni volta che si festeggiava un santo, i dipendenti si prendevano un giorno di festa per andare a messa. Erano così tante le festività religiose, oltre ai numerosi contributi richiesti dalla Chiesa per pagare le messe per i defunti e per guadagnarsi l’uscita dal purgatorio, che i mercanti trovavano tutto ciò antieconomico. Poiché i preti raccoglievano più denaro di loro, i mercanti condannarono l’avidità della religione cattolica come antibiblica, irreligiosa e dispendiosa, cercando un’alternativa più semplice e povera. Nel corso del tempo, evitare i rituali, gli abiti sfarzosi e lo splendore nelle chiese divenne un segno di religiosità genuina, così come ricercare la maggior semplicità possibile. Ma questo non è un buon esempio di come la vera religione non mostra di essere religiosa, perché tale semplicità e l’assenza di rituali erano in sé indice di devozione; erano un modo di reclamizzare quanto si era spirituali.

Il vero bodhisattva non lascia tracce di alcun tipo, non mostrandosi apertamente né religioso né antireligioso.

Ma come si può non essere né religiosi né antireligiosi? È questa la grande sfida. Com’è possibile evitare la trappola di essere una cosa oppure l’altra? È come chiedere «sei credente o ateo?». Il credente è intrappolato da Dio, dall’idea di Dio o dalla fede in Dio, ma anche l’ateo è altrettanto intrappolato. Se per esempio un ateo è tale perché non riesce a sopportare l’idea che Dio lo guardi per tutto il tempo – che esista un occhio che osserva ogni aspetto della sua vita privata – allora è preda della sua opposizione a Dio tanto quanto un credente è concentrato sulla propria idea di Dio. Gli atei che pubblicizzano il proprio non credere in Dio sono persone molto devote. Nessuno crede in Dio quanto un ateo: «Non esiste alcun Dio, e io sono il Suo profeta». Il vero bodhisattva si trova in uno stato molto difficile da descrivere. Non è né molto religioso né apertamente laico. È uno stato molto particolare, ed è facile sbagliarsi. Anche chi crede che l’essenza del buddhismo o dello zen sia di essere del tutto semplici si sbaglia.

Esiste un elemento di non religiosità nell’arte, nei dipinti e nella poesia ispirati dall’apparente semplicità dei santi buddhisti. Malgrado ciò, qualcosa nel modo in cui questa tematica non religiosa viene trattata ci fa riflettere. Capiamo che ha qualcosa di strano. È così che ho cominciato a interessarmi di filosofia orientale. Ero completamente affascinato dai dipinti laici cinesi e giapponesi: i paesaggi, l’utilizzo dei fiori, delle erbe e del bambù. In tutto ciò c’era qualcosa che mi pareva sorprendente, anche se il soggetto era del tutto ordinario. Anche da bambino volevo a tutti i costi scoprire cosa avevano di particolare quel bambù e quelle erbe. Ovviamente i pittori mi avevano insegnato a vedere l’erba, ma nei loro quadri c’era qualcos’altro, che non riuscivo mai a mettere a fuoco. Quel «qualcos’altro» era ciò che chiamerò la religione senza religione. È la conquista suprema di un buddha: non può essere individuata; non lascia traccia.

Alcuni di voi avranno visto le Dieci icone del bue. Ne esistono due serie: una sequenza eterodossa e una ortodossa. Nella sequenza eterodossa, quando l’uomo cattura il bue, quest’ultimo diventa sempre più bianco, e infine sparisce del tutto. L’ultimo dipinto mostra un cerchio vuoto. Ma la serie ortodossa non finisce con il cerchio vuoto, ve ne sono altri due. Dopo che l’uomo ha raggiunto lo stato di vuoto – il non attaccamento ad alcun sostegno spirituale, psicologico o morale – ci sono ancora due fasi. La prima si chiama «ritorno alle origini», e viene rappresentata con un albero accanto a un torrente. L’ultima si chiama «entrare in città con le mani aperte», e mostra un’immagine del Buddha Bùdài, conosciuto in giapponese con il nome di Hotei, con una pancia enorme e grosse orecchie, che trasporta un sacco immenso. Che cosa pensate ci sia nel sacco? Cianfrusaglie, meravigliose cianfrusaglie. Tutto ciò che i bambini amano. Questo Buddha raccoglie e dona ai bambini le cose che gli altri buttano via perché le considerano senza valore. Il detto recita: «Lui va per la sua strada senza seguire i passi degli antichi saggi. La sua porta è chiusa – si parla della porta di casa sua – e non è possibile scorgere alcunché della sua vita interiore».

In altre parole, quando costruiamo un edificio, dobbiamo innalzare tutte le impalcature necessarie. Ciò dimostra che l’edificio procede. Quando è completo, però, le impalcature vanno tolte. Le impalcature sono la religione. Per aprire una porta, come si dice nello zen, potrebbe essere necessario colpirla con un mattone. Ma quando la porta è aperta, non c’è bisogno di portare dentro il mattone. Allo stesso modo per attraversare un fiume serve una barca, ma quando raggiungiamo l’altra sponda non ci prendiamo la barca in spalla per trasportarla sulla terra. Il mattone, la barca e le impalcature rappresentano la tecnologia o la metodologia religiosa, e alla fine dovranno sparire. Non si può trovare un santo in chiesa. Ma non prendete alla lettera le mie parole. Il santo può tranquillamente andare in chiesa senza macchiarsi di alcuna colpa. Sono le persone normali che troppo spesso escono dalle chiese puzzando di religione.

Una volta un discepolo chiese a un grande maestro zen: «Sto facendo progressi?».

Il maestro rispose: «Stai andando bene, ma fai uno sbaglio superficiale».

«E quale?».

«Hai troppo zen».

«Beh – disse lo studente – se si studia lo zen, non crede che sia del tutto naturale parlarne?».

Il maestro disse: «Quando è come una conversazione qualsiasi, è molto meglio».

Un altro monaco che era nei paraggi e aveva assistito a questo dialogo disse al maestro: «Perché non ti piace parlare dello zen?».

Il maestro rispose: «Perché fa rivoltare lo stomaco».

Che cosa intendeva quando disse che è meglio parlare dello zen come in una conversazione ordinaria e quotidiana? Quando all’antico maestro Jōshū domandarono «Alla fine dell’attuale epoca storica, quando tutto verrà distrutto dal fuoco, rimarrà solo una cosa. Cosa sarà?», lui rispose: «Stamattina c’è di nuovo vento».

Nello zen, quando ci viene posta una domanda sulla religione, risponderemo in termini laici. Quando ci chiedono qualcosa di laico, risponderemo in termini religiosi: «Qual è la natura eterna del sé?» «Stamattina c’è di nuovo vento».

Quando uno studente chiese al suo maestro di passargli un coltello, il maestro glielo passò porgendogli la lama. Lo studente disse: «Per favore, mi passi l’altra estremità?». «A cosa ti serve l’altra estremità?» domandò il maestro. Capite? Il discepolo era partito con una richiesta quotidiana e all’improvviso si è trovato coinvolto in un problema metafisico. Ma se avesse cominciato con una domanda metafisica, si sarebbe ritrovato con un coltello in mano.

Per approfondire la religione senza religione dobbiamo comprendere quello che può essere considerato il traguardo finale e più elevato della filosofia buddhista mahāyāna. Si trova in una scuola di pensiero chiamata Huayan in cinese e Kegon in giapponese. La scuola Kegon è il fondamento intellettuale dello zen. Ci fu un grande maestro cinese chiamato Tsung-mi, o Shūmitsu in giapponese, che era allo stesso tempo un maestro zen e il quinto patriarca della setta Hua-yan. Hua significa «fiore»; yan «ghirlanda». La ghirlanda di fiori è un lungo sūtra sanscrito intitolato Avatasaka; in giapponese viene chiamato Kegon-kyō. Uno degli argomenti di questo sūtra ampio e visionario sono i cosiddetti quattro mondi del dharma, e ora spiegherò di che cosa si tratta.

Per prima cosa c’è un livello dell’essere chiamato ji in giapponese e shih in cinese. Si tratta del mondo delle cose e degli eventi. È quello che potremmo definire il mondo del senso comune, quello quotidiano normalmente percepito dai nostri sensi. Il carattere cinese shih ha molteplici significati. Può indicare una cosa o un evento, oppure una questione importante. Può significare ostentazione, esibizionismo o un comportamento affettato. Un maestro zen viene chiamato buji, ossia «nessuna importanza, nessuna affettazione, niente di speciale». Una poesia recita: «Sul monte Lu c’è una pioggerellina leggera, e il fiume Zhe è in piena. Se non ci sei mai stato, il tuo cuore è pieno di desiderio. Ma se ci sei andato e sei tornato, non era niente di speciale. Una pioggerellina leggera. Un fiume in piena».

Questo «niente di speciale» è il buji. Di solito pensiamo che quando qualcosa non è niente di speciale debba essere mediocre. Ma buji non significa mediocre. Significa – paradossalmente, almeno per le nostre orecchie – che la montagna e il fiume non erano nulla di speciale nello stesso modo in cui gli individui senza religione possono essere i più religiosi di tutti. Non sono soltanto persone comuni e ignoranti, anche se possono apparire tali. È necessario sapere quello che sanno loro per riconoscerli per quello che sono. Il «niente di speciale» del buji significa che l’essere speciale è interiore e non spicca come un dito gonfio. Quindi il mondo del ji è, in senso generale, il mondo dei dettagli, della molteplicità. È il mondo in cui comunemente sentiamo di vivere, ed è il primo dei quattro mondi del dharma.

Il secondo mondo del dharma si chiama ri in giapponese e li in cinese. In cinese questo carattere indica i segni della giada, le venature del legno, la fibra dei muscoli; il principio organico dell’ordine. Nella filosofia Hua-yan la parola «ri» o «li»descrive l’universale alla base di tutti i dettagli, l’unità che sta alle spalle della molteplicità, il principio unificatore, che si contrappone allo shih, o ji, ossia il principio della differenziazione.

Per iniziare a comprendere la natura del mondo, partiamo dal ji. Iniziamo a notare tutte le singole cose che esistono al mondo e a stupirci della loro molteplicità. Tuttavia, a mano a mano che progrediamo nella comprensione, diventiamo consapevoli del rapporto che ognuna di queste cose ha con le altre, e infine vedremo l’unità che sta alla base di tutte. La molteplicità del mondo si dissolve nell’unità.

A questo punto ci troviamo di fronte a un problema. Riusciamo a vedere il mondo come un’unità e allo stesso tempo come una molteplicità. Come diavolo è possibile conciliare queste due visioni? Se dobbiamo avere un successo concreto negli affari, nella vita familiare e così via, dovremo fare attenzione al mondo dei dettagli. Sono i dettagli che contano. Bisogna distinguere il giorno dalla notte. Ma se diventiamo un santo, un monaco, un eremita – o magari anche un poeta o un artista – dovremo dimenticarci delle questioni pratiche e contemplare l’unità, il significato segreto che sta alla base di ogni evento. Ma allora tutte le persone pratiche ci diranno: «Stai sbagliando, stai evitando la vita». Secondo loro il mondo dei dettagli è l’unico mondo reale. Ma il santo risponderà: «I vostri dettagli non sono reali. Avete successo, ma è un successo solo temporaneo. Pensate di essere persone importanti, di contribuire davvero alla vita umana, ma in realtà il vostro successo durerà solo qualche anno e poi verrete meno come chiunque altro. Quando sarete morti, che ne sarà del vostro successo?». Dal punto di vista della persona che si concentra sull’unità che sta alla base del mondo, un successo simile non è reale.

Per risolvere il problema di conciliare le visioni dei primi due mondi del dharma, dobbiamo scoprire il terzo, chiamato riji muge. Il nome di questo mondo è composto da quelli dei primi due più la parola muge, che vuol dire «senza separazioni». Significa che tra ri e ji non esistono divisioni; non ci sono ostruzioni tra l’unità del mondo e i suoi dettagli. Il mondo dell’universale e quello del particolare non sono incompatibili. Per dimostrarlo prendiamo due cose molto diverse – per esempio, la forma e il colore – e vediamo come possono essere unite. Una forma non potrà mai essere un colore, un colore non potrà mai essere una forma, ma forma e colore possono essere uniti in un singolo oggetto. Pensate al colore e alla forma come ai primi due mondi del dharma. Possono unirsi in un oggetto – come un cerchio – per andare a formare, metaforicamente, il terzo mondo del dharma.

Una persona perfettamente equilibrata è l’incarnazione del terzo mondo del dharma, è sia spirituale sia materiale, sia terrena sia ultraterrena. Questo è il traguardo supremo per un essere umano, essere pienamente terreno e ultraterreno insieme, evitare gli estremi. Chi è semplicemente materialista finisce per diventare molto noioso. Potete vivere una vita di successo nel mondo e possedere ogni sorta di raffinatezze materiali, avere una casa splendida, il cibo più delizioso, yacht e automobili di lusso, ma se non possedete un tocco di mistico, il successo materiale alla fine diventerà del tutto noioso, e ve ne stancherete. Dall’altro lato ci sono persone puramente spirituali, che vivono in un mondo asciutto, dove il lusso è stato completamente eliminato, e sono molto impegnate. Quando ci troviamo di fronte a una persona troppo spirituale, ci viene da sederci in punta di sedia. Non siamo a nostro agio.

È sempre sconvolgente per chi è cresciuto in un ambiente occidentale scoprire che in Oriente i grandi maestri spirituali sono spesso piuttosto voluttuosi. Non possono essere materialisti nel senso più comune della parola, ma non possono neppure essere completi edonisti e sfruttare il mondo a loro piacimento. Il mondo è troppo meraviglioso per comportarsi così. Gli esseri umani, per esempio, sono troppo magnifici per poter essere trattati come semplici oggetti sessuali. Una persona può essere molto sensuale, ma gli esseri umani sono anche così meravigliosi che bisogna fermarsi e immergersi nella pienezza della loro splendida personalità, oltre che nelle loro qualità sensuali.

In Occidente il problema della sensualità è ricorrente. Per esempio, il sacerdote della nostra chiesa è molto bravo e viene lodato, considerato un esempio, poi all’improvviso si verifica uno scandalo terribile, come una relazione con la sua segretaria.

Quando ciò accade, in Occidente si tende a pensare che tutto sia perduto, la fede si è persa e tutto andrà in rovina, solo perché il sacerdote non era una persona puramente spirituale ma aveva anche un lato sensuale nascosto. In Occidente si vede spesso questo tipo di estremismo – eccessivo materialismo o eccessiva spiritualità – perché per noi lo spirituale e il materiale si escludono a vicenda. Ma nel terzo mondo del dharma, il riji muge, capiamo che non vi è alcuna separazione tra ciò che è spirituale e ciò che è materiale.

Il traguardo raggiunto da questo mondo potrebbe sembrare il più alto possibile. Ma c’è ancora un mondo, chiamato jiji muge. All’improvviso il ri, il mondo dell’unità, è scomparso, ma tra ji e ji – particolare e particolare – continua a non esserci alcuna ostruzione. Tra un evento e qualsiasi altro non esiste mutua esclusività, nulla che abbia bisogno di essere unificato alla base. Questa è la dottrina più alta del buddhismo mahāyāna. È l’idea della compenetrazione reciproca o interdipendenza tra tutte le cose. Il suo simbolo è la rete di Indra, il cui principio è elaborato nell’Avatasakasūtra.

Immaginate, all’alba, una ragnatela multidimensionale ricoperta di rugiada, una rete immensa che rappresenta il cosmo intero. Esiste in quattro, cinque, sei o più dimensioni diverse, e a ogni intersezione ci sono perle di rugiada color arcobaleno su cui si riflettono tutte le altre gocce di rugiada, e di conseguenza anche i loro riflessi, e anche i riflessi dei riflessi, e così via all’infinito.

Questa è la visione mahāyānista del mondo. Nulla, nessun evento, può esistere senza ogni altra cosa ed evento. Ogni evento implica tutti gli eventi; ogni evento – l’intero universo, passato, presente e futuro – dipende da ogni singolo evento o cosa. È facile dire «io dipendo dall’universo. Non potrei esistere se non esistesse anche tutto il resto». È più difficile comprendere il corollario, ossia che l’intero universo dipende da noi. «Dopotutto – potreste rispondere – prima che io nascessi l’universo c’era già, e quando morirò sono sicuro che andrà avanti. Come si può dire, quindi, che l’intero universo dipende da me?». È molto semplice: senza i nostri genitori, non saremmo mai nati. Per farci esistere era necessario che esistessero i nostri genitori. Tale necessità non cambierà quando moriranno. Di conseguenza, noi dipenderemo dai nostri genitori anche quando se ne saranno andati. Allo stesso modo l’universo dipenderà ancora da noi, dal nostro essere stati qui, anche quando scompariremo. E se non fossimo ancora nati, dipenderebbe dal nostro futuro arrivo. Il fatto che esistiamo ci dice qualcosa sul tipo di universo in cui viviamo: un tempo ci ha prodotti. Noi siamo un sintomo del tipo di universo nel quale viviamo, proprio come una mela è sintomo di un certo tipo di albero. Ci dice qualcosa riguardo a quell’albero, a qual è la sua funzione. L’esistenza di un mondo che produce tizio o caio, nessuno in particolare, che non viene neppure ricordato da qualcuno, dipende tuttavia da lui, malgrado il suo anonimato, proprio come dipende da ogni moscerino e ogni vibrazione delle ali di un moscerino, e da ogni minuscolo elettrone in ognuna delle ali del moscerino, da ognuna delle sue manifestazioni – per quanto brevi possano essere.

Ciò che voglio dire è che ogni cosa che esiste implica tutto il resto, e tutte queste altre cose, insieme, nella loro totalità – che noi chiamiamo universo – a loro volta implicano ogni singolo oggetto ed evento. Questo è il significato della rete di Indra. Se abbiamo una catena e tiriamo su un anello, tutti gli altri anelli saliranno di conseguenza, e nello zen questo si chiama «prendere un filo d’erba e usarlo come un buddha dorato alto cinque metri». Non esistono gli eventi singoli e separati. L’unico evento singolo possibile è la somma di tutti gli altri eventi. Questo potrebbe essere considerato l’unico atomo possibile; l’unica cosa singola possibile è il tutto. Le manifestazioni dell’universo che noi chiamiamo cose si implicano tutte a vicenda. Sappiamo cosa sappiamo solo in rapporto a cosa non siamo. Abbiamo la percezione del sé solo in rapporto a una percezione dell’altro. Il sé implica l’altro come il retro implica il fronte. Per lunga o breve che sia, tutto dipende dalla nostra vita. Se noi non fossimo mai stati, nulla accadrebbe. Il mondo intero porta la nostra firma, e non sarebbe lo stesso mondo se noi non ci fossimo.

Avete mai sentito parlare della fallacia patetica? È un’idea che risale al XIX secolo secondo la quale è falso e illegittimo proiettare i sentimenti umani sul mondo. Il vento tra i pini non sta sospirando; siamo noi a proiettare il sospiro sul suono. Il sole non è felice; siamo noi a proiettare la nostra felicità sul sole che splende. Il sole non ha sentimenti, non è umano. Il poeta potrebbe dire: «La luna si guarda attorno deliziata quando il cielo è limpido», ma una persona logica risponderebbe: «No, è il poeta a guardare deliziato la luna nel cielo limpido». È terribile. Se fosse vero, sarebbe meglio bandire la poesia dal mondo. Ma in realtà la luna si guarda davvero attorno deliziata quando lo fa il poeta, perché lo stesso mondo che si manifesta come luna si manifesta anche come poeta. Sono la stessa cosa. Un mondo in cui esiste la luna implica un mondo in cui esiste un poeta. Un mondo in cui esiste un poeta implica un mondo in cui esiste la luna. Quindi, attraverso l’azione del poeta, si può benissimo dire che la luna si guarda attorno deliziata. Non si può separare il poeta dalla luna senza distruggere l’universo, così come non si possono separare mani e piedi senza distruggere il corpo. In questo senso il mondo intero è un mondo umano. Non dobbiamo prendere sul serio la sciocca idea della fallacia patetica, secondo la quale al di fuori della nostra pelle tutto è inumano – un ammasso di forze mute e cieche – e che il mondo umano è racchiuso solo dentro la pelle. Tutto il mondo è umano, e dipende non solo dall’esistenza dell’umanità in generale ma anche da ogni singolo individuo in particolare.

Il mondo intero è coperto, per così dire, dalla nostra firma personale. Tuttavia, nel momento in cui ci consideriamo fondamentali per l’esistenza dell’universo, comprenderemo anche l’opposto: che la nostra singola personalità non è nulla senza l’esistenza di tutto il resto e di tutti gli altri. Perché per poter essere Alan Watts ho bisogno di tutti gli altri esseri umani, compresa la loro incontrollabile alterità. Saranno loro stessi qualunque cosa io faccia, e dipendo da tutte le loro differenze rispetto a me, e anche loro dipendono dalla mia differenza da loro. Mi trovo quindi in una posizione molto buffa. Nel momento in cui volessi annullare il mio ego e dicessi «io non sono niente senza di voi», scoprirei che sono il fulcro di tutto: tutti dipendono da me. E se mi montassi la testa all’idea di essere il fulcro, scoprirei che non sono nulla senza gli altri. Non appena pensiamo di trovarci in uno stato, quest’ultimo si trasforma nel suo opposto. Questo è il jiji muge, il quarto mondo del dharma. In esso tutti sono il capo e nessuno lo è. Il mondo si occupa di sé stesso. In questo senso è una gigantesca democrazia, e ogni uomo, ogni usignolo, ogni lumaca è re e suddito al tempo stesso. È così che funziona.

Non esiste un re assoluto. Gli induisti hanno quella che per noi è un’idea molto strana, chiamata īśvara. Si tratta del dio supremo personale, l’essere superiore del mondo dei deva. Anche molti buddhisti credono in questo dio o governatore dell’universo, ma lo ritengono inferiore a un buddha perché, come tutti gli dei e tutti gli angeli, ma a differenza di un buddha, fa ancora parte del circolo dell’essere e quindi un giorno si dissolverà nel nulla. È un’idea molto strana per noi. I buddhisti credono in questo dio supremo, ma non credono che sia particolarmente importante. Nel buddhismo non esistono santuari per īśvara.

È dunque questa idea della compenetrazione e interdipendenza reciproca di tutte le cose a rappresentare la base filosofica dello zen come stile di vita pratico e non intellettuale. Perché gli eventi o gli oggetti più ordinari – un braciere, un materasso, la zuppa della cena, uno starnuto, il lavarsi le mani, l’andare in bagno – implicano tutti l’unità dell’universo, malgrado siano separati. Ecco perché i seguaci dello zen usano eventi qualsiasi per dimostrare i principi cosmici e metafisici. Tuttavia, non li razionalizzano in questo modo. Vedere l’infinito in un granello di sabbia e l’eternità in un’ora fa ancora parte del riji muge, e non del jiji muge. Il jiji muge si verifica quando offriamo a qualcuno il granello di sabbia senza pensare all’eternità. Non vi è alcuna differenza tra il granello di sabbia e l’eternità. Non bisogna pensare che il granello di sabbia implichi l’eternità. Il granello è l’eternità. Esattamente allo stesso modo, il fatto che in questo momento siamo seduti qui non è diverso dal nirvāa. Siamo nel nirvāa proprio qui in questo momento. Non è necessario fare alcun commento filosofico sul granello di sabbia o sul fatto di essere seduti qui. I commenti sono superflui quanto le gambe per un serpente o la barba per un eunuco. Dare le gambe a un serpente lo metterebbe in imbarazzo, e un eunuco non ha bisogno della barba. Noi diciamo «non strafare», lo zen dice «non mettere il ghiaccio sopra la neve».

Ogni attività specificamente religiosa è come le gambe per un serpente. Alla fine la religione verrà eliminata, proprio come, quando ogni individuo diventerà capace di autogovernarsi e di relazionarsi adeguatamente con il prossimo, lo stato scomparirà. Ecco perché in Apocalisse, nel Nuovo Testamento, si dice che in paradiso non esistono templi. Tutto il cielo sarà un tempio. In modo simile, quando il buddhismo sarà completamente realizzato, non esisterà nessun Buddha, nessun tempio, nessun gong, nessuna campana, perché il mondo intero è il suono di una campana, e l’immagine del Buddha è ogni cosa che vediamo.

Una volta a un maestro zen chiesero: «Le montagne e le colline non sono forse tutte forme del corpo del Buddha?». Ed egli rispose: «Sì, è così, ma dirlo è un peccato».