«Così, ci chiedevamo se...»
Il tono di Jared era esitante e incerto, come se non fosse sicuro di dover esprimere i suoi pensieri ad alta voce.
Travis era rimasto sconvolto da quanto era successo con Diana poco prima. Lei aveva completamente frainteso. Non aveva capito per quale motivo era giunto alla conclusione che loro due erano fatti l’uno per l’altro.
Naturalmente si rendeva conto che il suo improvviso cambiare opinione sulle relazioni sentimentali e sull’amore doveva averla sconcertata. A lui ci erano voluti giorni per arrendersi all’evidenza, e non c’era da meravigliarsi che Diana non gli avesse creduto. Ma l’idea che lei si era fatta... che lui la volesse accanto solo per via del suo retaggio culturale, delle sue origini, era assolutamente ridicola.
Travis voleva chiarire le cose, farle comprendere ciò che provava. E quando lei era corsa via, l’aveva seguita, chiamandola per tutto il tragitto fino alle scale.
Si era bloccato quando aveva visto i gemelli che scendevano, in pigiama, con un’espressione preoccupata sui visetti seri.
«Ci siamo svegliati» aveva annunciato Jared, gettando una rapida occhiata al fratello, fermo sul gradino alle sue spalle. «E abbiamo parlato un po’.»
Travis non aveva potuto fare altro che lasciar perdere Diana. Quando aveva sentito il tonfo attutito della porta della camera che si chiudeva, aveva stretto gli occhi per un istante. Le avrebbe parlato ancora, si era ripromesso. Avrebbe sistemato tutto. Ma più tardi. In quel momento i bambini avevano bisogno di lui.
Li aveva portati in salotto, aveva aspettato che si mettessero comodi sul divano, quindi si era accovacciato davanti a loro per poterli guardare in viso.
«Cosa c’è?» chiese, posando una mano sul ginocchio di ognuno dei due.
«Ho fatto un brutto sogno» ammise Josh.
Travis si stupì che avesse parlato lui per primo. In genere era Jared che faceva da portavoce.
«È di questo che volevate parlarmi?» domandò. «Del tuo brutto sogno?» Intuiva che il bambino era ancora spaventato, quindi adottò un tono gentile, sperando di indurlo ad aprirsi.
Josh si strinse nelle spalle. «Sì. Immagino di sì» rispose poi.
Jared lo sollecitò a proseguire. «Diglielo, Josh. Vai avanti.»
Gli occhioni scuri di Josh si fecero ancora più cupi. «Mi sembrava di essermi svegliato a casa. Sai, con gli altri bambini. Di nuovo... là.»
«All’orfanotrofio?» gli venne in aiuto Travis.
Il piccolo annuì. «Non riuscivo a trovarti. E non riuscivo a trovare Diana. Poi...»
Aveva gli occhi pieni di lacrime e Travis si sentì spezzare il cuore.
«Poi non riuscivo a trovare Jared.» Con un gesto rapido della mano, Josh si asciugò le lacrime che gli bagnavano le guance. «A un certo punto mi sono svegliato. Era solo un sogno. Ma non mi andava di stare da solo, così ho svegliato Jared.»
«Non voglio che tu ti senta solo. Non deve accadere mai più» gli disse Travis dolcemente. «La prossima volta che fai un brutto sogno, vieni da me. Anche nel cuore della notte, non ha importanza. Svegliami. Aiutarvi a superare i momenti difficili rientra nei compiti di un papà.»
«Dopo che mi ha svegliato» interloquì Jared, continuando il racconto, «abbiamo cominciato a parlare. E...be’, vorremmo sapere una cosa. Abbiamo bisogno che tu ce la dica.»
Travis annuì. «Vi dirò tutto quello che volete sapere.»
I bambini si guardarono e Travis ebbe la netta sensazione che si stessero trasmettendo una sorta di messaggio silenzioso, come per farsi coraggio. Finalmente riportarono l’attenzione su di lui. Fu Jared a parlare. «Come mai hai voluto portarci qui?» chiese. «Perché hai voluto essere il nostro nuovo papà?»
«Sì» aggiunse Josh, dopo un attimo di silenzio. «Perché tu ci hai voluti, quando nessun altro ci voleva?»
Travis non si mosse. Non osava. L’incertezza che trapelava da quei due visetti corrucciati gli aveva fatto venire un nodo in gola. Ma non poteva crollare davanti a loro. I piccoli avevano bisogno di essere rassicurati. Doveva dimostrarsi forte. E sicuro. La sua risposta avrebbe dovuto essere chiara, logica, comprensibile. Doveva tranquillizzarli.
Quei due bambini erano così innocenti. Non avevano ancora sei anni, eppure avevano patito spaventose sofferenze fisiche e morali. E lui voleva evitare che soffrissero ancora.
Era un’aspirazione irrealizzabile, ne era consapevole. Jared e Josh avevano una vita davanti a loro...una vita che non sarebbe stata costellata solo di gioie e di successi, ma anche di prove, di ostacoli e di errori. Non aveva il potere di preservarli dai fallimenti e dalla sofferenza. Poteva solo amarli. E star loro vicino, ogniqualvolta si fossero trovati a dover affrontare un momento di crisi.
Ma che parole poteva usare, si chiese, per spazzar via l’incertezza per ciò che riguardava lui? Come poteva far capire a quei due bambini che lui sarebbe stato sempre accanto a loro, finché avessero avuto bisogno di lui e anche oltre?
«Perché ho voluto essere il vostro papà?» Si accorse che gli tremava la voce, quindi si fermò quel tanto che bastava a sciogliere il nodo che gli serrava la gola. «C’è una cosa chiamata destino» ricominciò lentamente. «Non si può vedere, né toccare. Quindi è molto difficile da comprendere.» Travis passò lo sguardo dall’uno all’altro. «Ma proverò a spiegarvelo. Vedete... il destino fa succedere le cose. È stato il destino a fare incrociare le nostre strade. Voi eravate soli. Io ero solo. Il destino ha deciso che saremmo stati bene insieme. Che avremmo formato una bella famiglia.»
Jared si illuminò a quella spiegazione, ma Josh, il più profondo dei due, aveva gli occhi ancora pieni di interrogativi.
«Tu credi che siamo una bella famiglia?» domandò.
«Senza ombra di dubbio» rispose Travis con prontezza. Poi si tirò su e si ricavò un posticino in mezzo ai due bambini. «Tu cosa pensi, Jared? Ti sembra che siamo una bella famiglia?»
«Sicuro» disse il piccolo, annuendo con vigore. «Mi piace, qui. Mi piace la nostra nuova casa. Mi piace la nostra cameretta. Mi piace il mio lettino. Mi piace... mi piace tutto.»
Travis faceva fatica a respirare. «E del tuo nuovo papà che ne dici?» domandò. «Cosa provi per me?»
Jared scoccò una timida occhiata al fratello. «Non posso dire che mi piaci.» Si strinse nelle spalle e aggiunse: «Ti voglio bene, ecco».
Incapace di contenere l’ondata di gioia che lo aveva pervaso, Travis strinse a sé il bambino. «Anche io ti voglio bene, Jared.»
Non era Jared, però, quello che aveva bisogno di maggiori rassicurazioni. Lui era estroverso e non aveva problemi di adattamento. Volgendo il capo, incontrò lo sguardo di Josh. «E tu, figliolo? Cosa provi a essere qui?»
Il piccolo sbatté le palpebre, una, due volte. Poi finalmente rispose: «È il posto più bello in cui sono mai stato».
Considerato che i gemelli avevano conosciuto solo l’orfanotrofio e l’ospedale, non c’era di che esaltarsi. Tuttavia Travis venne sopraffatto dalla commozione. Di nuovo gli si chiuse la gola e pensò che non sarebbe più riuscito a proferir parola. Ma c’era altro da dire. C’erano molte altre cose.
«Be’, questo è un bene» ribatté, sforzandosi di tenere a bada le emozioni. «Perché non c’è nessun altro luogo in cui vorrei vederti, se non qui accanto a me. Sai, piccolo... ti voglio bene. Voglio bene a Jared. E desidero che siamo una famiglia. Credi che si possa fare?»
«Anche io lo voglio. Ma...»
«Ma cosa?»
«Come mai continuo a fare brutti sogni?»
«È abbastanza normale, immagino. Devi abituarti a una nuova casa, a una nuova vita. Una volta che avrai capito che appartieni a questo luogo, a questa famiglia, gli incubi smetteranno di ossessionarti.»
«Ho cercato di fartelo entrare in testa anche io» disse Jared, sbirciando il fratello da sopra la spalla di Travis. «Babbo Natale non può sbagliare.»
«Babbo Natale?» ripeté Travis sorpreso.
«Sì» confermò Jared. «Babbo Natale non avrebbe lasciato qui i nostri regali, se non pensasse che questa è casa nostra. Gliel’ho detto, a Josh, stamattina.»
Reprimendo un sorriso indulgente di fronte a quella spiegazione deliziosamente semplicistica, Travis annuì. «Tuo fratello ha ragione, Josh. Babbo Natale non sbaglia mai.»
Peccato che non fosse possibile trovare una risposta altrettanto semplice e immediata per tutti i problemi della vita, pensò tra sé e sé.
Seduta in cima alle scale, dove non potevano vederla, Diana aveva ascoltato Travis che cercava di placare i timori dei bambini.
Era rimasta così sconvolta dalla discussione avuta con lui in cucina che era corsa su per le scale senza rendersi conto di essere passata accanto ai gemelli senza fermarsi. Solo dopo aver raggiunto la sua stanza ed essersi calmata un pochino, le era venuto in mente che il suo comportamento poteva aver turbato i piccoli. Così era tornata in punta di piedi sul ballatoio, per accertarsi che Jared e Josh stessero bene.
Travis era stato stupendo coi bambini. Aveva fatto tutte le mosse giuste: li aveva ascoltati con attenzione e poi li aveva rassicurati con parole semplici e franche.
Era così paziente coi gemelli. Così gentile. Aveva tutte le qualità per essere un ottimo padre. Ma soprattutto, amava quei due bambini. E avrebbe fatto qualsiasi cosa per loro. Qualsiasi cosa.
Nelle due settimane trascorse in quella casa, Diana aveva avuto modo di constatare più volte che Travis era deciso a dare ai gemelli tutto ciò di cui pensava avessero bisogno.
E adesso si rendeva conto che lei era una di quelle cose.
L’idea che Travis volesse sedurla per dare ai bambini il retaggio culturale a cui avevano diritto per nascita, perché voleva che crescessero con i valori e le tradizioni del popolo a cui appartenevano, le faceva venire i brividi.
Ti tratterebbe davvero con così poca considerazione? La domanda risuonò nella sua mente suscitando una miriade di dubbi.
Sì, si rispose poi. Sì, l’avrebbe fatto. Era un uomo, no? E gli uomini finiscono sempre per uscire allo scoperto. A volte ci impiegano mesi, come nel caso di Eric. A volte solo qualche settimana, come nel caso di Travis.
Ma che fossero settimane o mesi, alla fine la loro vera personalità veniva a galla.
Non le piaceva pensare che Travis volesse approfittare in quel modo di lei. Odiava pensare che le avesse mentito, che avesse cercato di manipolarla per dare ai bambini quel background culturale di cui erano così dolorosamente privi. Travis sapeva che avevano bisogno di basi solide che avessero radici nel passato. Basi che lui non era in grado di offrire loro.
Ma c’era un’altra cosa che non riusciva a tollerare. Una cosa che la riempiva di disgusto: si era appena resa conto di essersi innamorata disperatamente di un uomo che intendeva solo usarla.
Travis preparò la colazione per i gemelli e, mentre loro mangiavano, si fece una doccia e si vestì. Quel giorno aveva pochi pazienti da visitare, perciò sarebbe tornato a casa in tempo per il pranzo. Ma non voleva rimandare al pomeriggio il chiarimento con Diana. Non poteva.
Quando tornò al piano di sotto, trovò i piccoli in soggiorno, davanti alla televisione. Chiese loro se Diana fosse scesa, e tutti e due, senza staccare gli occhi dallo schermo, risposero che non l’avevano ancora vista. Così decise di salire a cercarla.
Per due ragioni. Primo, non voleva che Diana continuasse a pensare quelle cose orribili di lui. Secondo, se non avesse chiarito il malinteso prima di uscire, sarebbe stato così preoccupato che non sarebbe riuscito a concentrarsi sulle necessità dei suoi pazienti, un comportamento, questo, decisamente poco professionale. Doveva assolutamente mettere a posto la sua vita privata, per potersi dedicare ai pazienti che dipendevano da lui.
Travis allungò il braccio e bussò piano alla porta della camera. Non ci fu risposta.
«Diana» chiamò. «Dobbiamo parlare.»
Aspettò un istante, ma sentì solo silenzio. «Ho dei pazienti da vedere stamattina» continuò. «E tu hai fatto dei programmi coi bambini. Ma non me ne vado finché non avrai ascoltato quello che ho da dirti.»
Trascorsero alcuni interminabili secondi, poi sentì cigolare la maniglia e poco dopo la porta si aprì. Il dubbio e la circospezione che scorse negli occhi color cioccolato di Diana furono come un pugno nello stomaco. Avrebbe voluto abbracciarla, ma non lo fece. Le passò accanto e andò a sedersi su una poltroncina di fianco al letto. Quando sollevò lo sguardo, vide che Diana non si era mossa. Era ancora sulla porta, con la mano posata sulla maniglia.
«Vieni qui» le disse dolcemente.
Diana esitò. Guardò verso le scale. «Ma i bambini...»
«Stanno guardando i cartoni animati, non ci disturberanno» ribatté lui. Poi diede qualche colpetto sul materasso. «Coraggio, vieni a sederti. Ho una cosa da dirti...una cosa che devi assolutamente sapere, è indispensabile.»
Aveva posto di proposito l’accento sulla parola indispensabile. Sì, Diana doveva conoscere i suoi pensieri. Così come lui aveva un disperato bisogno di rivelarglieli.
Diana si avvicinò al letto e si sedette guardinga sul bordo del materasso. Travis ebbe la chiara sensazione che se avesse detto la cosa sbagliata, sarebbe scattata in piedi e sarebbe fuggita via. Il suo nervosismo era quasi tangibile, doveva trattarla coi guanti o non sarebbe rimasta ad ascoltarlo a lungo.
La tensione si avvertiva fortissima nell’aria. Ma Travis si sforzò di ignorarla. Appoggiati i gomiti sulle ginocchia, guardò Diana dritto in viso. Era così vicina, solo pochi centimetri li separavano. Ma a giudicare dall’espressione apatica e distaccata che si sforzava di ostentare, la si sarebbe detta lontana mille miglia. Doveva raggiungerla. C’era in gioco la sua felicità, lo sentiva.
«Non so davvero che cosa ho fatto per indurti a pensare di me quelle cose terribili» cominciò. «Ma ti assicuro che sbagli. Non sono quelle che credi, le mie motivazioni.»
Lo sguardo di Diana era indecifrabile.
«Non ho idea di cosa sia successo tra te e il tuo ex marito, ma a giudicare da quello che mi hai detto stamattina, ho l’impressione che quell’uomo pensasse che sarebbe stato divertente, oppure originale, o insolito, essere sposato con una donna di una diversa etnia.»
Lei rimase immobile, come una statua.
«Se è così...» Travis lasciò la frase in sospeso e sospirò. «Se è così» riprese, «mi dispiace molto per lui. Perché significa che non è stato capace di guardare al di là del suo naso e di vedere quello che sei realmente. La persona che c’è dentro di te. La donna saggia e meravigliosa che sei.»
Un cenno di reazione. Un impercettibile battere di palpebre che tuttavia bastò a fargli saltare il cuore in gola.
«Ma la cosa più triste è che sei stata ferita da quel meschino bas...» L’intensità della collera che gli era montata dentro quasi lo spaventò. Si fermò un istante e cercò di dominarsi. Solo quando fu sicuro di essersi calmato, riprese a parlare. «Ti ha spinto a credere che non eri degna di essere amata. E non è vero.»
Questa volta Diana sbatté visibilmente le palpebre. L’ombra del dubbio tuttavia, le offuscava ancora lo sguardo.
«Ora, non so come tu sia arrivata alla conclusione che ti voglio solo perché sei una Kolheek, ma è un argomento che non regge perché...» Travis abbassò la voce a un sussurro, «...perché, tesoro...sono anch’io un Kolheek.»
«Ma non sei cresciuto tra gli indiani» obiettò lei. «Non sai cosa significa essere uno di loro. Io posso dare ai bambini...»
Travis alzò una mano per interromperla. Aveva la fronte corrugata. «Credi che tutto questo abbia a che fare con Jared e Josh? Diana, ciò che provo per te - quello che proviamo l’uno per l’altro - non ha nulla a che fare con i gemelli. E se sei onesta con te stessa, onesta circa i sentimenti e le sensazioni che stiamo vivendo, non puoi non riconoscere che ho ragione.»
A quanto pareva Diana non aveva intenzione di concordare con lui, perché serrò le labbra in una linea ostinata. D’accordo, pensò Travis, Diana non lo avrebbe mai ammesso a voce alta. Ma nel profondo del suo cuore stava lentamente capitolando, ne era certo.
«Non posso dire che il fatto che sei una Kolheek non c’entri con ciò che sento per te. Perché in realtà potrebbe averci molto a che fare.»
Diana impallidì e per un attimo fu chiaro che intendeva prendere di nuovo le distanze da lui. Ma prima che potesse erigere le sue barriere difensive, Travis le posò una mano sul braccio.
«Sei la donna più bella che io abbia mai incontrato» mormorò. La seta della camicetta gli scorreva soffice sotto le dita mentre risaliva sino al gomito per poi scivolare nuovamente sul polso. «Conoscerti... ascoltare le cose che racconti sulla nostra gente, mi ha spalancato davanti agli occhi un nuovo universo. Mi fai sentire come se... non so... come se avessi trovato rifugio. Come se la possibilità di riscattarmi fosse divenuta reale...»
Di fronte all’evidente stupore di lei, si fermò.
«Di riscattarti?» ripeté Diana.
Mentre scuoteva il capo, una ciocca di capelli gli sfiorò la mano. Travis si inumidì le labbra improvvisamente aride. «Vedi...» Si bloccò nuovamente e trasse un gran respiro. Quanto stava per dirle non sarebbe stato facile. Non aveva mai parlato con nessuno di ciò che aveva fatto tanti anni prima. Ora, però, sentiva un disperato bisogno di confessare. Voleva che Diana sapesse e capisse. Ma al tempo stesso, temeva di offenderla in qualche modo.
Comincia dall’inizio, gli suggerì una vocina.
«Quando ero bambino, non parlavamo mai delle origini Kolheek della mamma» disse infine. «Delle mie origini. Ancora oggi, non riesco a spiegarmene la ragione. Mia madre rifiuta ostinatamente di parlare della tribù in cui è nata, della sua famiglia.» Alzò i palmi delle mani, in un gesto che esprimeva il suo profondo sconcerto. «Né io, né mio fratello ne abbiamo mai fatto una malattia. Siamo cresciuti pensando a noi stessi come a degli orgogliosi americani. Niente di più, niente di meno.»
Travis si prese il mento tra le dita e distolse lo sguardo, per non vedere la delusione che di certo sarebbe comparsa sul volto di Diana quando avesse saputo della sua meschinità.
«Tuttavia, durante l’ultimo anno delle superiori, venni incoraggiato da un insegnante a servirmi del mio retaggio indiano per ottenere una borsa di studio che mi avrebbe aperto le porte dell’università. Desideravo disperatamente iscrivermi a Medicina. Era il mio sogno. Così seguii il consiglio. Ricorsi alle mie origini Kolheek per continuare gli studi.» Travis deglutì penosamente prima di incontrare i suoi occhi. «E mi sento terribilmente in colpa per averlo fatto.»
Diana era più che mai confusa.
«Ma...»
«Non voleva essere una mancanza di rispetto, credimi» si affrettò ad aggiungere Travis. «E non appena ne ebbi la possibilità, cominciai a leggere libri su...sulla tribù.»
Perché faceva sempre tanta fatica a dirlo? Forse perché non si sentiva degno di esserne parte?
«Contattai la riserva» proseguì. «Mi registrai come membro della tribù. Volevo essere parte di... di...» Scrollò lentamente il capo. «Ma non mi sono mai sentito...»
A quel punto la frustrazione ebbe la meglio, e Travis ammutolì.
«Travis.»
La voce di Diana era così calda. Così dolce. Come attratto da una calamita, Travis riportò lo sguardo sul suo viso.
«Parli come se...be’, come se non appartenessi alla nostra gente.»
«È esattamente quello che provo. Mi sento un estraneo che guarda da fuori.»
«Ma tua madre è una Kolheek, quindi lo sei anche tu. Non ha importanza se lei - quali che siano le sue ragioni - non vuole riconoscere le sue origini. Il suo rifiuto non annulla la realtà. Lei continua a essere una Kolheek. Come te.»
Un’ondata di calore, che Travis interpretò come pura felicità, gli serpeggiò nelle vene. «Piano piano ci sto arrivando anche io a questa conclusione» ribatté. «E questo grazie a te. Tu mi fai sperare che potrei essere un vero indiano. Che potrei essere accettato.»
Travis notò che la donna fredda e guardinga che gli sedeva di fronte pochi attimi prima era sparita, e che al suo posto c’era adesso la pacata consigliera, la guaritrice, preoccupata per lui.
«Pensi che i Kolheek ti negherebbero la possibilità di saperne di più sui tuoi antenati, solo perché non sei cresciuto nella riserva? Che ti terremmo alla larga?» Un sorriso gentile le distese le labbra. «Non potremmo mai farlo. Tu sei uno di noi.»
«Ma...»
«Niente ma» lo interruppe Diana. «Travis, ci sono moltissimi Kolheek che vivono fuori dalla riserva. Sono sparpagliati per tutta l’America. Alcuni stanno addirittura oltreoceano. Non puoi sentirti in colpa perché ti sei servito delle tue origini per poterti iscrivere più facilmente all’università. Non puoi sentirti in colpa perché non sai molto delle tradizioni e della cultura del popolo a cui appartieni. Non è colpa tua. E stai facendo del tuo meglio per recuperare.»
Travis provò un impeto di gratitudine per lei, per le sue argomentazioni così convincenti.
«Senti, ho un’idea» proseguì Diana. «È una cosa che ti farebbe sentire parte della tribù. Che ne diresti di partecipare alla cerimonia del nome?»
«Ma, in quanto padre dei gemelli, non è scontato che vi prenda parte?» chiese lui interdetto.
«Naturalmente. Ma io stavo parlando di una cerimonia tua. In cui a te verrebbe dato un nome Kolheek.»
Un brivido di eccitazione gli corse lungo la spina dorsale. «Credevo fosse una cerimonia riservata ai bambini.»
Diana si strinse nelle spalle. «In genere è così. Ma tu non sei forse come un bambino che sta scoprendo il suo passato?»
Travis sorrise, mentre la commozione gli riempiva gli occhi di lacrime. Quella donna era meravigliosa. Era stupefacente...
In quel preciso istante seppe con assoluta certezza che era con lei che voleva trascorrere il resto dei suoi giorni.
«Io...io...» Era tale la gioia, che non riusciva a parlare. Dovette respirare a fondo un paio di volte prima di tentare di nuovo. «Io... sarei onorato di avere un nome Kolheek.»
«Bene.»
Il sorriso di Diana era come un raggio di sole.
Travis ne rimase così incantato che per qualche secondo dimenticò tutto quanto. Ma doveva finire il suo discorso, decise, riscuotendosi. Doveva farle comprendere i suoi sentimenti.
«Sei venuta in casa mia per dare a Jared e a Josh quello che io non avrei mai potuto offrire loro, i valori della cultura Kolheek; hai accettato di insegnare anche a me la nostra storia; e, grazie a te, ho iniziato a pensare di poter essere davvero uno di voi. Che posso essere orgoglioso delle mie origini. Non sarebbe successo se tu non fossi una Kolheek. È a questo che alludevo pochi minuti fa, quando ti ho detto che non posso negare che il tuo essere indiana abbia avuto un gran peso, per me.»
Un guizzò di panico le si accese negli occhi. Diana impallidì visibilmente. Era ovvio che non si aspettava che la conversazione tornasse nuovamente su quel piano così intimo.
«Tuttavia» continuò Travis, «non è il tuo retaggio indiano ad attrarmi. È la donna. È la persona che sei. La creatura dolce che mi fa battere più forte il cuore tutte le volte che è con me.»
Serrò la mascella, spaventato a morte alla prospettiva di confessare i suoi veri sentimenti, eppure deciso a rivelarli. Ora che aveva capito quanto significava quella donna per lui, voleva che sapesse esattamente ciò che provava nei suoi confronti.
«È la tua essenza che sono arrivato ad amare» disse, la voce stridente, rauca. «Ed è stato prenderne coscienza che mi ha portato alla conclusione che siamo anime gemelle.»
C’era di nuovo, lo vide chiaramente. Lo scudo difensivo era stato alzato di nuovo. La Donna di Medicina, la guaritrice, non c’era più. La consigliera, l’insegnante, se n’era andata. Si era dissolta come neve al sole.
Restava solo una donna spaventata che cercava disperatamente di proteggersi.