5

La saggezza delle montagne

Questo capitolo riguarda un argomento un po’ estraneo alla comprensione di noi occidentali. Alcune forme di buddhismo mahāyāna, viste dall’esterno, ci appaiono del tutto irrazionali e basate sulla superstizione. Ciò vale soprattutto per una branca che ha diversi nomi: vajrayāna, tantrayāna o mantrayāna.

La parola yāna indica un mezzo o un veicolo. Come ho già detto, il buddhismo viene spesso paragonato a una zattera usata per attraversare un fiume, o a un mattone usato per bussare a una porta. Il mattone è uno yāna, così come la zattera. Sono strumenti, espedienti, mezzi, tecniche, metodi. In sanscrito la dottrina del Buddha si chiama dharma, parola che ha molteplici significati, uno dei quali è «metodo»; talvolta viene resa con «legge», ma non è una traduzione corretta.

Il concetto di yāna è legato all’idea degli upāya, ossia «mezzi abili». Potremmo chiamarli espedienti o stratagemmi pedagogici, a seconda dello scopo per cui li usiamo. In politica un upāya è una macchinazione, ma in religione o filosofia indica l’abilità di un maestro nel trasmettere una lezione a uno studente. L’essenza dell’upāya è la sorpresa. Quando abbiamo il singhiozzo, ci coglie di sorpresa perché non era nostra intenzione averlo. L’upāya e la sorpresa sono profondamente connessi al significato più profondo del buddhismo. La vita deve sorprendere sé stessa, perché se non lo facesse non sapremmo neppure di esistere. Conosciamo la nostra esistenza solo nella misura in cui esiste un equilibrio tra sapere e non sapere. Quindi in noi deve sempre esserci qualcosa di simile a un singhiozzo spirituale, che accade senza la nostra volontà e ci coglie di sorpresa.

Un upāya è il modo in cui un insegnante provoca nello studente la sorpresa dell’illuminazione utilizzando uno yāna, ossia un veicolo o un corso. Si parla spesso di corsi di filosofia, semantica o chimica. Il grande corso del buddhismo è il mahāyāna, che comprende moltissimi upāya – metodi di istruzione – diversi. Al contrario, il buddhismo hinayāna, il piccolo corso, ha solo pochi upāya, perché i suoi seguaci hanno una mentalità molto chiusa. Sono convinti che qualsiasi illuminazione dipenda da uno sforzo individuale. Pare che il Buddha, poco prima di morire, abbia detto: «Siate una lampada per voi stessi; siate un rifugio per voi stessi. Non abbiate rifugio al di fuori di voi».

In uno dei sistemi di classificazione giapponesi, le scuole buddhiste vengono chiamate jiriki o tariki. Ji significa «sé». Riki significa «potere». Esistono vie per la salvezza e la liberazione che sono in nostro potere, jiriki, e altre che dipendono dal potere di altri, tariki. Tariki indica una liberazione attraverso quella che il cristianesimo chiamerebbe grazia, anziché attraverso l’impegno. È affascinante osservare come la questione della grazia e dell’impegno personale appaia nel buddhismo come nel cristianesimo.

Nella storia della cristianità, intorno al 400 d.C. vi fu un forte contrasto tra un gallese o celta di nome Pelagio e sant’Agostino d’Ippona. Pelagio era un britannico ottimista, del tipo che crede nell’improvvisazione, nel mettersi in gioco, nel lavorare sodo. Era convinto che con la forza di volontà e l’impegno si potesse obbedire agli ordini di Dio, e affermava che Lui non ci avrebbe mai dato dei comandamenti che non fossimo stati in grado di seguire. Ma secondo sant’Agostino Pelagio si sbagliava: se avesse letto bene gli scritti di san Paolo – soprattutto la Lettera ai Romani – avrebbe scoperto che Dio non ci ha dato delle regole perché le seguissimo, ma per dimostrare che non potevamo farlo. Come dice san Paolo, Dio ci ha dato comandamenti a cui è impossibile obbedire per mostrarci il peccato. In altre parole le leggi erano uno stratagemma, un upāya. Non ci si aspettava che seguissimo regole come «Amerai il Signore Dio tuo con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima, con tutta la tua forza, con tutta la tua mente». Nessuno può fare una cosa del genere. Di conseguenza, anche gli uomini più santi si fustigano e confessano di essere grandissimi peccatori, perché non possono eseguire gli ordini di Dio. Ecco perché san Paolo insegnava che la legge è un pedagogo che ci conduce a Cristo. Pedagogo ha lo stesso significato di upāya.

I buddhisti erano arrivati a conclusioni simili. Nei suoi primi insegnamenti, il Buddha appariva piuttosto inflessibile. Diceva: «Sentite, fareste meglio a disciplinarvi. Andate a lavorare e rinunciate alle donne, all’alcol e ai possedimenti materiali, cominciate a meditare e controllate la vostra mente». Tutti ci provarono, e ovviamente quasi tutti fallirono. Alcuni ci riuscirono, ma poi si consumarono: scoprirono che il loro successo era una vittoria di Pirro; non era valsa la pena sopprimere la propria umanità e le proprie emozioni. È come decapitarsi per curare il mal di testa. Capirono che la forza di volontà e l’obbedienza non sono la via per la liberazione e che il Buddha aveva affermato il contrario solo perché se ne rendessero conto.

Le nuove scuole buddhiste sostengono che ci si liberi tramite la grazia, o tariki, il potere che abbiamo in noi e che non è il nostro ego. È lo stesso potere che ci fa battere il cuore: non batte per volontà del nostro ego. Usando un linguaggio junghiano per parlare della grazia, potremmo dire che quando si lavora sull’inconscio, quando lo si annaffia e lo si nutre, alla fine sarà proprio l’inconscio – e non l’ego – a conciliare i due aspetti o poteri del sé, e ci renderemo conto che conscio e inconscio – il potere dell’ego unito a quello dell’organismo naturale, o psiche – sono parte di noi.

In modo simile, in ogni tipo di arte, è possibile sperimentare un esaurimento della volontà, quando abbiamo provato tutto e nulla ha funzionato. Per raggiungere la perfezione o il completamento, nell’arte deve accadere qualcosa di indipendente dalla volontà. A questo qualcosa diamo vari nomi, come grazia o ispirazione. In realtà è tariki. Tutti vorrebbero sapere come far sì che accada, ma se lo sapessimo non sarebbe una grazia. È proprio perché non sappiamo come accade che riesce a oltrepassare i limiti della volontà. Ma il fatto che non siamo in grado di farlo succedere non significa che dobbiamo rinunciare e lasciar perdere tutto. Esiste un’alternativa: possiamo coltivare la nostra fede.

La fede implica che sappiamo che la grazia arriverà, solo che non sappiamo quando, e possiamo solo aspettare. Ma non dobbiamo lavorare troppo sull’attesa, perché sarebbe uno sforzo dell’ego, che impedirebbe alla grazia di verificarsi. Bisogna imparare ad aspettare con leggerezza, in uno stato di totale apertura. Come si fa? Esiste tutta una serie di upāya o mezzi che possono aiutarci, uno dei quali è la pratica comunemente chiamata vajrayāna, che significa «veicolo di diamante/adamantino», oppure tantrayāna, ossia «veicolo della rete», o ancora mantrayāna, «veicolo del suono», nel senso di incanto.

Quest’ultimo, dal nostro punto di vista, risulta il più misterioso. Secondo una credenza antica certe formule o incantesimi, pronunciati nel modo giusto, produrranno dei risultati. Filosoficamente ciò deriva – per quanto riguarda l’Asia – dalle teorie delle upaniad induiste, secondo le quali il mondo è stato creato dal suono. Per gli induisti in principio c’era il vāc, che corrisponde esattamente a «in principio era il Verbo», come nel Vangelo di Giovanni. Ma vāc non significa «logos» come nel Vangelo, bensì vibrazione. Equivale fondamentalmente alla parola sanscrita o. La pronuncia del termine «o» comincia nella parte posteriore della bocca per finire sulle labbra, comprendendo quindi l’intera gamma del suono creatore del mondo. O è il più santo di tutti i nomi: se cantiamo «o», possiamo davvero dare una svolta alle cose.

Tutti i buddhisti, come gli induisti, usano questa parola per indurre uno stato di meditazione. È molto semplice concentrarsi sul suono; è molto più difficile tenere lo sguardo fisso. Ma sul suono è facile concentrarsi, e questo è lo scopo di un mantra: è un metodo per scavare nel suono, e con «scavare» intendo «arrivare a fondo». Quando lo facciamo, ci rendiamo conto che il suo flusso, o vibrazione, è un modo per sperimentare l’esistenza fondamentale, il semplice essere qui. Dal suono possiamo imparare ogni cosa, perché non è costante: viene e va, comincia e finisce. Lo udiamo solo perché vibra; la lezione da imparare è che la vita viene e va, è bianca e nera, vita e morte, dentro e fuori, sapere e non sapere: sono tutte vibrazioni. È facile spiegarlo a parole, ma per sentirlo e comprenderlo intimamente bisogna imparare ad ascoltare il suono. Il canto è stato inventato proprio per questo.

Il buddhismo vajrayāna nacque intorno al IX secolo in India per poi diffondersi in Tibet, Mongolia, Cina e Giappone, ma è caratteristico soprattutto del buddhismo tibetano.

Esistono diversi modi per comprendere le parole e le formule usate per i mantra. Un ignorante li considererebbe scorciatoie: anziché pronunciare l’intero sūtra, possiamo riassumerlo in formule come «o mai padme hū». Questo è uno dei modi per comprendere i mantra. In questo modo, per pura compassione, i bodhisattva hanno trovato un modo per far sì che anche i poveri e gli ignoranti possano arrivare al nirvāa. Anziché affrontare tutti gli sforzi eroici e le pratiche di meditazione di quei santi e saggi, possiamo dire semplicemente «o mai padme hū». Anzi, non c’è neppure bisogno di dirlo, possiamo stamparlo su carta e tenerlo chiuso in una scatoletta d’argento attaccata a un bastoncino, e tutto ciò che dovremo fare sarà farla oscillare. Quindi l’idea popolare del veicolo del suono – il mantrayāna – è che si tratti di una scorciatoia.

L’idea più elevata del mantrayāna è invece quella che ho già sottolineato, ossia l’utilizzo di queste formule e suoni per concentrarsi e poter apprendere le lezioni della vita. Ma c’è anche una terza interpretazione, che potrebbe essere chiamata esoterica. Pare sia stata ideata da Vasubandhu, vissuto intorno al 400 d.C.: a suo dire, il senso dei mantra è che non significano assolutamente nulla. La parola o è priva di qualsiasi significato, e tutti i vari tipi di incantesimi sono privi di senso. Ripeterli serve soltanto a liberarsi dell’idea che l’universo abbia un significato.

Ora che abbiamo analizzato la via per la grazia chiamata mantrayāna, passiamo al tantra.

Tutte le forme di buddhismo associate con il vajrayāna vengono chiamate «tantriche». La parola «tantra» significa «struttura a rete», ossia trama e ordito. Nel contesto induista si tratta di una disciplina talvolta chiamata «il quinto Veda». Esistono quattro Veda, i testi sacri fondamentali dell’induismo; il quinto Veda è quello esoterico. Secondo i quattro Veda, per essere liberati, dobbiamo rinunciare alla vita fisica: non mangiare carne, non avere rapporti sessuali, non assumere alcol né altre sostanze che alterino la coscienza e così via, con molti altri precetti che ho dimenticato. Al contrario l’idea del tantra è che la liberazione avvenga attraverso il contatto con le cose proibite; si ottiene tramite l’appartenenza e la partecipazione al mondo. Talvolta questo concetto viene chiamato «via della mano sinistra».

Una storia induista racconta che a Brahma chiesero: «Chi entrerà per primo in comunione con te, chi ti ama o chi ti odia?» e lui rispose: «Chi mi odia, perché mi pensa più spesso».

In altre parole possiamo arrivare alla liberazione con un altruismo totale, ma anche con un completo egoismo. Se siamo del tutto e costantemente egoisti – se spingiamo l’egoismo all’estremo – scopriremo che il nostro sé è l’altro, che non possiamo fare esperienza di noi stessi se non attraverso gli altri. Questo è lo scopo della via della mano sinistra: portarci all’estremo. È però un modo pericoloso di affrontare le cose, perché nessuno lo approva.

Molti anni fa io e mio padre siamo andati a vedere una commedia teatrale. Un uomo dormiva in una stanza molto vittoriana, piena di elementi decorativi elaborati. Quando la sveglia suonò, l’uomo aprì gli occhi infuriato. Afferrò una scarpa e distrusse la sveglia; si alzò rabbiosamente e strappò le lenzuola, rovesciò il letto, trovò un martello e cominciò a rompere tutti gli oggetti e le finestre finché non fece tutto a pezzi, a parte un’enorme lampada da terra rimasta in un angolo. Era l’unica cosa rimasta intatta nella stanza. Vedendola lì indifesa, l’uomo si arrabbiò ancora di più, corse a prenderla e la sbatté sul pavimento. E la lampada rimbalzò. Non si ruppe: era di gomma.

Ecco la sorpresa di cui parlavo prima, il satori, il risveglio improvviso. La lampada che rimbalza. È questo il senso del buddhismo: pensiamo tutti che prima o poi cadremo a pezzi, dobbiamo pensarlo, altrimenti non ci sarebbe la sorpresa quando rimbalziamo.

In altre parole se portiamo l’egoismo all’estremo, se seguiamo la via della mano sinistra, se esploriamo tutte le sensazioni che riusciamo a immaginare – tutte le gioie del piacere, l’estasi, l’ebbrezza, gli orgasmi – che cosa potremmo volere di più? Diremo: «Voglio rimbalzare. Voglio poter uscire da me stesso». Quando siamo egoisti e riusciamo a uscire da noi stessi, quell’egoismo diventa altruismo. «Perché chi vorrà salvare la sua vita, la perderà; ma chi avrà perduto la sua vita – o l’avrà liberata – la troverà». Che prendiamo la via della mano destra oppure quella opposta, arriveremo tutti alla stessa destinazione.

Allo stesso modo l’arduo cammino della disciplina meditativa o concentrazione – in cui il discepolo viene controllato e minacciato con un bastone – porterà allo stesso obiettivo. Esistono alcune persone che dovrebbero seguire questa strada. Non sanno di esistere se non soffrono, e quindi il cammino più difficile è la via giusta per loro. Non dobbiamo criticare né loro né il cammino che hanno scelto.

All’estremo opposto di questo arduo cammino c’è il gioco dei mantra. Chi lo sceglie afferma: «È facilissimo. È una scorciatoia» e ci si immerge, per esempio cantando «o mai padme hū». Oppure, come gli amidisti giapponesi, canta: «Namu Amida Butsu, Namu Amida Butsu, Namu Amida Butsu, Namu Amida Butsu, Namu Amida Butsu», finché non si trasforma in «namanda, namanda, namanda, namanda, namanda», e all’improvviso è il canto a cantare loro. Che differenza c’è tra il canto e chi canta, il sé e l’altro, il nostro potere e il potere degli altri, jiriki e tariki? Sono la stessa cosa. Fingiamo che non lo siano perché vi siamo costretti per avere una sensazione di esistenza.

Alcuni dipinti tibetani molto intensi, se li si guarda attentamente, riescono a creare una condizione mentale che potrei definire solo come psichedelica. A mano a mano che notiamo i dettagli, scopriamo che sono davvero incredibili. Se ne scegliamo uno, anziché diventare indistinto si fa sempre più chiaro e vivo. All’improvviso ci rendiamo conto che quella che ci sembrava solo una macchia erano in realtà sedicimila vermi con occhi vividi, e ogni occhio è un gioiello prezioso. Se osserviamo meglio quei gioielli, troveremo al loro interno dei buddha con le gambe incrociate e l’aureola, con collane di teste umane. E se guardiamo meglio quelle teste, per Giove, vedremo che in ogni singolo occhio c’è un altro buddha.

Lo stato mentale che quegli artisti cercano di rappresentare tramite tale miriade di dettagli è il dharmadhātu, il campo del dharma o della realtà, che viene anche descritto come la rete di Indra di cui abbiamo già parlato. Ancora una volta, si tratta di una rete di gioielli che si riflettono l’uno nell’altro, e quindi contengono i riflessi dei riflessi di tutti gli altri gioielli, e così via. È un’immagine che rappresenta l’interconnessione, o «mutua penetrazione», di tutto ciò che esiste nell’universo. I dipinti tibetani sono pensati per aiutarci a comprendere questa interconnessione, e risultano davvero affascinanti.

La possibilità di osservare qualcosa in profondità non si esaurisce mai. Lavorando sui mantra si può imparare a trovare questa infinita profondità anche nei suoni: così come possiamo dire che un campo visivo è ricco di dettagli, ad esempio in quei quadri o in uno splendido tessuto indiano di seta pieno d’oro e di fiori di cui si notano tutti i particolari, allo stesso modo possiamo ascoltare un suono. La musica induista si basa proprio su questo, e una volta che lo comprendiamo a fondo potremo davvero ascoltare l’universo. E se ascoltiamo i suoni o guardiamo le forme in questo modo, ne scopriremo i segreti.

Questa tecnica è un altro modo per studiare la vita. È paragonabile alle nostre ricerche scientifiche con i microscopi, le analisi chimiche e così via, che si concentrano sulla materia, sul mondo fisico. Il metodo per indagare i suoni e i dipinti va nella direzione opposta: si concentra sulla natura delle percezioni, sul centro della consapevolezza, sul sé. I disegni tibetani rappresentano il mondo interiore da diversi punti di vista. Illustrano il mondo che tutti abbiamo dentro, osservato tramite le tradizioni di una cultura che non è la nostra, e che quindi ci sembra un po’ strana. Ci mostrano un’idea dell’universo che non abbiamo mai visto prima, perché il modo in cui vediamo è influenzato e limitato dalla nostra cultura. Ciò che chiamiamo normale è quello a cui siamo abituati. Di conseguenza, studiando le forme d’arte di altri popoli, impariamo a vedere cose che di solito non notiamo. Quando ci abituiamo ai dipinti cinesi o tibetani, per esempio, pensiamo: «Ma certo. Anche questa è una rappresentazione del mondo».

Una certa cosa appare esotica quando la guardiamo dal punto di vista di qualcun altro, ma alla fine ci abituiamo a essa. Se ci spostiamo in uno stato mentale come quello che ho cercato di descrivere, non si tratterà di quello a cui siamo avvezzi, e ci sembrerà strano. Se non siamo preparati potremmo spaventarci e pensare di impazzire. Beh, è proprio così. Stiamo uscendo dal nostro solito stato mentale per esplorare un altro aspetto della mente, e all’inizio ciò appare sempre strano. Ecco perché la gente trova difficile meditare. Quando iniziano a fare progressi, spesso dicono: «Uscirò di senno». Ci sono storie celebri di persone che si sono messe a pensare alla natura del pensiero e di cui non si è saputo più nulla. Vi è una certa paura di perdere il proprio ego e il proprio mondo normale, perché i gesti familiari ci fanno sentire a casa. In tutti noi esistono livelli di vibrazioni a cui non siamo abituati e che quindi ci spaventano, e sono proprio questi i livelli che raggiungiamo quando usciamo dal nostro solito stato mentale.

Il buddhismo vajrayāna è un’esplorazione piuttosto avventurosa, per non dire pericolosa, della coscienza intima dell’uomo. I risultati di tale indagine vengono descritti artisticamente in un elaborato sistema di simboli. Per un occidentale abituato al simbolismo cristiano, queste rappresentazioni dell’interiorità ricordano quelle del paradiso, con i potenti in trono che ricevono l’omaggio e cose simili.

Supponiamo di guardare in un microscopio una sezione della colonna vertebrale o una parte del cervello: vedremo certi schemi e motivi basati sul corpo fisico. Questi motivi equivalgono ai simboli che si trovano nei dipinti e disegni tibetani, ma vanno nella direzione opposta. I primi si basano sul corpo materiale, i secondi sul corpo sottile.

In sanscrito la parola rūpa indica il corpo materiale. Viene applicata al mondo concreto, quello della forma, quello che siamo abituati a vedere. Noi abbiamo un corpo materiale, che è come appariamo a qualsiasi osservatore oggettivo, e un corpo sottile, che è come sentiamo di essere. Se esageriamo con l’alcol, ci svegliamo con l’emicrania e la testa ci sembra grande come la stanza, quella è la forma del nostro corpo sottile in quel momento.

Esiste un fumetto meraviglioso in cui il protagonista osserva il volo acrobatico di un aereo, e il suo collo si allunga sempre di più a mano a mano che la testa segue le acrobazie, finché il collo non si è tutto annodato. Questa è una rappresentazione della forma del corpo sottile di quel personaggio.

Quindi, se guardiamo una sezione della colonna vertebrale al microscopio, vedremo un disegno che riguarda il corpo grossolano. E se guardiamo nella direzione opposta e risaliamo fino al manovijñāna – il senso centrale che sta alla base di ogni singolo senso – scopriremo che questo processo provoca un’esperienza incredibilmente dettagliata. Se provassimo a rappresentare con un’immagine ciò che abbiamo scoperto, ci ritroveremmo a disegnare una sezione del corpo sottile. In Occidente la riprodurremmo in modo diverso rispetto ai tibetani, se davvero ci impegnassimo in questa ricerca, perché abbiamo tradizioni diverse. Solo Dio sa che cosa verrebbe fuori. Probabilmente creeremmo qualcosa di simile alle vetrate della cattedrale di Chartres, e anche un crocefisso, perché se indaghiamo le sensazioni a fondo finché non diventano sempre più intense – sempre di più, fino a farci pensare di non poterle più sopportare – troviamo Gesù sulla croce. Basterà quindi coprirlo di gioielli e renderlo meraviglioso.

Tutte queste tecniche sono studi sulla condizione fondamentale dell’essere vivi. La gente è curiosa riguardo alle domande che emergono: dove siamo; che senso ha tutto questo? Uno dei pochi modi per rispondere a queste domande – per scoprire cosa vuol dire per noi «avere un senso», cosa significano le nostre domande, l’essere coscienti, l’essere qui – è meditare. Tuttavia meditare non significa pensare a una risposta in modo intellettuale, bensì osservare più attentamente l’oggetto della nostra domanda. Potremmo farlo con un microscopio, con delle analisi chimiche eccetera, e sarebbe un metodo valido, ma dovrà anche essere bilanciato da una ricerca interiore sulle nostre sensazioni, sulla nostra coscienza. Non è una cosa che «dobbiamo fare», non è un obbligo o un dovere solenne. Semplicemente, è meraviglioso osservare pieni di fascino, gioia e amore ciò di cui noi e tutti gli altri siamo fatti.

Ma questa «osservazione» si allontana dallo spirito religioso a cui siamo abituati. Non è un atteggiamento patriarcale, secondo il quale dobbiamo leggere la Bibbia, inginocchiarci e pentirci. Al contrario ci suggerisce: «Ehi, devo mostrarti una cosa. Guarda qui. Osserva». È questo l’atteggiamento, e non saprei come spiegarlo se non confrontando i due diversi approcci.

Non penso di poter descrivere ulteriormente il significato interiore del tantra. È un atteggiamento che induismo e buddhismo hanno in comune. Implica la rete, la trama e l’ordito, il sì e il no. È la comprensione dell’unità degli opposti, del bene e del male, della vita e della morte, dell’amore e dell’odio, di tutti gli estremi dello spettro delle nostre emozioni e percezioni.

Non è un insegnamento adatto ai bambini; per comprendere questa lezione è necessario avere una certa maturità. Un bambino che ascoltasse questo insegnamento smetterebbe di rispettare le regole e le costrizioni, perché capirebbe solo che tutto passa: non possiamo sbagliare se siamo tutto ciò che esiste, sempre. Possiamo anche morire, dimenticare tutto, che importa? Dall’altra parte dell’oscurità c’è sempre la luce. Si può sempre ricominciare. Questa sarebbe la reazione di un bambino a tali insegnamenti. Ma l’adulto capirebbe che, anche se tutto ricominciasse da capo, si ripeterebbero sempre gli stessi schemi. Tutto sarebbe di nuovo esattamente com’era prima, proprio come le forze fisiche seguono sempre le stesse leggi fondamentali. Ciò che avviene nel mondo esterno, avviene anche in quello interiore.

L’illuminazione buddhista consiste semplicemente nel conoscere il segreto dell’unità degli opposti – l’unità tra mondo esterno e mondo interiore – e nel comprendere quel segreto come un adulto anziché come un bambino. Significa crescere davvero, finalmente. Fraintendere questo insegnamento vuol dire cadere in trappola: così come nella nostra cultura molte persone religiose finiscono per opporre resistenza alla vita, nel buddhismo la trappola è quella di seguire gli insegnamenti senza comprenderli. Come disse Saraha, un maestro tantrico vissuto intorno all’anno 1000, nella critica all’ortodossia induista e buddhista:

I brahmani che non conoscono la verità recitano invano i quattro Veda. Preparano dei composti con la terra, l’acqua e l’erba kuśa. Seduti a casa, accendono il fuoco. Si bruciano gli occhi con il fumo pungente delle loro offerte insensate. Vestiti da signori, con uno o tre domestici, si credono saggi conoscitori della legge brahmanica. Il mondo è vanamente schiavo della loro vanità. Non sanno che il dharma e il non dharma sono la stessa cosa. Si cospargono il corpo di cenere. Hanno i capelli ingarbugliati. Seduti in casa, accendono lampade. Seduti in un angolo, suonano campanelle. Adottano una certa postura e guardano nel vuoto, sussurrando nelle orecchie della gente e ingannandola, istruendo vedove e monache calve, e ricevendo le loro offerte.

I monaci giainisti ingannano con il loro aspetto, con le unghie lunghe e i vestiti sporchi, oppure stando nudi, con i capelli rasati; si rendono schiavi con la loro dottrina della liberazione. Se ci si potesse liberare con la nudità, i cani e gli sciacalli sarebbero liberi. Se la perfezione derivasse dall’assenza di peli, le gambe delle donne sarebbero perfette. Se la liberazione derivasse dall’avere una coda, allora il pavone e lo yak sarebbero liberi. Se la saggezza consistesse nel mangiare solo quel che si trova, la possiederebbero anche gli elefanti e i cavalli. Per i monaci giainisti non esiste la liberazione. Privi della vera felicità, non fanno altro che tormentare il loro corpo.

Saraha continua:

Poi ci sono i novizi e i bhikku – ossia i monaci buddhisti – che seguono gli insegnamenti dell’antica scuola del buddhismo theravāda, e per essere monaci rinunciano al mondo. Alcuni leggono le scritture, altri si consumano concentrandosi sul pensiero, altri ancora fanno ricorso al mahāyāna, la dottrina che a quanto dicono spiega il testo originale. Altri si limitano a meditare sui cerchi mandala, o cercano di trovare una definizione per i quattro stadi della beatitudine. Con tali sforzi perdono completamente di vista la strada. Alcuni la immaginano come lo spazio, altri la fanno coincidere con la natura del vuoto, e quindi in genere si trovano in disaccordo. Ma chiunque cerchi il nirvāa rinunciando a ciò che è innato e aggrappandosi a questi veicoli, a questi metodi, non potrà mai trovare la verità assoluta. Se ci si concentra sul metodo, come si può arrivare alla liberazione? Ci si può forse liberare continuando a meditare? A cosa servono le lampade o le offerte? Che cosa bisogna fare quando ci si affida ai mantra? A cosa servono le ristrettezze o i pellegrinaggi? Ci si può liberare bagnandosi con l’acqua? No. Abbandonate i falsi vincoli e rinunciate alle illusioni.

E questa è la saggezza delle montagne.