UN FATTORE

Si chiamava Demetrio Polletti, e stava da due anni alla fattoria di Querceto.

Egli scese le scale svogliatamente, senza avere nella testa alcuna faccenda da comandare; perché il marzo era troppo piovoso. Trovò uno dei suoi contadini, Sabatino, a pulire la ciuca legata ad una campanella presso l’uscio di casa. E il ciuchino mordicchiava il ventre della madre, che si scuoteva tutta per allontanarlo. Ma invano; perché quegli le girava intorno dall’altra parte.

Il contadino disse:

— Buon giorno a lei.

— Vai alla fiera, dunque?

— Sissignore, se lei non è scontento. E bene che vendiamo queste due bestie per comprare un vitello, quando l’erbaio sarà alto.

E il contadino aggiunse, tra le altre ragioni, quella di un guadagno maggiore, perché temeva che il fattore non approvasse pienamente.

Ma Demetrio non gli rispose né meno. Andò invece a carezzare la ciuca, che sporse la bocca verso la sua mano, perché abituata ai pezzetti di pane e al granturco.

Le sue labbra quasi tremolavano di voluttà: ma la mano del fattore era vuota, e la bestia trasse un raglio breve e velato. Anche il ciuchino si avvicinò, tendendo il muso.

— Tu che cosa vuoi? — chiese Demetrio.

— Sarebbe ghiotto come la mamma! — rispose il contadino.

Il ciuchino alzò di più il muso, guardando con i suoi occhi turchinicci tra il pelame ancora troppo lungo. La ciuca zampò.

— Come l’ha fatta dimagrare! — esclamò il fattore.

— Dopo cinque mesi, si prova sempre a pocciarla. Ora porterò un mezzo secchio di biada.

E il contadino andò a prenderla.

Allora, Demetrio rimase ad accarezzare le due bestie. La ciuca gli lambiva la mano, poi allungava il collo scoprendo i suoi denti grandi e bianchi.

Il contadino tornò, portando molta semola. Il fattore sorrise guardando con quanta avidità la ciuca cominciò a mangiarla. Essa si empiva la bocca, masticava e sbuffava per la contentezza fisica.

Il ciuchino tentò indarno di ficcare il muso dentro il recipiente. La mamma lo cozzava senza riguardo, e tuffava più giù la propria lingua.

Il fattore allora discese per un campo, dove un altro contadino gli fece vedere un olivo tutto frollo e scalzato con la zappa.

La lunga consuetudine con la campagna aveva prodotto a Demetrio un modo uniforme di pensare intorno a tutte le cose. Egli, per esempio, non sapeva distinguere bene se, potando una pianta, faceva per il proprio interesse o per il piacere di lei. Era abituale, ormai, che tutto si dovesse modificare secondo la sua volontà. I contadini non erano se non strumenti più o meno docili, per secondare la grande produzione della natura. Egli si imaginava di essere necessario per la primavera. E il sole o la pioggia non cagionavano a lui momenti di piacere o di dispiacere? Sentivasi una grande responsabilità non verso il padrone, ma nell’interpretazione delle vicende agricole che sono sottoposte ai cambiamenti atmosferici. Se egli non poteva prevedere una brinata dannosa alle giovani piante, non incolpava Dio o il destino, ma se stesso. Era una ricerca affannosa di mezzi più chiaroveggenti. Egli avrebbe voluto che i campi affidati alla sua vigilanza portassero i segni dell’attenzione zelante, con la quale dirigeva i lavori ai sottoposti. E colui che lo avesse disobbedito non peccava tanto contro lui stesso quanto contro le leggi apparenti secondo le quali dovevasi comportare. Ma quella mattina Demetrio era straordinariamente distratto.

La sera avanti non aveva avuto né meno la voglia di segnare alcune spese della fattoria; aveva mangiato più in fretta, senza rispondere alle domande della sua serva, una donna maritata, dagli occhi cipicchiosi e bruttissima.

 

 

 

Gli sembrava che i contadini indovinassero il suo segreto; e si irritava contro di sé, perché non sapeva dissimulare il suo strano stato d’animo; del quale anche egli si sentiva inesperto e nuovo.

«Perché anch’io non sono come loro, che non riesco a comprendere mai?».

In fatti, egli aveva dovuto rinunziare alla interpretazione dei volti dei suoi sottoposti. Quelle facce aduste, senza alcuna espressione particolare, non lo interessavano più. Egli aveva soltanto trovato in loro uno sviluppo eccessivo degli istinti brutali, mitigati dalla scaltrezza e dal vizio di nascondere tutto quel che possono provare. Non poté mai trovare un amico tra loro.

Poi che la terra era molto fangosa, si decise di tomarsene a casa.

Il contadino adesso strigliava la ciuca.

— Lei viene alla fiera?

— Verrò.

Ma dentro di sé ne era scontento. Aveva risposto a quel modo per non distogliere il contadino dalla diligenza che egli voleva scorgere in tutte le cose.

E salendo le scale, pensò: «Ma io sono innamorato da vero!» E provava un turbamento giocondo, inspiegabile; una voglia di essere amato, come da tanto tempo non aveva avuta. Era una meraviglia per lui!

Lucia, la serva, gli chiese:

— Vuol mettersi gli altri calzoni?

Infatti, quelli che s’era infilati scendendo dal letto, erano sporchi e strappati.

Egli non le rispose; entrò in camera, e se li cambiò. Prese poi dal cassettone un foglio di cinquanta lire; e alla serva raccomandò che l’uscio della strada e dello scrittoio fossero sempre chiusi. E si avviò alla fiera.

Per fare più presto, attraversò uno dei suoi poderi; ed intanto esaminò se un filaio di viti fosse stato potato secondo le sue istruzioni; guardò il grano bagnato dalla nebbia. Poi entrò nella strada. Allora si volse: la moglie d’un contadino scendeva con una cesta per l’erba tagliata; un bambino veniva giù di corsa, per raggiungerla.

«Non sono cattivi di animo» disse. Ma la scontentezza innata faceva sempre inappagabile Demetrio. Il quale confrontò Sabatino con il colono dell’anno passato; e in ambedue trovò difetti differenti.

Ma gli perdurava un esaltamento dolce e ignoto, un senso di benessere che lo commoveva. Ricordò allora che tre giorni a dietro, una sera di plenilunio, aveva camminato dietro una fanciulla di cui egli sapeva soltanto l’abitazione, perché aveva scorto lei più di una volta su alla finestra. Quella sera aveva comprato il sigaro, poi uscendo dalla bottega, aveva urtato alquanto contro di lei che sorrise.

Poi ella gli passò avanti, e camminò lungo i muri delle case, sul marciapiede che è fuori della porta Camollia. Egli la seguì da presso senza dirle niente; ma senza mai allontanarsene, su le ombre ampie dei bellissimi olivi dietro il muraglione di un campo.

Ella camminava a capo chino, in un ritmo indefinibile. Demetrio era assorto in un gran sogno delizioso, con gli occhi fissi a quel corpo. Poi ella entrò nella sua casa, e gli parve che si volgesse a lui, prima di sparire nell’andito pieno d’ombra.

Ma non ne era sicuro!

Egli proseguì solo. Gli sembrò allora che il sorriso e il ritmo fossero la stessa cosa, la stessa emanazione di quel corpo giovine. E ai raggi taciti della luna, ora tutta scoperta e splendente, gli parve ancora di udire il suo passo: la udì camminare nella propria anima e rimanere con sé. Ma Demetrio non aveva chiesto ad alcuno di lei; onde egli ignorava ancora il suo nome.

Ma tutta quella notte pensò a lei, come ad una cosa impossibile. Si domandò la spiegazione di quel sorriso così differente a tutti gli altri; e le disse silenziosamente: «Tu sei bella!».

E il suo desiderio era così elevato, che quella fanciulla gli parve strana, una allucinazione della sua anima.

Gli parve che quel volto esprimesse una grazia ignota e infinita. Poi cominciò a parlarle.

E Demetrio non aveva pensato mai a lei altrimenti. Nondimeno egli si sentiva innamorato da vero.

Ma alla fiera percepì ad un tratto quanto fosse vago il proprio sentimento; anzi inutile. E pure quanto ne era soggiogato! Nel suo mondo interiore nascevano nuovi pensieri, da cui egli si sentiva attratto.

Ne meno la preoccupazione costante degl’interessi aveva diminuito il godimento. Quantunque essi prendessero il sopravvento su tutto e divenissero l’orizzonte immenso, nel quale la sua mente si trovava quasi sbalordita, egli non aveva mai supposto che tanta vita fosse dentro di sé.

Da tre giorni, era divenuto quasi gioviale. I suoi occhi chiari dimostravano un’esaltazione tranquilla.

 

 

 

Le preoccupazioni campestri si intromettevano in tutti i suoi sentimenti, impiccolendoli e diminuendone l’interesse. Ma vi si intromettevano con un senso placido e quasi idillico. E chi vive sempre in campagna è sopraffatto da percezioni abituali. Infatti i contadini divengono strumenti incoscienti dei lavori quotidiani; sono assorbiti, anche mentalmente, dalle ripetute fatiche rudi. Nasce da ciò l’abitudine di dimenticare se stessi per i bisogni della natura. Tutto il mondo istintivo si restringe dentro le siepi del podere; e tutte le cure, tutte le attenzioni necessarie non fanno se non approfondire un affetto che non separa più da le cose possedute. La giocondità di un contadino dipende dalle gemme delle viti e dai solchi del grano. La sua ambizione, il più delle volte, è appagata soltanto dall’avere un paio di bestie belle, che egli può aggiogare. Per un mese intero, può discutere dello stesso fatto che egli non ha potuto comprendere; ripete le vicende di una sua malizia, trovando sempre modo di interessarne tutta la famiglia.

Non di meno Demetrio Polletti amava i contadini, e li giudicava dalla minore o maggiore obbedienza a se stesso.

— Perché potate male le viti? Volete troppi grappoli quest’anno. — E si imaginava che le piante dovessero comprendere il torto dei colpevoli, ma compatirli. Ed egli faceva bene a rimproverare. Dopo tutto, in fondo a lui era un vero sentimento; le fruttificazioni, secondo lui, somigliano ai parti delle vacche. E si arrabbiava se una bestia andasse a sciupare un ramo di qualche pianta: non era nel suo diritto.

Tornato dalla fiera, passò il restante del giorno in cantina a tramutare un suo vino bianco. Ed evitò sempre di farsi avvicinare da qualcuno. Ma la sera, durante la cena, parlò molto alla serva. Avrebbe voluto tacere, secondo il solito; ma non poté da vero.

Lucia, in vece, ne era meravigliata e contenta. Alla fine egli esclamò:

— Se io mi ammogliassi!

E sentiva dentro di sé una forte emozione, che egli voleva nascondere. Ma, entrato a discorrere di ciò, non si fermò più; con una abbondanza piacevole di progetti.

— Ma chi è questa ragazza? — chiese Lucia, dopo avere sempre ascoltato.

— Sta sopra alla bottega di Gigi il falegname, di cui ci serviamo noi.

— Ho capito! In quella casa non ci sono altre ragazze.

— Tu sai, dunque, come si chiama?

— Marietta, mi pare. Ma ha già fatto un figliuolo con quello che la dovrà sposare, il quale adesso è soldato.

Il fattore si turbò.

— Un figliuolo? Lei? È possibile?

— Sì, sì; da vero.

E la serva, veduto il suo dispiacere, rientrò in cucina; con la scusa di portare via i piatti sporchi.

Demetrio, dopo essere stato molto tempo immobile, batté la sua mano enorme sopra la tovaglia di canapa greggia.

— Un figliuolo? Io la strozzerei!... Oh, se ti avessi tra le mani!

La collera si fece immensa. Egli bevve, e attraventò il bicchiere contro la parete. Poi andò in camera, ma ivi si vergognò talmente del suo scatto che tornò subito in dietro, a vedere che viso avesse fatto Lucia, la quale chiese con quanta dolcezza l’era possibile, e con naturalezza:

— L’ha rotto per lei?

Egli si meravigliò di tanta perspicacia; e, quantunque avesse desiderato non rispondere, disse:

— Non pensavo a quello che facevo.

E sorrise, desiderando che costei non credesse tanto profondo il suo affetto. E poi che non seppe quali fossero i pensieri di lei, si irritò contro se stesso. Ma se la serva gli avesse detto qualche parola di consolazione, egli avrebbe pianto. Ed ella aveva proprio la voglia di ciarlare!

Ad un tratto egli udì un vocìo giù nel piazzale della fattoria. E una bocca nota chiamò:

— Signor fattore!

— Non far rumore con le forchette tu. Che cosa vuoi, Giovanni?

Demetrio sforzò la voce, per far dissipare prima il malumore.

— Scenda un momento! — quegli rispose.

Demetrio era ancora con quel senso di rincrescimento penoso e delicato che lo infastidiva.

Quando fu in fondo alla scala, quattro uomini lo salutarono insieme. E poi soggiunse Giovanni:

— Noi abbiamo venduto i bovi.

— Per quanto?

— Duecento trenta napoleoni.

— A chi?

— A me, signor fattore — rispose un giovine, togliendosi il cappello.

Demetrio lo esaminò:

— Di dove sei?

— Del podere di Rosaia — rispose quegli, sicuro dell’efficacia di quel nome.

— Va bene allora; conosco il tuo padrone. Adesso salirete tutti, per mangiare un poco di rigatino; e beverete.

— Non si incomodi per noi — ricusarono i contadini, ben sapendo che avrebbero accettato.

— Portereste disgrazia a tutte le paia di bovi che mettessi nella stalla.

Questa superstizione è diffusa molto in Toscana. Allora salirono tutti insieme le scale; e quella sera ciò fece molto comodo a Demetrio, che non avrebbe potuto andar subito a letto.

Allora, Demetrio Polletti dimenticò il suo amore; e parlò insaziabilmente, per due ore di seguito, di fave, di vecci, di lupini e di patate; mentre i contadini contenti lo ascoltavano a bocca piena.