LA FAME

Io ho un dolore che non potrò mai allontanare da me: vorrei parlare alla mia mamma. Sono diciassette anni che m’è morta, e questo desiderio disperato mi perseguita sempre di più. Io ne ho bisogno più di qualunque altra cosa. Nessuna donna, nessun amore, nessun sentimento possono avere che fare con questa mancanza.

Ho nel portafogli un ramicello del cipresso, che è cresciuto proprio accanto alla sua tomba; se lo masticassi avrei paura di sentire nella mia bocca la sua anima. Ah, sì, la sua anima che forse è sempre con me più della luce del sole e più della sera!

Se io potessi, qualche volta, raccontarle di qualche cosa che mi piace e che mi pare bella, io forse non chiederei mai più altro.

Oh, poter tornare a casa e trovarla!

Quante volte m’è parso che le sue mani bruciassero come la febbre della mia fronte; e con quanta dolcezza mi son sentito vivere perché la vita m’è nata da lei! Quante volte, estasiato di amore, non ho trovato una confidente migliore di lei! Ah, non lo conoscete voi questo bisogno di far conoscere i palpiti del nostro essere a colei che ce lo dette!

Io avevo avuto una sola allucinazione fino ad ora: ma quella volta mi era parso di vedere la mamma che dalla camera mia voleva riaprir l’uscio della sua. Ah, come, per più di una settimana, tutta la casa mi pareva trasformata! Ah, come la paura immediata dell’allucinazione era divenuta una consolazione!

Nei momenti più difficili della mia vita, quando in tutto il giorno non avevo da masticare che un pezzo di pane che inghiottivo con la mia saliva, la mamma ha sempre assistito al mio dolore e alla mia disperazione.

Quando salendo verso Settignano, tutto pieno di rose, mi dovetti abbattere in un pratarello, sfinito, con un vuoto orribile nei fianchi, mi parve ch’ella mi sorreggesse perché non mi facessi male. Io strappai un ciuffo d’erba e mi provai a masticarlo; eppure ridevo dentro di me, convulso e mezzo folle!

Mi ricordo che, rialzatomi, chiesi da bere ad un uomo che dall’uscio di casa parlava con due donne sedute fuori a cucire cose bianche. Egli mi offrì un bicchiere di vino. Oh, i dolori dello stomaco! E una specie di vertigine, che a momenti mi faceva camminare, sempre camminare, a occhi chiusi, a testa bassa!

Quando non avevo da mangiare, percorrevo almeno venti chilometri al giorno, per solito in campagna; perché in città mi pareva che la testa girasse di più e mi sentivo peggio. Oh, essere stanco di veder mangiare gli altri! Di sentir gli odori caldi delle cucine sotto la strada, da quelle finestre a graticole fitte, di veder la carne dai macellai, i sedani dagli erbivendoli! E sognar di trovare un pezzo di pane che avrei mangiato piangendo! Oh, la voglia di non chieder più niente a nessuno, di non voler nessuno aiuto; e la bocca sempre chiusa con forza fino a rompere i denti di sopra con quelli di sotto, per ore intere, con la fame come una voluttà orribile e stupida! E le passeggiate lungo l’Arno dopo aver pensato al suicidio tutta la notte! La tristezza cupa, ma senza lacrime, di affacciarsi al parapetto del ponte sognando di cader giù a capofitto; e poi correre ancora non si sa dove.

Mi ricordo di una notte. Erano quarant’otto ore che non mangiavo più, e mi pareva di respirar male come soffocassi. Un solo scatto avevo avuto: avevo dato un pugno in un tranvai che rasentava il mio marciapiede. La notte era umidissima, e una nebbiolina lasciava a pena vedere a distanza. I lampioni di Piazza Savonarola sembravano veli luminosi, che fossero per cadere. Io non volevo andare a casa: stavo proprio lì a due passi, in una via che sbocca nella piazza.

Ero così triste nel mio cuore che sentivo il peso della notte sempre sopra di me, quasi mi spingesse per buttarmi in terra.

Pensai di andare a bere a una di quelle fontanelle di ferro, che sono ai lati del giardino. Ora, camminavo a pena, quasi in punta di piedi. Quando fui a poca distanza, vidi un cane da caccia che beveva giù nel bacino di pietra da dove va via il pisciolo della cannella. Mi fermai perch’egli facesse il suo comodo; ma il cane s’era accorto di me e dopo due o tre leccate mi guardava smettendo. Mi pareva uno di quei cani che vanno a mangiare le immondizie, magro e sudicio; d’una magrezza che avrebbe commosso qualcuno. Nei suoi occhi c’era tanta dolcezza e tanta paura che mai avevo veduta in nessun essere umano. S’egli fosse stato fermo, l’avrei abbracciato. Ah, non ero più solo nella notte!

Io dissi a voce alta:

— Bevi!

Allora il cane sussultò, mi guardò rapidamente e fuggì nelle tenebre dall’altra parte della piazza.

Io avrei pianto. Bevvi a lunghe sorsate: certo almeno due litri d’acqua, che mi fece tossire. Poi guardai il giardino nella nebbia, con quei pochi lampioni attorno. Allora, entrai in casa, barcollando; all’ultimo gradino inciampai e mi feci male a un ginocchio.

Non avevo voglia di spogliarmi e non avevo sonno. Aprii tutta la finestra, e m’appoggiai al davanzale. Lontano, fischiò, flebilmente, un treno; un usignolo cantò. Ma le sue note erano come colpi di spillo dentro gli orecchi, e il mio cuore lo malediva forse. Ascoltandolo, mi sentivo come rimproverare; ma non saprei di che. Ascoltandolo, mi sentivo più fame e mi chiedevo perché non avessi trovato da mangiare. Ah, sì! avrei dovuto fare come quel mio amico che andò a mangiare, a una casa di contadini, la semola dei polli! Ah, la fame, la fame, mentre quell’usignolo gorgheggiava a gola aperta!

Pensai d’andare a bevere in cucina, ma temendo che la padrona di casa m’avrebbe sentito e forse indovinato, mi trattenni. Allora, non so perché, mi parve di vedere la mamma che faceva di tutto per venirmi in contro; veniva con la sua aria serena e quieta. Oh, i miei occhi ebbero questa dolcezza; come quando si bagnano con acqua fresca!

Spensi la luce elettrica e mi stesi sul letto. l’angoscia mi stringeva la gola; e io facevo di tutto per non piangere e per non dire niente. Ricordavo l’elemosina fattami a un convento, il bicchiere del vino che m’aveva sconvolto lo stomaco; il cuore batteva a pena, e non avevo sonno; anzi il letto mi faceva male alle costole. E mi ricordai anche d’un altro giorno così umido, ma dentro una stanza tanto scaldata che era un piacere a respirare. Le persone si movevano ancora, con dolcezza; qualcuno parlava bene di me: ed io ero molto contento. La mamma m’abbracciava.

Oh, no, era impossibile star sopra il letto. Saltai giù e tornai alla finestra. Parve che tutta la notte mi venisse incontro, e sentivo la romba dentro gli orecchi: mi ritrassi a tempo per non cadere giù dalla finestra.

Mi sedei in terra. Ah, che voglia di ridere vedendo una processione che si scompigliava come tante formiche che fuggono! E quei colpi di campana che parevano bussare al cielo? E un suono di zampogna che faceva ballare tutti quelli della processione, che entrava in mare e spariva: il mare si chiudeva sopra a loro come una tavola. E i cipressi di Settignano che scendevano verso le case! E tutti quei colori soavi che parevano diventar molli come l’acqua! E la lunghissima falce, quasi dritta, dell’Arno! E le giornate piene di sole, con la biancheria ad asciugare, con le persiane verniciate di fresco, con le pareti a scialbo di calcina; e la terra così secca! E quel ragno bucato con uno spillo; e la gocciolina d’acqua che n’esciva!

Come soffrivano i miei occhi di vedere anche se li tenevo chiusi; erano stanchi e mi bruciavano. Pensai di star senza mangiare per un mese intero. Perché pensavo così?

La notte era passata più che metà; e non poteva darsi che l’indomani tutto si cambiasse in vece? Perché non poteva cambiarsi? Era meglio dormire; e m’addormentai su lo stratino accantò al letto; ma mi svegliai prima che fosse giorno. E quel chiarore che faceva già rivedere le colline mi straziò come la fame non riesciva. Quasi una determinazione morale mi s’imponeva, un cambiamento verso gli altri. Salii sul letto e mi misi a riflettere. Non mi rammentavo più da quanto tempo non avevo mangiato, non mi ricordavo più di niente. Le impressioni della notte, anche quella del cane, erano sparite. Io guardavo la luce sempre più chiara là sui poggi, come una cosa che non potevo evitare in nessun modo: il giorno che nasceva mi pareva un incubo immenso e intollerabile. L’Arno era una cosa che avevo imaginato io, la passeggiata era soltanto un effetto dentro la mia anima; e non sapevo che cosa decidere. Forse, era meglio restare lì sul letto, chiudere la finestra per non sentire e non veder più niente, e vivere soltanto nella mia anima attonita e perplessa, con un tremito profondo che pareva la morte.

Oh, non aver né meno più un soldo! Con l’ultimo ci avevo comprato un arancio, e ora avevo di quell’arancio, mescolato con quello del rame, sempre il sapore in bocca. Riflessi di specchi, canti di usignoli abbacinati come i riflessi, il fiume. che si moveva di posto e mi chiudeva come dentro un’isola, il desiderio avuto d’entrare in un convento, il mio concorso finito male, gli esami sempre dinanzi, e la voce di un concorrente allegro che diceva: «Telegrafo subito a casa!». Quella voce mi faceva, non so perché, piacere. Cominciai a ripetermela, finché credetti che si trattasse di me.

Ma il mattino era già venuto tutto, limpido e sereno, con un cielo che sembrava latte da bevere, con le colline dolcissime. Mi alzai e andai al tavolino, per scrivere a un amico imaginario che non avevo. Mi sentivo venir meno; il mio cuore soffriva, ed ora pareva gonfio ed ora irritato contro di me perché non lo nutrivo più. E non scrissi niente. Ma mi imaginai di scrivere, di chiudere la busta con la ceralacca, di metterla dentro una di quelle cassette postali verniciate di rosso. E pensai che la mamma la leggesse e piangesse.

Quel pianto però mi dette fastidio e mi sforzai di non sentirlo più. Guardai verso la serenità fuori della finestra, e mi meravigliai di non aver mangiato.

Passava qualche muratore con un fagottino sotto il braccio, qualche serva col pane involtato in una carta; udivo ridere un bambino. Mi sporsi di più, e vidi, dalla finestra sotto la mia, un tavolino dove era una tazza di caffè e latte con qualche briciola di pane attorno.

Io stetti a guardare, e m’illudevo che tutto fosse mio. Ora qualcuno avrebbe chiamato anche me e m’avrebbe dato da mangiare. Mai più guardai con tanta tenerezza le cose altrui che dànno il benessere. M’accorsi che amavo quel bimbo e che se avessi parlato con la sua mamma le avrei saputo dire tante cose affettuose; e allora scoprivo che i miei sentimenti erano pieni di gentilezza e di rispetto. Ed era bene che le colline fossero così belle e che, sopra a me, due amanti si amassero in un modo inverosimile. Risolvetti alcuni problemi psicologici che m’erano parsi come enigmi un’altra volta. E mi preparai a sopportare, quasi con allegrezza, un’altra giornata di fame.

Ora avrei spolverato i miei abiti, mi sarei lavato il viso e le mani sempre umidicce della notte, e sarei escito.

Cominciai a far la prima cosa; ma, per caso, guardai nello specchio. Gli occhi ci vedevano poco, e credetti che anch’io fossi un fantasma come quello nello specchio. Vidi i miei occhi azzurri dentro due occhiaie rossicce, d’un azzurro insolito. Mi maravigliai che le mie labbra fossero sempre rosse. Tirai su le maniche della camicia e mi palpai fino al gomito; una volta guardando il braccio e una volta la sua imagine. Poi mi rivestii, mi accomodai il colletto; ed uscii.

Non ero capace a tenermi bene in piedi, e inciampicavo tutte le volte che scendevo e risalivo il marciapiede. Presi dalla parte opposta a Piazza Savonarola, deciso ad andare fino all’Arno; non sapevo bene a far che. Le strade erano illuminate, e dovevo socchiudere gli occhi. Mi pareva che la gente camminasse più lesta del solito, quasi elasticamente. Giunto al fiume, m’appoggiai alla spalletta di travertino. Di lì passava, a quell’ora, pochissima gente. Ma ognuno pareva che m’incoraggiasse a fare quello a cui non volevo pensare, a cui bisognava che non pensassi. Ero sicuro, però, di non morire; e sentivo che la mia anima mi avrebbe salvato, quasi tirandomi forse su dall’acqua. E l’acqua scorreva sempre uguale, un poco verdastra, quasi monotona, lenta.

Non avevo da dire addio a nessuno; ed a un tratto un odio, un odio formidabile mi fece guardare un uomo, forse un impiegato, che mi passava accanto. Quegli si discostò. E poi guardai l’acqua con lo stesso odio: ed ebbi la voglia di gridarle contro. M’aggrappai alla spalletta troppo alta.... E mia madre, proprio lei, mi rovesciò la testa in dietro; e caddi sul lastrico.

Mi dissero che ero stato privo di sensi per quasi un’ora.