— È strano — concluse Michele Pratesi — tutte le volte ch’io parlo di questa specie di malattia mentale che ho, mi ritorna con più intensità. Pare ch’io stesso la richiami.
La signora Daria Spinelli, che capiva poco quel che egli diceva, e non aveva studiato le illusioni della memoria, che si chiamano paramnesie, chiese cercando di stare attenta:
— Cioè?
— Ecco: ora io sono convinto... mi pare... di aver parlato così un’altra volta. Non so quando. Ma mi pare che anche allora voi abbiate avuto lo stesso vestito, la stessa aria, in questo salotto, con quello che c’è ora. È una cosa che non so spiegarmi né meno io.
Ma alla signora Daria non piaceva questa conversazione; e cercò di sviarla, parlando di altro. Batté il ventaglio chiuso sul tavolino, dov’era ancora il vassoio del tè, perché il giovane le desse retta, vedendolo così preoccupato, e disse con la voce più amabile che potesse avere:
— Avete letto il bellissimo articolo d’oggi sul nuovo giornale che si stampa nella nostra città?
La sua voce era quasi seducente. Ma il giovine, sentendo un argomento lontano a quel che egli pensava, provò una specie di raccapriccio e di spavento. Girò gli occhi per la stanza, guardando la signora come una qualunque delle cose ch’erano intorno a lui (il vestito lo interessava in quell’istante più di lei stessa); e continuò, balbuziendo un poco:
— Che ne pensate voi... della... mia malattia? — Ma era evidente che la risposta della signora non gli importava niente; affaticandosi da se stesso a mandar via quell’impaccio. E prima che ella, quasi stizzita, avesse risposto, egli proseguì:
— Del resto, non avrei né meno dovuto dirvelo; perché chi sa che cosa pensate ora di me!
La signora, in vece, pensava: «Che maleducato! Si parla così ad una signora? Deve essere matto, o almeno molto originale!»
Sorrise e lo guardò con gli occhialini; poi li posò accanto al ventaglio, s’appoggiò con tutta la schiena alla poltrona; mettendo su le ginocchia le dita assieme, come avesse avuto cura che stessero tutte quante pari. Michele, che s’era quasi vantato della sua malattia, ora sentiva che aveva fatto male a farlo sapere anche a lei. Che bisogno ce n’era? Ma, con spavento, s’accorse ch’egli aveva cominciato a far gli stessi movimenti delle dita come la signora.
«Non dovevo escir di casa, oggi!». Volle dire qualcosa; ma, sentendo che avrebbe tartagliato, tacque, facendo credere di guardare i quadri ad olio, attaccati sopra la stoffa delle pareti. Allora la signora, contenta, esaminando la sua fisonomia, spiegò:
— Quello è il mio povero marito. Sono due anni ormai....
Egli mancò poco che non esclamasse: — Ed io che volevo chiedervi come stava! — Fece uno sforzo per convincersi che era morto da vero, ricordandosi d’averlo sentito dire. La signora non capiva quello che egli pensasse. Allora, sorridendo, proseguì:
— Quell’altro è il mio nipotino; morto anche lui.
Egli disse, quasi smarrito, sopraffatto dalla sua confusione:
— Già, già!
— Si avvicini: guardi come era bello.
Egli, in vece, si voltò a lei, che gli ripeté:
— Si alzi pure; lo vedrà meglio.
Alzatosi, non si ricordava più s’ella gli avesse parlato di un nipotino o di un figlio. «Dio mio!» pensò quasi atterrito, sentendosi il cuore venir meno. Per rispondere, dovette fare uno sforzo: — Bello, bello!
E poi, avendo visto da vero il ritratto, esclamò quasi gridando:
— Come doveva essere sano! Ne ho veduti pochi così! —Quasi si esaltava sentendo la propria voce.
La signora disse:
— La scarlattina!
Egli la guardò sorpreso; e poi riflette: «Già è morto; non è vivo. Credevo che vivesse. Bisogna che me lo ricordi, se me ne riparla».
— Come vorrei bene ad un ragazzo così!
La signora si compiacque di questo sentimento; e allora, con premura, rispose:
— Ma lei ha un figlio che è carino altrettanto!
«Dio mio! Come devo fare a volere bene a mio figlio!» — Già, anche il mio è quasi eguale.
Poi, temendo di aver detto una cosa arrischiata:
— Ma il suo nipotino doveva essere più... grasso... non so... più roseo... fresco... pare che rida! «Le ho detto così anche l’altra volta?».
— Oh, no! Il suo figliolo è vispo, intelligente e... crescerà.
Parlando con la signora Daria, aveva sempre sentito una vita di morti, sgradevole, ostile, silenziosa che lo irritava, quasi soffocante in quel salotto che pure era grande, con i tappeti in terra, con i cuscini a ricami, con i mobili dorati, stile impero, con un soffitto affrescato da un bravo cinquecentista. Il tè era caldo e buono; le tazze belle. La signora Daria intelligente ed amica. Dio mio! Ma gli faceva l’effetto di entrare in una famiglia che stesse insieme con i suoi antenati! La figlia della signora Daria, la signora Pierina, quella per la quale faceva le visite, non l’aveva più vista; e chi sa dov’era perché aveva paura, domandandolo, di far capire qualche cosa. Era da vero spiacevole, e pensò che non si sarebbe fatto più vedere: la pazienza per aspettare il caso non ce l’aveva di certo. Ma, poi, egli stesso era proprio sicuro che gli piacesse questa signora Pierina? Quante volte ci pensava, quando non era a parlare con la vecchia? Mai. E allora?
Non capiva bene se fosse il salotto che gliela facesse venire in mente, o se gli venisse in mente il salotto quando s’era ricordato di lei. «Che cosa spiacevole, quasi repugnante!».
Ora avrebbe inveito contro la signora Daria, per farla finita; con quelle insopportabili storie sentimentali di famiglia, che lo facevano preoccupare quantunque gli fosse impossibile di provarne l’effetto né meno in piccolissima parte.
La signora Daria ora lo guardava, tranquilla e soddisfatta; ma con un’aria signorile, di cui egli diffidava, soffrendone.
Grassa, con un neo sul mento da cui escivano quattro peli bianchi che parevano fili tagliati. Sbatteva gli occhi e dondolava troppo la testa; ma aveva ancora tutti i denti, e i suoi capelli erano di un bel candido, quasi lucente; folti e simili alla lana. Inoltre, niente affatto sorda. Ora godeva il patrimonio lasciatole dal marito, un notaio che aveva, ogni anno, messo da parte una discreta somma.
Michele non era altrettanto ricco; e aveva fatto perfino il segretario comunale in un paese di montagna, quasi in maremma, ed ora sperava di avere un buon posto nell’amministrazione di una ferrovia nuova. S’era ammogliato a ventidue anni e aveva avuto subito un bambino. Simpatico, con la fronte piuttosto alta, i capelli quasi neri, sempre pettinati, e i baffi più chiari dei capelli: certi baffi che restavano sempre gli stessi; mentre la barba gli nasceva soltanto sotto il mento; il volto roseo e rotondo. Del resto, un tipo comune ed insignificante.
Egli stesso si considerava d’intelligenza molto mediocre; e, quando doveva parlare con uno più intelligente di lui, fingeva di non dargli importanza e se la svignava arrossendo e provando un sentimento cattivo.
Calcolando, dunque, che con la signora Pierina non avrebbe mai concluso nulla, e indispettito, tentò tutti i mezzi per far tornare la conversazione sul suo inconveniente mentale, obbligando la vecchia a considerarla una cosa stravagante ma di effetto.
Però, la signora Daria disse:
— Perché non si fa visitare da un medico?
Allora, gli venne la voglia di alzarsi e di rispondere male.
— Un medico? E perché un medico? Crede che sia una vera malattia? l’ho detto io a lei, ch’era una malattia; ma non c’è bisogno ch’io mi faccia visitare. Lo farei ridere il medico! Non le pare? Perché mi ha detto così?
Ella, pensando che se ne fosse avuto a male, arrossì; ma sorrise nello stesso tempo. E, perché si calmasse, gli offrì un’altra tazza di tè.
Egli rispose secco:
— Non ne voglio più.
— Lo eccita?
— Non mi eccita il tè. Sono eccitato io stesso!
E vedendo che la signora n’era dispiacente, proseguì, andando con le mani quasi sopra le sue, sinceramente:
— La colpa non è sua! Dio mio, non ci mancherebbe altro che io dessi la colpa a lei! Dipende tutto da me! È la stessa cosa con l’inconveniente. Deve scusarmi lei, in vece! Creda a quel che dico io. Lei non ci ha colpa.
La signora non ne poteva più, presa tra la voglia di mandarlo via e quella di fare una risata.
Egli, quasi tremando, scosso da’ suoi nervi, chiese:
— E la signora Pierina?
Meravigliata, ella rispose:
— Non so: credo che non possa escire, perché ha il marito a letto, raffreddato. Con questa stagione!
— Già, già, questa stagione. Ma a me il raffreddore non viene, glielo assicuro!
La signora sbadigliò:
— Ah, no?
«Dio mio, l’ho fatta annoiare! Bisogna che me ne vada. Quanto è che sono qui?» Ma continuò:
— Dunque, la signora Pierina.... È tanto tempo ch’io non la vedo!
— Ma perché non va a trovarla?
— Conosco poco suo marito!
— È vero: bisognerebbe che lo incontrasse.... Lei, vero, non gioca al bigliardo?
— Mai — rispose egli con soddisfazione, quasi con orgoglio.
— Lo potrebbe vedere tutti i giorni, dopo pranzo. Ci si diverte tanto lui!
Egli sorrise, ma distratto. Era certo, però, che non sarebbe più tornato a trovare la signora Daria. Guardò beffardamente tutto il salotto, con quei ritratti che lo facevano infuriare, con quei mobili tenuti tanto bene, con i tappeti puliti come se fossero nuovi. Poi, sorridendo, guardò fisso la signora; per provocarla a dir qualche cosa. Ma ella fece atto di alzarsi; e allora egli se ne andò. Quasi in fondo alle scale, all’ultimo pianerottolo, urtò una signora che saliva. Voltosi a guardarla e per chiederle scusa, riconobbe che era la signora Pierina. Allora, mentr’ella seguitava a salire, egli si fermò e la minacciò con i pugni chiusi. Era la prima o la seconda volta?